Marco Bertoncini, ItaliaOggi 26/5/2012, 26 maggio 2012
Non si farà la riforma elettorale – Se il Pdl subordinerà alla riforma semipresidenziale la legge elettorale sul doppio turno alla francese, come finora tutto fa credere (a cominciare dai primi segnali pervenuti già nel corso della campagna elettorale amministrativa), è palese che non si farà il doppio turno
Non si farà la riforma elettorale – Se il Pdl subordinerà alla riforma semipresidenziale la legge elettorale sul doppio turno alla francese, come finora tutto fa credere (a cominciare dai primi segnali pervenuti già nel corso della campagna elettorale amministrativa), è palese che non si farà il doppio turno. Probabilmente, anzi, non si farà nemmeno una riforma elettorale qualsiasi. Il fattore tempo lavora per chi intenda mantenere lo status quo. Se i vertici del Pdl avessero la percezione di quel che la gente pensa adesso di loro e dei partiti tutti, si affretterebbe a stralciare, dal disegno di legge costituzionale che chiuderà presto il primo tratto del lungo percorso (la votazione nella commissione senatoriale), una sola norma: la diminuzione del numero dei parlamentari. Anzi, ne proporrebbe il puro dimezzamento. Ma il Pdl procede come per il finanziamento ai partiti: ragiona con la mente al palazzo; quel che succede fra i cittadini non ricopre interesse, anche se le stangate elettorali dovrebbero insegnare. Il tempo consuma le possibilità di compimento della riforma costituzionale in discussione a palazzo Madama. Figuriamoci che succede quando si propone, d’acchito, il semipresidenzialismo. Il tempo, però, agisce pure sulla legge elettorale. Se, com’è logico, questa deve attendere l’eventuale riduzione del numero dei parlamentari, e sempre ammesso che il Pdl si acconci a discuterne in assenza del via libera al semipresidenzialismo, si assottiglia la possibilità di riscriverla. Anche ammesso che si voglia andare avanti con i plenipotenziari, però, la nuova proposta sul doppio turno azzera il lavoro svolto. E il cammino non sarebbe spedito. Le ragioni sono essenzialmente due. La prima ragione riguarda i contenuti. Per il principio «doppio turno alla francese» si era pronunciato ufficialmente il Pd; oggi il Pdl si dichiara a favore, ma con l’aggancio al semipresidenzialismo. Concedendo pure che si proceda, bisogna però accordarsi su quelle che potrebbero apparire peculiarità tecniche e che sono, invece, differenze politiche di tutto rispetto. Chi va al secondo turno? I primi due, secondo il sistema prevalente nell’Italia liberale? Oppure, come in Francia, tutti coloro che superino una certa soglia? E l’asticella si fissa a un de-terminato livello di elettori o di votanti o di voti validi? Ci si può ritirare dal ballottaggio? Sono consentiti gli apparentamenti? Si possono mettere più simboli? Il candidato è unico o c’è pure un vice? Ogni diversa risposta nasconde un diverso intendimento politico. La seconda ragione è elementare. Se si vuole procedere a una riforma che preveda collegi uninominali, in tutto o in parte, col sistema francese o inglese o tedesco o con qualsivoglia altro metodo, ebbene, occorrono poi, votata la legge, alcune settimane per disegnare i collegi e approvarne i confini con un decreto. Non è certo pensabile che si possa arrivare sotto capodanno a votare una leg-ge che contempli nuovi collegi o nuove circoscrizioni che non siano già identificabili (le regioni, le province). Eppure, esteriormente tutti i politici discettano delle riforme, sia costituzionali sia elettorale, come se il tempo abbondasse e, quanto alla legge per le elezioni, come se non si dovesse pensare ai collegati adempimenti. Diciamolo chiaramente: il cammino intrapreso pare celare la prevalente volontà di lasciare immutato il tutto.