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 2012  maggio 29 Martedì calendario

La modernità inasprì la caccia alle streghe Spesso a condurla furono intellettuali illuminati La storia delle credenze e delle pratiche atte ad ottenere l’intervento di geni malefici (e, più tardi, del demonio) per compiere sortilegi, risale all’antichità

La modernità inasprì la caccia alle streghe Spesso a condurla furono intellettuali illuminati La storia delle credenze e delle pratiche atte ad ottenere l’intervento di geni malefici (e, più tardi, del demonio) per compiere sortilegi, risale all’antichità. Marina Montesano in un assai interessante libro che esce domani per l’editore Salerno, Caccia alle streghe (pp. 188, 12,50), dimostra come essa sia indisgiungibile dalle culture pagane. Racconta Tito Livio che, nel 331 a.C., 170 matrone di Roma furono condannate a morte per aver provocato con il veleno il decesso di molti personaggi d’alto rango. Tacito riferisce che la malattia e poi la morte di Germanico vennero attribuite a un maleficio (nella sua stanza furono rinvenute ossa semibruciate assieme a grumi di sangue). In una delle Satire di Orazio, Canidia e Sagana si aggirano sull’Esquilino nell’antico cimitero degli schiavi: lì cercano ossa da mescolare a «erbe che nuocciono», poi seppelliscono vivo un bambino e sbranano a morsi un’agnella bruna, tutto al fine di «rendere folli gli uomini» Anche la Medea di Seneca «sceglie le erbe mortali, spreme e mescola veleno di serpenti e ripugnanti uccelli: cuore di lugubre gufo, viscere strappate alla rauca strige ancora viva». Le streghe di Plinio e di Petronio rubano i corpi dei neonati, li dissanguano, li divorano e li sostituiscono nella culla con dei fantocci. Le strigi, uccelli che stridono e di notte strappano i bambini dai loro piccoli letti per succhiarne il sangue, compaiono anche nei Fasti di Ovidio. Ancora prima, il Vecchio Testamento è profondamente intriso di «antimagismo», che trae origine dalla lotta di Israele contro i circostanti popoli pagani. Il cristianesimo non sarà da meno. Nella Lettera ai Galati, San Paolo condanna i veneficia. Ma, si apprende da Tertulliano (il quale nell’Apologeticum difese i cristiani da questo genere di calunnie), che i cristiani stessi furono accusati nel mondo antico di omicidi rituali e di pratiche orgiastiche e magiche. Il Concilio di Elvira (306) stabilisce che sia rifiutata la comunione a coloro che si applicano ai maleficia. Tertulliano e, a distanza di oltre un secolo, il vescovo milanese Ambrogio combatteranno le feste pagane che prefigurano i sabba stregoneschi. Costantino nel 331 consentirà di ripudiare la moglie (ma anche il marito) se si scopre che è una «medicamentaria», cioè una persona che abbia avvelenato o violato i sepolcri. Alla metà del V secolo, il Codice di Teodosio, raccogliendo gli editti da Costantino in poi, detta norme imprescindibili, nelle quali si intrecciano la condanna della magia e quella del paganesimo. Vengono mandati a morte incantatori, tempestari, coloro che turbano le menti, divinatori e indovini di vario genere, quelli che celebrano riti notturni nel corso dei quali si invocano i demoni. All’inizio del V secolo, però, Agostino d’Ippona invita a non confondere tra eresia e magia. E c’è chi, in modi diversi, si oppone a credenze e superstizioni dell’epoca. C’è un capitolare di Carlo Magno del 785 dove, a proposito dei sassoni sconfitti, si stabilisce che «se qualcuno ingannato dal diavolo, avrà creduto secondo la superstizione pagana che un uomo o una donna sia una strega e divori gli uomini e perciò l’abbia bruciata o ne abbia fatto mangiare le carni, o l’abbia mangiata, sarà punito con la sentenza capitale». Man mano che si procede verso l’anno Mille, l’ossessione nei confronti della magia riprende a crescere. Nell’Inghilterra della seconda metà del VII secolo, Teodoro, monaco di Canterbury, infligge tre anni di penitenza a coloro che hanno fatto dei sacrifici in onore dei demoni («intendendo presumibilmente le divinità precristiane»). Il penitenziale francese detto «di Halitgar», agli inizi del IX secolo, condanna ad una pena di cinque anni un uomo che abbia reso pazzo un suo consimile facendo ricorso al demonio. Nell’834, in occasione di un’improvvisa malattia di Ludovico il Pio, suo figlio Lotario I accusa una suora, Gerberga, d’aver fatto ricorso a pratiche «venefiche» e «malefiche»: Gerberga viene uccisa per annegamento. La morte improvvisa del re dei franchi orientali, Arnolfo di Carinzia, nell’899, è attribuita a un uomo e a una donna che avrebbero compiuto atti di magia: vengono entrambi torturati e messi a morte. Nel 970, a Londra, una donna e suo figlio sono accusati di maleficium: avrebbero fabbricato un fantoccio di pezza a immagine di un uomo per poi pungerlo con spilli e provocare così la morte dell’uomo stesso; la donna è condannata e annegata nelle acque del Tamigi. Le cose non cambiarono granché dopo l’anno Mille. Durante la prima metà dell’XI secolo re Ramiro I d’Aragona ordinò la condanna a morte di numerose «streghe». Nel 1208, in Aquitania, una donna e alcuni suoi complici furono bruciati vivi per aver causato con espedienti magici la malattia di Guglielmo d’Angoulême. La cosa si ripeté un secolo più tardi, nel 1128, per l’infermità del conte Teodorico delle Fiandre. «La lotta condotta dai legislatori e dalle autorità tanto laiche quanto ecclesiastiche contro i culti precristiani», nota Marina Montesano, «aveva lasciato pratiche e credenze legate agli antichi paganesimi spoglie dei contesti che le avevano prodotte». L’unica spiegazione proposta «era la seduzione diabolica che poteva declinarsi tanto nel senso di affermare la totale illusorietà degli effetti, quanto, al contrario, nell’ammetterne la reale minaccia». Alla svolta dell’anno Mille non era affatto scontato quale direzione avrebbe preso la cristianità e, anzi, ci saremmo potuti attendere «che la crescente razionalità del pensiero bassomedievale portasse al netto prevalere della prima tendenza». Invece accadde l’opposto. Fu la guerra ai catari — secondo quel che ha scritto Malcom Lambert, nel libro I catari (Piemme) — a saldare la caccia alle sette ereticali con quella alle streghe. I catari («puri»), provenienti probabilmente dai Balcani (nei primi decenni dopo l’anno Mille erano definiti «bulgari»), concepivano il mondo come dominato dalla lotta fra due principi, quello dello Spirito, luminoso e benefico, e quello della Materia, oscuro e malefico. La Chiesa li scomunicò nel Concilio di Tolosa (1119). L’imperatore Federico Barbarossa iniziò a combatterli su sollecitazione di Papa Lucio III nel 1184. Nel 1209 la Chiesa scatenò una crociata contro i catari di Linguadoca, che proseguì con ferocia fino al 1244, quando cadde la loro ultima roccaforte, il castello di Montségur, e duecento di quelli tra loro che avevano rifiutato di pentirsi e convertirsi furono bruciati vivi ai piedi della fortezza. Ma la guerra ai catari doveva durare ancora fino ai primi anni del XIV secolo. Fu papa Gregorio IX nel 1233 a descrivere i «comportamenti» che distinguevano queste sette: i membri, secondo il Pontefice, si riunivano in conventicole notturne durante le quali apparivano «uomini misteriosi, rospi e gatti di dimensioni insolite» e ci si dava a «orge nelle quali tutti si accoppiano con tutti, senza distinzioni di genere e di ruolo». In quel contesto, secondo Marina Montesano, furono ridefiniti, sistemati in un canone e presero definitivamente piede «stereotipi destinati a grande fortuna nella caccia alle streghe». Provarono a stabilire un argine a tali persecuzioni i papi Alessandro IV (1258) e Bonifacio VIII (1298), per i quali la magia non doveva essere materia d’inquisizione, a meno che gli atti presi in esame potessero essere tacciati di eresia. Ma ormai era tardi ed era pressoché impossibile operare distinzioni tra pratiche magiche e comportamenti ereticali. Come dimostrano i processi contro i catari istruiti tra il 1318 e il 1325 dall’inquisitore Jacques Fournier, che in seguito sarebbe diventato Papa con il nome di Benedetto XII. E come dimostrano altresì le imputazioni di negromanzia rivolte, all’inizio del Trecento, dal re di Francia Filippo il Bello contro Bonifacio VIII, poi contro il vescovo di Troyes, accusato di aver ordito un complotto per uccidere la moglie dello stesso re, Giovanna di Navarra, e infine contro i templari. A seguito della crociata contro i catari ha preso piede l’uso politico dell’accusa di magia. «Se si volesse trovare un momento in cui almeno simbolicamente il problema del rapporto con il diavolo muta in modo sensibile», scrive Montesano sulla scia di un importante studio di Alain Boureau, «bisognerebbe individuarlo negli anni Venti del Trecento, con la bolla Super illius specula di Giovanni XXII, nella quale l’anziano Pontefice stigmatizzava coloro che stipulano un patto "con l’inferno" e all’insegna di questo immolano e adorano i demoni, fabbricano immagini, anelli, specchi e fiale, ossia oggetti atti a compiere malefici». Bolla «rivoluzionaria» che nei fatti equipara magia a eresia. A dispetto delle esortazioni a distinguere tra pratiche superstiziose ed ereticali, formulate dieci secoli prima da Sant’Agostino. Invece magia ed eresia divennero quasi sinonimo lungo il corso della guerra dei Cent’anni (1337-1453), soprattutto verso la fine del Trecento ai tempi della crisi di follia del re di Francia Carlo VI. Agli inizi del Quattrocento il movimento di riforma ecclesiastica guidato in Boemia da Jan Hus viene accusato dalla Chiesa romana d’essere ispirato dal «principe delle tenebre». A metà del Quattrocento qualcuno mette nuovamente in guardia da questo eccesso di sovrapposizione tra magia ed eresia ed esorta a operare distinzioni: Giordano da Bergamo, Girolamo Visconti e in particolare il canonista senese Mariano Sozzini. In Francia la «grande caccia» nella regione di Arras si trasforma in una psicosi collettiva al punto da costringere il duca Filippo il Buono a porre un freno e il tribunale di Parigi a rivedere alcuni processi. Stava finendo una stagione della caccia alle streghe. Ma se ne stava preparando un’altra, se possibile peggiore, molto peggiore della precedente. Con la bolla Summis desiderantes, promulgata da Innocenzo VII nel 1484 (a cui fece seguito, due anni più tardi, il Malleus maleficarum del domenicano Heinrich Kramer, il primo manuale inquisitoriale interamente dedicato alla stregoneria), nella trattatistica a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si cominciò ad affermare l’idea che «i molteplici crimini commessi dalle streghe in accordo con il demonio fossero fenomeni differenti da quelli che i canonisti avevano registrato in passato». In quegli anni «le streghe avrebbero dato vita ad una vera e propria setta decisa a colpire la cristianità come mai si era verificato prima». L’insistenza sulla «modernità» della setta era importante perché, scrive Montesano, «tracciava una cesura netta rispetto allo scetticismo espresso in passato circa i reali poteri delle streghe». Così la caccia alle streghe «emerge da una parte come un elemento costitutivo della modernità, dall’altra come una risposta a esigenze riaffioranti nella società in epoche diverse». Non solo e non tanto nel «barbaro Medioevo», quanto e soprattutto «in epoche nelle quali ci piace pensare che il trionfo della ragione e del diritto abbiano il sopravvento». Ecco perché, come ha scritto Franco Cardini occupandosi del libro di Colette Arnould La stregoneria. Storia di una follia profondamente umana (Dedalo), si può dire che «la stregoneria moderna sia in realtà un palinsesto di personaggi e di eventi che ha attraversato almeno due successive importanti rotture, il cristianesimo e la modernità». La caccia alle streghe, «fondata», scrive Cardini, «su una rilettura attualizzante di fonti bibliche ed antiche», torna prepotentemente sul proscenio «per razionalizzare una crisi socio-religiosa profonda come quella che l’Europa ha attraversato tra il XIV e il XVII secolo». Tenendo sempre presente che «le streghe sono state bruciate più dai protestanti che dai cattolici e che la famigerata Inquisizione spagnola non ha quasi neppure trattato il problema». Così il periodo che va dal 1550 al 1660 costituisce l’apice della caccia alle streghe in Europa. Rodney Stark in A gloria di Dio (Lindau) spiega come non vada dato credito a una pubblicistica (Andrea Dworkin, Mary Daly, Pennethorne Hughes) che parla di milioni di vittime. Tra il Quattrocento e la metà del Settecento le condanne alla pena capitale furono tra le 40 e le 60 mila: «La morte di sessantamila persone innocenti», scrive Stark, «è certamente un qualcosa di agghiacciante, ma non giustifica l’esagerazione così inverosimile delle cifre». Il maggior numero di processi (e vittime) si ebbe in Germania, dove nella parte meridionale, cattolica, il fenomeno fu più intenso rispetto all’area settentrionale, protestante. Qualcuno provò a reagire: a Treviri nel 1587 il giudice Dietrich Flade tenne un atteggiamento ipergarantista nei confronti degli imputati per stregoneria trascinati in giudizio dall’arcivescovo Johann von Schönenberg; per questo Flade fu accusato a sua volta, torturato, strangolato e bruciato sul rogo. Poi vennero Polonia e Ungheria. La Savoia, il Friuli — studiato da Carlo Ginzburg nel libro I benandanti: stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento (Einaudi) — i Grigioni, la Navarra pirenaica, le regioni basche. Anche Montesano fa notare che, «nonostante uno stereotipo duro a morire pretenda il contrario», la caccia alle streghe fu di minore intensità nelle aree in cui operavano il Sant’Uffizio o l’Inquisizione spagnola. In Italia «furono celebrati alcuni fra i primi processi per stregoneria… Tuttavia nonostante l’alto numero di accuse mosse fra i secoli XV e XVII, le condanne gravi risultano relativamente poche: merito di dibattimenti più cauti e regolari, dovuti all’istituzione della Santa Inquisizione romana a partire dal 1542, che difficilmente arrivavano alla condanna a morte». A corroborare questa tesi, Montesano cita il Concilio di Granada del 1526, che dichiarò impossibile il volo magico e ribadì — con il conforto della maggior parte dei giuristi dell’epoca — che «le streghe non esistono». E quando nel 1549 a Barcellona l’Inquisizione locale e le autorità civili condannano al rogo alcune streghe, la Suprema (ossia il supremo concilio dell’Inquisizione) reagisce mandando sul luogo un proprio inquisitore, Francisco Vaca, rivedendo il processo da cima a fondo, annullandone la sentenza e, addirittura, punendo i giudici che lo avevano istruito. Brian Levack nel saggio La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell’età moderna (Laterza) ha ben analizzato un caso spagnolo assai particolare: furono trascinate in giudizio poco meno di duemila persone, ma ne furono condannate 11. Solo 11. Per di più i tribunali ecclesiastici, scrive Stark, furono «le corti più riluttanti nei confronti della tortura e alla fine furono i primi a proibirne l’uso». Altro stereotipo è quello della «caccia» come «prodotto dell’ignoranza». Niente di vero. Hugh Trevor-Roper ha ben documentato come i «più feroci persecutori delle streghe» furono «i mecenati più colti del sapere contemporaneo». Portogallo e Irlanda, rispettivamente con 10 e 4 vittime, rimasero praticamente escluse dalla caccia. Notevole fu invece la diffusione del fenomeno nel New England dove, nel 1691, si ebbe il caso di Salem (giovanissime che accusarono donne adulte e le condussero al patibolo). Gli adolescenti furono all’origine, anche in Europa, di importanti ondate persecutorie come quella basco-navarrese del 1525 e quella svedese del 1668; talvolta ne furono travolti come a Würzburg nel 1629, dove furono condannati a morte 119 adulti, ma anche 41 giovanissimi. L’idea per cui la caccia alle streghe sarebbe stata, scrive Stark, «un movimento reazionario infiammato dalla paura di un’imminente modernizzazione» è «infondata». È vero, riconosce, «che il collegamento tra magia e satanismo fu il prodotto del ragionamento teologico, ma i tentativi di sopprimere la magia e la superstizione difficilmente possono essere considerati degli attacchi all’illuminismo o alla modernità». Tanto più che «le menti più illuminate dell’epoca accettavano l’idea che le streghe fossero in combutta con il diavolo». Basti ricordare che Samuel Sewall, uno dei tre giudici che avevano mandato a morte le «streghe di Salem» fu l’autore poco dopo del primo trattato teologico contro la schiavitù uscito in America. La caccia alle streghe dei secoli XVI e XVII, ha scritto Trevor-Roper, «è un fenomeno che lascia perplessi: un avvertimento per coloro che vorrebbero semplificare gli stadi del progresso umano». A partire dal XVIII secolo, prosegue, «abbiamo avuto la tendenza a vedere la storia europea, dal Rinascimento in poi, come la storia di un progresso, e quel progresso è sembrato essere costante». Come se, passo dopo passo, Rinascimento, Riforma, Rivoluzione, la luce avesse avuto sempre la meglio sull’oscurità. Invece, sotto la superficie di una società sempre più sofisticata, troviamo «passioni e credulità infiammabili» e la credenza nelle streghe «è una di queste forze». «Una nuova forza esplosiva che, con il passare del tempo, si espandeva costantemente e spaventosamente». «In quegli anni di apparente illuminazione», concludeva Trevor-Roper, «c’era almeno un quarto del cielo nel quale l’oscurità stava vincendo decisamente la sua battaglia a spese della luce». Dalla prima metà del Cinquecento alla fine del Settecento grande fu la battaglia culturale quantomeno contro gli eccessi della «caccia alle streghe». Reginald Scot nel 1584 si domandò perché mai Satana fosse ricorso a «uno strumento non adatto» come «una donna vecchia senza denti, impotente e impacciata nel volare in aria», dal momento che non avrebbe certo avuto bisogno «di simili strumenti per ottenere i propri scopi». Contro la «caccia alle streghe» si schierarono, già nel Cinquecento, il giurista Andrea Alciati, l’alchimista e filosofo Agrippa di Nettesheim, il medico Johann Wier; poi, nel secolo successivo, il gesuita tedesco Friederich von Spee, i filosofi Pierre Gassendi e il cartesiano Nicolas Malebranche; nel Settecento Ludovico Antonio Muratori, Girolamo Tartarotti, Scipione Maffei, poi ancora Montesquieu e Voltaire, che levò la voce contro la turpe pratica di «mandare al rogo degli imbecilli». In seguito alla pace di Vestfalia (1648) e soprattutto dopo la Rivoluzione francese, le indemoniate andarono scomparendo. Per riapparire di quando in quando, ma senza più provocare reazioni isteriche. Lasciarono però qualcosa di depositato nelle nostre menti. Tant’è che nel Novecento Michail Bulgakov con Il Maestro e Margherita e Arthur Miller con Il crogiuolo — dedicato al processo di Salem — per muovere critiche, rispettivamente, alla società sovietica staliniana e a quella statunitense maccartista, sono ricorsi a quel mondo e al suo sottofondo. Tutto finito, dunque? No, qualcosa è rimasto tra noi. Nel 1983 a Manhattan Beach, sobborgo bene di Los Angeles, la signora Judy Johnson denunciò Ray Buckey, un insegnante della scuola materna McMartin, per aver abusato sessualmente di suo figlio, un bambino in età prescolare. Secondo la Johnson quel genere di violenze sessuali alla McMartin si sarebbero verificate nell’ambito di riti di stregoneria con la complicità dei proprietari, nonché il coinvolgimento di docenti e personale della scuola. La polizia affrontò il caso con grande determinazione e per prima cosa inviò una lettera alle famiglie di 200 alunni dello stesso istituto, per sapere se i bambini negli ultimi tempi avevano notato (o subìto) qualcosa di insolito. Molti genitori interrogarono i loro figli e si persuasero che erano stati anche loro molestati o peggio; poi li condussero al Children’s institute international, una clinica che si occupa di abusi, gestita da Kee MacFarlane, medico specializzato nell’arte di far parlare i giovanissimi di questo drammatico genere di esperienze. Nella primavera del 1984 MacFarlane giunse alla conclusione che ben 360 piccoli avevano subito gravi molestie. Ma non era tutto. Gli allievi della McMartin avevano rivelato anche di essere stati costretti a partecipare a rituali satanici e che, nel corso di quei rituali, avevano visto streghe volare, avevano volato loro stessi in palloni aerostatici, avevano visto gli imputati bere sangue e mutilare animali, erano stati rinchiusi in bare e calati sottoterra, erano stati condotti attraverso un armadio in tunnel sotterranei per poi sbucare in cimiteri nei quali avevano assistito a orge e uccisioni. A quel punto era tornata in campo la polizia, che aveva cercato di individuare i tunnel e i cimiteri di cui avevano parlato i bambini. Ma senza successo. I genitori vollero in ogni caso trascinare in tribunale proprietari e insegnanti della McMartin. Ma, dopo venti mesi di indagini, un procuratore giudicò inconsistente gran parte delle accuse: le testimonianze dei bambini furono reputate deboli e in contraddizione l’una con l’altra. Quasi tutti gli imputati furono prosciolti. Ray Buckey dovette però affrontare ugualmente il processo. Nel 1986 l’accusatrice iniziale, la signora Johnson, venne ritrovata morta nel suo appartamento («complicazioni da alcolismo», fu scritto nel referto medico). Nel 1990 Buckey è stato assolto, sia pure da una giuria divisa. Gli imputati hanno fatto causa allo Stato per i danni subiti, ma la clinica che aveva condotto gli interrogatori dei bambini non poteva, secondo la giurisprudenza locale, essere considerata in alcun modo responsabile, neppure sotto il profilo economico (nonostante le più che esose parcelle per le perizie). Il processo, che per certi versi ricorda il caso italiano di Rignano Flaminio, il cui giudizio di primo grado si è chiuso ieri con l’assoluzione di tutti gli imputati, fu tra i più lunghi e costosi della storia degli Stati Uniti. E tra i più seguiti dai media i quali, nonostante l’esito giudiziario, hanno continuato, in gran parte, a dar credito alla versione dei bambini. Con grande influenza sull’opinione pubblica. Alla fine degli anni Novanta si contavano 12 mila denunce per abusi connessi al satanismo. Moltissime furono le persone imprigionate e le vite distrutte. Ma neanche una di quelle 12 mila denunce ha retto alle indagini e ai processi.