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 2012  maggio 29 Martedì calendario

Il figlio fu ucciso sulla Tienanmen. Il padre si impicca vent’anni dopo. Gesto per chiedere giustizia

Il figlio fu ucciso sulla Tienanmen. Il padre si impicca vent’anni dopo. Gesto per chiedere giustizia. In Tibet si immolano due monaci PECHINO — Forse davvero Ya Aiguo la sera del 3 giugno 1989 era uscito solo per fare compere con la fidanzata, come dichiarò la madre. Ma anche se fosse andato a unirsi agli studenti e ai cittadini pronti all’avanzata dei militari verso la Tienanmen, non cambierebbe nulla. Ya Aiguo venne inchiodato per sempre ai suoi 22 anni quando i soldati spararono. Cadde dalle parti di Gongzhufen, non troppo lontano dal museo militare e dal ponte di Muxidi, dove la folla tentò di resistere ai carri armati mandati a farla finita con l’occupazione innescata dalla morte dell’ex leader riformista Hu Yaobang, il 15 aprile. Ya Weilin, il padre, e Zhang Zhenxia, la madre, lo trovarono il 5 giugno. Era morto all’ospedale numero 301, lo seppellirono a Tianjin. In fondo, però, Ya Weilin non smise mai di cercare Aiguo, il suo secondogenito, né lo seppellì mai davvero. E così, alle 10 del 24 maggio scorso, l’introverso Weilin, un settantatreenne in buona salute, è sparito. Il pomeriggio del 25 è stato ritrovato impiccato in un parcheggio sotterraneo. Suicidio. A una settimana dall’anniversario del 4 giugno sono state le Madri della Tienanmen a dare ieri la notizia della morte di Ya Weilin. Un «immenso dolore». L’associazione che riunisce i genitori dei ragazzi falciati dalle truppe perde ogni anno qualcuno: troppo anziani, troppo tempo trascorso. Invece Ya Weilin si è tolto la vita per la «disperazione» provocata da una «richiesta di giustizia che per oltre vent’anni non ha avuto risposta». In una nota che la polizia ha sequestrato aveva scritto: combatterò fino alla morte. Lo ha fatto a modo suo. Quando Aiguo venne ucciso, con centinaia (o migliaia) di caduti della repressione voluta da Deng Xiaoping, i famigliari gli dissero di lasciar perdere. Lì per lì fu così, poi lui — impiegato del ministero per l’Industria nucleare — si unì alle Madri, guidate dalla professoressa Ding Zilin, che perse il figlio diciassettenne. Ya Weilin divenne un membro attivo, a ogni anniversario ha raccolto le firme per pretendere invano un’ammissione da parte dei leader, ha assistito all’ovvio impantanarsi di una causa intentata contro le autorità e si è lasciato finire da 23 anni di non-risposte. I «fatti del 1989» restano l’intoccabile tabù di un Partito comunista che il prossimo autunno rinnoverà i propri vertici. È un tema di cui non si parla, una ferita visibile e rimossa. Un’aperta discussione è omessa nel nome di una stabilità contro la quale congiurano sia timori economici (e dunque sociali) sia vecchie piaghe, come il Tibet. Proprio ieri per la prima volta le auto immolazioni sono arrivate al cuore del cuore del Tibet, davanti al tempio Jokhang del capoluogo Lhasa, dove due uomini si sono dati fuoco dopo aver lanciato slogan, in mezzo a pellegrini e turisti. Uno è morto, uno è rimasto ferito. Circa 35 i casi analoghi dal 2011. Anche il dramma del 1989 è un’ustione per la Cina. Nelle settimane scorse era circolata la voce che il premier Wen Jiabao avesse tentato di aprire una discussione ai massimi livelli del Partito, senza riuscirci. Wen allora era collaboratore strettissimo di Zhao Ziyang, il segretario del Partito rimosso perché troppo dialogante e poco risoluto nel contrastare le proteste. L’anno scorso, poi, le stesse Madri avevano fatto sapere che una famiglia era stata avvicinata da emissari del governo con la promessa di un indennizzo, rifiutato. E l’ex sindaco di Pechino condannato per corruzione, Chen Xitong, avrebbe scritto in un libro in uscita a Hong Kong di non aver sollecitato affatto la linea dura a Deng e al premier Li Peng: «Ho solo eseguito gli ordini». Materia per gli storici, che tuttavia non consola chi perse un figlio. Solo una frase di Chen, forse, potrebbe essere sottoscritta da tutti: «Fu una tragedia che si sarebbe potuta evitare».