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 2012  giugno 01 Venerdì calendario

Gorizia, 1972, ultimi giorni di maggio. Budicin Giorgio, ventisette anni. Sarebbe stato un bravo calciatore, ma l’hanno rovinato l’amore per la vita comoda, per le belle macchine e per le moto

Gorizia, 1972, ultimi giorni di maggio. Budicin Giorgio, ventisette anni. Sarebbe stato un bravo calciatore, ma l’hanno rovinato l’amore per la vita comoda, per le belle macchine e per le moto. Fa il rappresentante per Gorizia e Trieste per conto di un’azienda del settore anti-infortunistico. Il 27 maggio Budicin, che ormai vive a Verona, arriva a Gorizia per lavoro e per giocare una partita di calcio in un torneo tra bar. Va all’albergo Transalpina, si cambia, esce in tuta e scarpe da ginnastica. Ma è in ritardo, può giocare soltanto un tempo. La partita finisce due a due. Il campo non è attrezzato con docce e spogliatoi e Budicin torna in albergo con le scarpe ancora sporche di terra e le lava nel lavandino. Le tre sere successive Budicin le trascorre con amici in un night di Nova Gorica. La sera del 31 cena e poi si mette a guardare la finale di Coppa Campioni, Ajax-Inter. Finita la partita fa un giro e infine va a letto. Il mattino dopo si sente chiamare. Sotto c’è il suo amico Maurizio che gli grida: “Ciò, mona, te ga visto i tuoi amici? I li ga fati saltàr”. Larocca Furio, ventotto anni, sposato da poco, un figlio. Lavora malvolentieri in un bar del cognato, a Tarcento, vicino a Udine. Ha fatto anche l’imbianchino e il carrozziere. Quel mese di maggio va a lezioni di guida per prendere la patente da camionista e la sera torna a casa presto perché è già stato denunciato per lite e non vuole guai. Così fa anche la sera del 31 maggio. Sul primo c’è Ajax-Inter, ma sua madre insiste per guardare il film sul secondo. Il mattino dopo gli dice: “Visto cossa che xe successo? Meno mal che te ieri a casa soto i miei oci!” E lui risponde: “Ma cossa te va a pensar?” Gianni Mezzorana, ventinove anni, imbianchino. Timidissimo, molto miope. Non è sposato. Appartenente alla malavita locale, dicono i carabinieri, in realtà un ambiente di ladruncoli, balordi e piccoli delinquenti. La sera del 31 maggio è a casa di sua sorella Maria, perché il suo televisore non funziona e vuole vedersi la partita in pace, non in un bar. C’è un’amica di Maria, che vorrebbe guardare il film sul secondo. I due discutono. Finita la partita Gianni torna a casa a dormire. Il mattino dopo va a comprare il Piccolo, ma il giornalaio gli dice che è già finito. “Perché?” domanda lui. “Xe successo qualcossa de grave”. Allora lui compra il Messaggero. Qualche mese prima: Gorizia, febbraio 1972. Tra il 1971 e il 1972 Larocca, Budicin e Mezzorana fanno gruppo fisso, sono amici di bar e di bevute. Larocca lavora nell’autofficina dei fratelli Brigadin; da quelle parti c’è un’altra officina, quella dei fratelli Fabris. Alla fine di febbraio del 1972 nell’osteria Piemontese, anch’essa di proprietà dei Fabris, scoppia una lite tra Mezzorana, Budicin e Larocca da una parte e i fratelli Fabris dall’altra. Quella stessa notte ignoti danneggiano alcune auto fuori uso davanti all’officina dei Fabris. L’episodio, non si sa come, giunge all’orecchio dei carabinieri: Larocca, Budicin e Mezzorana sospettano di due ex amici, i fratelli Rustja, uno dei quali diventerà poliziotto. Sera dopo, stesso bar, altra lite: questa volta tra i tre amici e i fratelli Rustja. Nel mezzo della lite Budicin urla al Rustja che entrerà in polizia le parole fatali “Sporca spia dei carabinieri!” Anche questo giunge a conoscenza dei carabinieri, ma nella versione (almeno così dicono le forze dell’ordine) “Spia degli sporchi carabinieri!” Per quella sera finisce lì: i fratelli Rustja si nascondono nel retro del bar, Larocca li attende per un po’ e poi se ne va. Notte successiva. Con una lanterna a petrolio viene dato fuoco alla porta dell’officina Fabris. Il cane di Lineo Fabris, Dick, si brucia un po’ il pelo nel piccolo incendio. I carabinieri denunciano Mezzorana, Budicin e Larocca. Processualmente è cosa da poco, ma il fatto assumerà proporzioni emblematiche. Al processo i tre dovranno rispondere, oltre che dei danneggiamenti, anche di vilipendio ai carabinieri, per quella frase che si è trasformata da “Sporca spia dei carabinieri” a “Spia degli sporchi carabinieri”. E poco importa che Budicin venga assolto dal reato di vilipendio (“Perché avrei dovuto dare degli sporchi ai carabinieri, se ce l’avevo coi Rustja?”): a un certo punto importerà solo che quell’accusa ci sia stata. Gorizia. Gorizia in quei primi anni Settanta è una cittadina povera, con più caserme che fabbriche, con tante osterie, priva di altri svaghi. A Gorizia, soprattutto in quegli anni, i matrimoni con i rappresentanti delle forze dell’ordine sono molto ambiti perché sinonimo di stabilità economica. Va da sé che si tratta spesso di ragazzi e uomini del Sud. I meridionali, a Gorizia come a Trieste, ancora oggi li chiamano “taliàni”, “italiani”, in senso vagamente dispregiativo. In quei primi anni Settanta questo piccolo embolo del Nord Est non è particolarmente politicizzato, tenendo conto del clima dell’epoca e della posizione geografica della città: la vita scorre tranquilla, in assenza di benessere, sul confine. I due settori industriali portanti, quello metalmeccanico e quello tessile, sono in crisi e i disoccupati stentano a trovare impiego altrove. Sono anni di insicurezza e di cassa integrazione. La sostanziale separazione delle fabbriche e dei quartieri dei lavoratori dal centro cittadino e la mancanza di una coscienza e di una cultura operaie hanno portato a un’emarginazione del ceto operaio. Quello medio, storicamente nazionalista, è omogeneamente democristiano. A Gorizia la criminalità è di piccolo calibro, e a fare notizia sono furti maldestri, risse in privata, piccole vendette tra nemici o rivali. Le zone associate al disagio e alla delinquenza sono via Lunga, via Rabatta, il quartiere di Montesanto, in particolare la zona delle Casermette addossata al confine, verso Salcano. Gorizia è una città povera. Quando si spargerà la notizia che per l’attentato è stata usata una Cinquecento imbottita di esplosivo rubata fuori dell’osteria di via del Brolo saranno in tanti a commentare, senza cinismo e sgranando gli occhi, “I gà usà una machina nova! Una Cinquecento!” Una Cinquecento per fare a pezzi tre carabinieri. 31 maggio 1972. Questa parte l’avrete letta, la conoscerete più meno bene, ve l’avranno raccontata. Comunque. La strada è quella che porta da Sagrado a Savogna costeggiando l’Isonzo: tranquilla e ombreggiata, è zona di coppiette e pescatori, e quella sera qualche pescatore in effetti c’è, perché è maggio e la notte si pescano le anguille. Tanti invece hanno deciso di guardarsi la partita alla tv, perché quella sera sul primo canale c’è la finale di Coppa Campioni che si concluderà con la vittoria dell’Ajax sull’Inter per due a zero, due reti di Crujff. Alle 22.35 al Pronto Intervento dei carabinieri di Gorizia arriva la telefonata, un po’ in italiano e un po’ in dialetto, fatta da un telefono a gettone: “Senta, vorrei dirle che la xe una machina che la ga due busi sul parabrezza. La xe una cinquecento bianca, vizin la ferovia, sula strada per Savogna”. La chiamata viene registrata. Vengono inviati sul posto i carabinieri di Gradisca, competenti per quella zona: parte una gazzella con l’appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. Dieci minuti dopo i due sono sul posto e trovano la Cinquecento. È visibile in un viottolo di terra battuta, subito dopo una curva, al chilometro 5. È targata GO 45902. I buchi sul parabrezza ci sono, sembrano sparati dall’interno. Mango decide di chiamare il suo ufficiale, il tenente Tagliari, che parte anche lui accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo. La seconda gazzella arriva alle 23.05. Tagliari perquisisce l’interno della Cinquecento e non trova niente. Ma a questo punto da Gorizia parte, abbastanza inspiegabilmente, una terza gazzella. 23.25. Tagliari a quel punto decide di dare un’occhiata al portabagagli. Si china, allunga il braccio sotto il volante della Cinquecento per cercare la leva che apre il cofano. Tre uomini sono davanti alla macchina. Lui trova la leva e tira. Il Braghetto, che sta pescando lì sotto – con l’ombrello, perché piove – racconterà a mio padre: “Gò sentì un sciòpo cussì forte che me la gò fata in braghe. Con rispeto parlando”. La leva, scattando, ha fatto scoppiare una bomba nascosta nel portabagagli. Ferraro, Dongiovanni e Poveromo sono investiti in pieno dall’esplosione e fatti a pezzi. L’ufficiale, protetto dalla portiera aperta, resta gravemente ferito. Le salme vengono portate nella caserma dei carabinieri di via Nazario Sauro, le bare allineate sul biliardo. Questa è la strage, o più correttamente l’eccidio di Peteano. Antonio Ferrero, trentun anni, siciliano, sposato da poco e in attesa del primo figlio. Donato Poveromo, trentatre anni, lucano, anche sua moglie è incinta. Franco Dongiovanni, di Lecce, ventitre anni. E una Cinquecento nova. L’Italia. Il Settantadue per l’Italia è un anno pesante. Nel febbraio il capo del Sid Vito Miceli riceve dall’ambasciatore americano 800.000 dollari per finanziare la propaganda delle elezioni anticipate del 7 maggio con l’aiuto di un estremista di destra (“legato a un gruppo giovanile e membro del comitato centrale del movimento politico di estrema destra”, lo definisce Otis Pike nel suo rapporto sull’attività della CIA in Italia). Il 14 marzo salta in aria Giangiacomo Feltrinelli. Il 21 marzo viene rinviata alla magistratura milanese l’istruttoria Freda-Ventura su Piazza Fontana, segnando un punto di svolta nelle indagini sul terrorismo, finora condotte a senso unico e cioè a sinistra. Il 5 maggio durante una manifestazione a Pisa la polizia attacca l’anarchico Franco Serantini, che muore dopo due giorni di agonia. 7 maggio, elezioni anticipate e balzo dell’MSI con l’8,67%. 17 maggio: omicidio Calabresi. 31 maggio, Peteano. 25 agosto: a Parma militanti missini uccidono a coltellate Mariano Lupo, Lotta Continua. E poi la strategia della tensione, che tra il 1971 e il 1972 comincia ad agire soprattutto nelle zone in cui le forze militari sono più numerose: Trento, Gorizia, Trieste. 26 marzo 1971: bombe sulla linea ferroviaria Trieste-Venezia. 27 marzo 1971: bombe sulla Udine-Venezia. 15 settembre 1971: bomba al monumento ai caduti di Latisana. Nel dicembre 1971 e nel gennaio 1972, attentati dimostrativi a Udine contro due fascisti e un onorevole missino. Fine febbraio-inizi marzo 1972: in una grotta di Aurisina, vicino a Trieste, viene trovato un grosso quantitativo di esplosivo T4. 1° aprile 1972: attentato alla linea ferroviaria Trento-Malè, con l’intento di far deragliare un treno di pendolari. Corrono voci insistenti di un imminente colpo di stato fascista. A tutto questo si aggiungono altri due episodi. L’attentato al deposito costiero dell’oleodotto Trieste-Baviera, il 4 agosto 1972, e soprattutto il tentato dirottamento di un aereo a Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia, il 6 ottobre 1972. I responsabili dell’azione sono l’ex-parà Ivano Boccaccio, che viene ucciso dalla polizia, e Carlo Cicuttini, che riesce a fuggire inaugurando così una lunghissima latitanza. In casa di Boccaccio la polizia trova un giornale del 1° giugno con i particolari della strage di Peteano. Il processo lampo, durante il quale Cicuttini è giudicato in contumacia e condannato, dura in tutto due ore. Nessuna perizia sulle voci dei dirottatori registrate durante le trattative, nessuna perizia sulla Calibro 22 trovata accanto al corpo di Boccaccio. E perché mai? Nel mese di novembre le indagini per l’eccidio di Peteano si spostano decisamente sulla “malavita” goriziana: la cosiddetta pista gialla. All’inizio fu la pista rossa. Il responsabile dell’indagine sull’eccidio è Dino Mingarelli, comandante della Legione Udine: in quel momento è in attesa della promozione a generale ed è giunto nel nordest da Milano: qui era capo dello stato maggiore della divisione Pastrengo ed era stato coinvolto nello scandalo Sifar, che rivelò il suo ruolo di braccio destro del generale De Lorenzo nell’attuazione del “Piano Solo”, il progetto di colpo di stato che stava per essere attuato nel 1964. Nelle indagini sull’eccidio di Peteano Mingarelli punta subito a sinistra. Ora non è più così facile addossare tutte le colpe agli anarchici, e così si cerca tra i gruppuscoli della sinistra extraparlamentare più esposti alle infiltrazioni, in particolare tra alcuni universitari appartenenti a Lotta Continua che studiano a Trento. Un classico. I giudici di Milano lo indirizzano invece a destra, visto che a Udine ci sono elementi della cellula rivoluzionaria che secondo Giovanni Ventura sono in contatto con Freda (va notato che Mingarelli userà l’espressione “un certo Freda” per riferirsi all’imputato principale della strage di Piazza Fontana). Le informazioni dei giudici di Milano costringono dunque i carabinieri a chiudere a malincuore la “pista rossa”. Intanto se ne sono andati circa tre mesi. Per liquidare la “pista nera” ci mettono ancora meno: identificano la cellula rivoluzionaria di Udine – della quale fanno parte Vincenzo Vinciguerra e il suo gemello Gaetano, Ivano Boccaccio (morto nel dirottamento di Ronchi), Carlo Cicuttini (latitante) – ma si limitano alla raccolta di informazioni anagrafiche. L’8 novembre Mingarelli riceve un “invito” da parte del Sid di interrompere le indagini sulla cellula nazista del Veneto orientale. Mingarelli, fedelissimo del Sid, ubbidisce, chiude la pista nera e ne apre subito un’altra. C’è un gruppetto di balordi che i carabinieri tenevano già d’occhio: eccoli, i mostri. I mostri. Il 21 marzo 1973 il colonnello Mingarelli annuncia che dopo indagini durate dieci mesi i carabinieri hanno arrestato sei appartenenti alla malavita goriziana. Accusa: la strage di Peteano. Movente: vendetta. Ci sono Mezzorana, Budicin e Larocca, che anche grazie al fondamentale contributo della stampa locale e nazionale sono dipinti come delinquenti pronti a tutto: sono dei vandali (hanno dato fuoco alla carrozzeria di Fabris, in passato si sono resi colpevoli di atti teppistici nel cimitero di Piuma), odiano i carabinieri (“sporca spia dei carabinieri!” o “spia degli sporchi carabinieri!”), hanno tendenze sadiche (il cane di Fabris si è solo bruciacchiato il pelo, ma si dirà che è morto), è gente capace di diabolica premeditazione (una volta, per compiere un furto in un magazzino di alimentari indossarono scarpette da calciatore: per non lasciare impronte, dicono i carabinieri). I tre esecutori materiali dunque ci sono. Mancano la mente, la dark lady e l’esperto di esplosivi. E ci sono anche quelli: si chiamano Romano Resen, Maria Mezzorana ed Enzo Badin. La mente. Romano Resen, trentasei anni, è un tipo avventuroso, spirito libero ma buon lavoratore. Riceve un’educazione di stampo nazionalistico, anche per questioni di storia familiare: il papà è morto nella campagna di Russia, uno zio ha partecipato all’impresa di Fiume con D’Annunzio, un altro zio ha fatto la campagna d’Africa. “Quando mi sono venuti i calli alle mani ho cambiato idee politiche”, racconterà poi. Ha un matrimonio fallito alle spalle e tre figli: uno di questi avuto dalla nuova compagna, Annamaria Scopazzi. Resen è un bravissimo cuoco, ma per vivere a un certo punto è costretto a fare il camionista. Nei suoi viaggi lo accompagna Walter Di Biaggio, uno spiantato e un poco di buono amante di Maria Mezzorana: Resen lo aiuta e lo ospita in casa insieme a Maria. All’inizio del 1972 Resen ha un alterco con un carabiniere per una multa. Viene denunciato e il suo avvocato gli consiglia di andarsene per un po’. Non solo, ma è nei guai anche perché Di Biaggio, che nel frattempo ha cacciato, gli ha lasciato in casa una radiolina rubata. Così Resen decide di imbarcarsi su una nave come cuoco. Pomeriggio del 26 maggio. Resen, che fa nuovamente il cuoco all’Hotel Aci di via Trieste, è al bar Goriziano. Annamaria gli porta di corsa un telegramma dall’agenzia marittima di Genova che lo informa che c’è un posto su una nave che parte da Amburgo tra qualche giorno. La mattina dopo deve trovarsi a Genova. Allora va alla Telve (i telefoni pubblici) a confermare che accetta il lavoro. Poi corre all’Hotel Aci per preparare l’ultima cena prima della partenza. In tarda serata incontra la compagna e un paio di amici, con i quali passa il resto della serata. Vanno a ballare da Bepi, a Oslavia. La mattina dopo prende il treno per Genova, poi parte per Amburgo. Il 1° giugno vola a Londra e di lì a Dubai, dove si imbarca sulla petroliera Glor Nicku. Gli inquirenti diranno che Resen quella sera non ci è andato, al ristorante, se non molto più tardi, dopo aver organizzato l’eccidio con Larocca e i fratelli Gianni e Maria Mezzorana: ha detto loro di rubare una macchina, di nasconderla in una legnaia a casa di Mezzorana, di riempirla di esplosivo, di telefonare ai carabinieri. Ha poi consegnato ai tre il T4, da affidare all’esplosivista del gruppo. Poi, dopo la prima e ultima riunione con gli esecutori materiali, li ha salutati ed è andato ballare. Sempre secondo i carabinieri, Resen non è neanche stato ad Amburgo. La descrizione che Mingarelli dà di lui è: “autenticamente antisociale”, “mente perversa”, “irrequieto”, “ora esercente, ora camionista, talaltra cuoco e talaltra marittimo”, “un violento”. E poi coverebbe nei confronti dei carabinieri “un odio profondo e assurdo”. Così dopo il suo ritorno a Gorizia (si è ammalato e viene sbarcato per curarsi) cominciano a interrogare anche lui. Ma Resen l’ultima sera al ristorante Aci se la ricorda bene: quel 26 maggio cucina una scarpena, un piatto raffinato che fa una gran bella figura. Tanto che il gestore del ristorante, il signor Veronese, infila mezzo limone nell’occhio del pesce e dice soddisfatto: “Così è più bello”. Ed era proprio un bel piatto, ricorderà Resen. La dark lady. Maria Mezzorana, quarant’anni, sorella di Gianni. Separata, ha una figlia ormai grande. Fa la cameriera. Tra i suoi fidanzati c’è stato Walter Di Biaggio, ladro, che a un certo punto finisce in galera. Allora Maria si mette con Bruno Furlan, un altro balordo. A causa di Di Biaggio e di Furlan i carabinieri (o forse la polizia) le perquisiscono la casa: è in quel momento, si dirà, che Maria matura il fermissimo proposito di vendicarsi. In quel mese di maggio del 1972 lavora alla trattoria da Sonia, vicino a Peteano. Qualcuno racconterà di averla vista fare autostop su quella strada, la sera del 31 maggio. Del resto è così che il colpevole si allontana dal luogo della strage: in autostop. Al limite in taxi, come Valpreda (in questo caso è raccomandabile che il tassista-testimone di lì a poco muoia all’improvviso di polmonite secca senza febbre). Maria viene interrogata molti mesi dopo l’eccidio: entra in caserma alle 10 del mattino e la lasciano andare alle 6 di sera. Alle 2 del pomeriggio le portano un caffè. Un amico carabiniere una volta le ha detto di non accettare mai niente dalle forze dell’ordine: e infatti, racconterà, “quella volta lì i me ga dà un caffè con le gocce dentro. Quando son stada fora gò vomità tutto e go sentì odor de medicina”. Tempo dopo il capitano Chirico (“un bel omo”) che conduce gli interrogatori le dice “Signora, ci aiuti, non sappiamo che pesci pigliare”. Lei risponde “Devo dirghe mi dove andarli a cjapar?” L’esperto di esplosivi. Enzo Badin, venticinque anni, famiglia piccolo-borghese. Non dice a nessuno della bocciatura agli esami di abilitazione tecnica e finge anzi di essersi diplomato e di studiare medicina all’università. Sogna di fare il giornalista e per questo bazzica la sede del Gazzettino, dove fa il fattorino-factotum: questo lo porta a frequentare poliziotti e carabinieri, che si insospettiscono proprio perché Badin chiede troppo spesso se ci sono notizie sulla strage. Conosce Mezzorana, Budicin e Larocca e spera ingenuamente di fare uno scoop. La sera del 31 maggio, dice, era a Trieste ma non ricorda in quale locale. Ha cognizioni di esplosivi? Sì, dicono i carabinieri: ha fatto le scuole tecniche. In più Badin ha frequentato in passato una comune di anarchici. E anarchia nell’immaginario borghese significa bombe. Così senza saperlo e senza venire mai interrogato formalmente Badin diventa l’esplosivista, nonché il telefonista di riserva, nel caso la voce non dovesse corrispondere a quella di Mezzorana. E quale sarebbe il movente di Badin, un tipo tranquillo che non odia le forze dell’ordine né appartiene alla malavita locale? Lì Mingarelli e Chirico superano se stessi: senso dell’amicizia. È quasi fatta, gli elementi ci sono tutti. Ne manca uno, fondamentale: il testimone. Il supertestimone. Walter Di Biaggio, pregiudicato per reati contro il patrimonio, è l’ex amante di Maria Mezzorana. È finito in carcere nel novembre del 1971: era andato a rubare a casa di un avvocato, pare il suo ex-legale, collezionista di armi antiche, e aveva abbandonato il piede di porco sul luogo del reato lasciando la propria firma. Mentre è in carcere Maria lo lascia per mettersi con Bruno Furlan, e lui cova la vendetta. Nel luglio del 1972 Di Biaggio ha il primo colloquio con i carabinieri: offrirà loro la storia, il filo conduttore che spiega le ragioni e le modalità della strage. Racconta come Resen, camionista, si sia procurato il T4 “probabilmente in Svizzera”, come la Mezzorana gli avesse comunicato l’intenzione di fare la strage e come Gianni Mezzorana abbia rubato la macchina. L’idea dell’attentato i sei colpevoli l’avrebbero presa da lui, che in passato aveva pensato di organizzare una serie di attacchi contro le forze dell’ordine per distrarle e rapinare con calma una banca. Così il PM Bruno Pascoli ricostruisce il progetto criminoso: “L’insana idea sorse nel luglio 1971, quando il Resen, parlando con Bruno Furlan, in presenza di Walter Di Biaggio, gli propose di far saltare una caserma dei carabinieri o della pubblica sicurezza. [...] Un giorno, a causa dei continui fastidi cagionati dalla pubblica sicurezza e più ancora dai carabinieri, la Maria Mezzorana, nella cui abitazione frequentemente ebbero a riunirsi il Resen, il Furlan e il Di Biaggio e anche il di lei fratello Gianni, dando sfogo ai propri sentimenti di incontenibile rancore verso i carabinieri, che poco prima avevano effettuato una perquisizione nel suo domicilio, esclamò, in preda alla più viva agitazione, che era ora di finirla e che gliel’avrebbe fatta pagare, addirittura accennando all’idea di farli saltare in aria. Ciò accadeva in presenza del di lei fratello Gianni, del Larocca e del Budicin. Costoro, che con le forze dell’ordine avevano avuto non soltanto noie, ma anche rapporti per fatti di una certa gravità e che pertanto a loro volta nutrivano odio, specialmente per i carabinieri, si sentirono quasi istintivamente determinati ad agire autonomamente e immediatamente”. Ecco come nasce una strage: un giorno a uno viene l’idea di far saltare in aria una caserma; tempo dopo una che vuole vendicarsi dei carabinieri si ricorda di questa idea e la comunica ai propri complici animati dallo stesso diabolico proposito. E la strage si fa. La gita a Pieris. C’è un altro elemento che entrerà nell’inchiesta e che in assenza totale di prove e di nessi assumerà un luce sinistra, avvalorando la tesi della crudele vendetta: la gita a Pieris. Pieris è una frazione di San Canzian d’Isonzo, vicino a Monfalcone. Per un po’ di tempo Maria Mezzorana aveva lavorato in una trattoria davanti al ponte di Pieris molto frequentata dai soldati dopo le manovre: proprio dai soldati aveva sentito dire che sotto il ponte c’era dell’esplosivo e l’aveva raccontato agli amici. Un giorno Mezzorana, Larocca e Budicin fanno un giro da quelle parti, si ricordano delle parole di Maria e cercano l’esplosivo sotto il ponte, senza trovarlo. La storia finirebbe qui, se al bar una sera, dopo i primi interrogatori, a Budicin non venisse in mente di dire ingenuamente al Larocca: “Pensa ti se i saveva del ponte de Pieris, de quela volta che gavemo cercà l’esplosivo”. Pensa ti. Quella sera stessa qualcuno riferisce la frase ai carabinieri. La gita a Pieris entra così ufficialmente nell’inchiesta, non perché i tre avessero trovato l’esplosivo, ma perché avevano la ferma intenzione di trovarlo. Perché cercare dell’esplosivo, se non per usarlo? E come usarlo, se non per imbottire una Cinquecento rubata e fare una strage? - à suivre – – continua -