Alessandra Farkas, la Lettura (Corriere della Sera) 27/05/2012, 27 maggio 2012
FRANK STELLA
«Se dicessi di essere il miglior artista italiano dai tempi di Tiepolo oggi non mi contraddirebbe nessuno». Frank Stella può permettersi di scherzare. Nato il 12 maggio 1936 in un sobborgo operaio di Boston da genitori di origine siciliana (padre ginecologo e madre casalinga con la passione per la pittura) il cosiddetto «padre del minimalismo» è l’artista dei record.
Nel 1959, a soli 23 anni, quattro dei suoi ormai leggendari Black Paintings — grandissimi quadri neri con linee bianche sottili disposte geometricamente e ritmicamente — furono inclusi nell’importante mostra Sixteen Americans al Moma, accanto a quelli di altre precoci star come Jasper Johns e Robert Rauschenberg. Nel 1970, a 34 anni, Stella è il più giovane pittore della storia ad allestire una personale presso lo stesso museo che nel 1987 gli regala il bis, trasformandolo nell’unico artista vivente onorato per ben due volte dal Moma.
«Però devo ancora lavorare per mantenermi e fare la mia arte — precisa —. Succede a tutti quelli che hanno una carriera pluridecennale». Le sue due case — un appartamento nel West Village strapieno di quadri di pittori famosi, tutti amici, e l’enorme studio Upstate New York con la Formula Uno di Michael Schumacher regalatagli dalla Ferrari in mostra come una scultura — sono i testimoni di un artista ancora attivissimo.
Dopo le recenti mostre — a Londra, presso l’Haunch of Venison e a New York alla FreedmanArt e alla L&M Arts — Stella sarà protagonista dell’one-man show di circa 70 opere che verrà inaugurato a settembre in Germania dal Kunstmuseum di Wolfsburg. Il suo ultimo progetto «italiano» — le 14 stazioni della Via Crucis in acciaio per la basilica romana progettata da Richard Meier a Tor Tre Teste — non è invece mai andato in porto. «La Chiesa cattolica, ancora molto conservatrice, non le ha volute», afferma polemico Stella, appoggiando il sigaro cubano sul portacenere. «Le ho esposte a Stoccolma e alla fine sono state vendute a un collezionista svedese».
Nell’Italia dove sono nati i suoi quattro nonni («il mio Dna è italiano al 100 per cento») si sente rifiutato. «Purtroppo è il Paese europeo dove sono meno conosciuto — spiega —. Non faccio mostre in Italia, lì è difficile, e poi nessuno li compra, i miei quadri».
Come Alex Katz, anche lui pensa che gli italiani preferiscano investire su un paio di costosissimi occhiali o di scarpe, piuttosto che in quadri e sculture. «Il risultato è che, dal dopoguerra a oggi, ben poca arte è uscita dall’Italia, soprattutto se pensiamo alla Germania, la Francia e l’Inghilterra. L’Italia oggi è un Paese senza una vera scena artistica».
Il suo scetticismo nei confronti delle arti italiche non risparmia la generazione di Burri e Fontana. «In America si trovarono a gareggiare in svantaggio con l’espressionismo astratto, che li fece apparire provinciali». E la Transavanguardia? «Cucchi, Clemente e Chia sono ottimi artisti ma non hanno una dimensione abbastanza internazionale — ribatte —. E comunque hanno fatto fortuna qui, senza l’aiuto del loro Paese».
Eppure a un giovane artista italiano lui non consiglierebbe mai di andare all’estero. «Sarebbe una follia, visto che nessun altro Paese al mondo possiede una concentrazione di capolavori paragonabile a quella dell’Italia. Chi cerca l’arte contemporanea può viaggiare all’estero, ricordandosi bene che essa però rappresenta solo una frazione delle grandi opere dell’umanità».
Con i suoi cinque figli nati dalle due mogli (la critica d’arte Barbara Rose e la pediatra Harriet McGurk) e da una girlfriend brasiliana, Stella ha visitato l’Italia innumerevoli volte. «Durante i nostri viaggi il loro motto preferito era no more museum, basta musei. Visitavamo il vostro Paese per ammirare i capolavori in chiese e musei. È un miracolo che siano sopravvissuti e penso che sia tutto merito della guerra».
La sua vena polemica nei confronti della terra avita riaffiora quando spiega come, prima del secondo conflitto mondiale, «l’Italia non aveva conservato e protetto il suo patrimonio», che fu salvato e restaurato «solo dopo, grazie ai fondi stanziati dall’estero per la ricostruzione». Stella confessa di avere un altro debito di gratitudine verso l’Italia, o meglio, verso un ebreo italiano di origine ungherese: il leggendario collezionista e mercante d’arte Leo Castelli, la cui omonima galleria newyorchese ha dettato legge nel mondo dell’arte per mezzo secolo. «Fu Leo a cementare il mio successo. Ero fresco di laurea a Princeton quando mostrò i miei lavori al curatore del Moma, William Rubin, che se ne innamorò e li fece vedere al direttore del museo Alfred Barr: a quel punto la mostra Sixteen Americans mi conferì la patente definitiva. Era come essere stato ingaggiato dall’Inter: una squadra così prestigiosa che ti avrebbe garantito una carriera internazionale».
Il giovanissimo Stella comincia a frequentare gli artisti più celebrati dell’epoca: Rauschenberg e Johns ma anche Larry Poons, James Rosenquist, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Cy Twombly, Robert Motherwell, Mark Rothko. «Rothko mi mandava in tilt: era un tipo così strano da far accapponare la pelle». «Mi piaceva molto Ad Reinhardt — incalza — ma il più generoso con noi giovani era Barnett Newman: un chiacchierone. Eravamo un gruppo affiatato che ingurgitava dosi industriali di pessimo take away cinese».
Le vere animatrici della scena artistica del tempo erano le donne. «La stragrande maggioranza delle gallerie allora era in mano loro — precisa Stella — Green, Tibor de Nagy, Sidney Janis, Betty Parsons, Martha Jackson, la Stable di Eleanor Ward, Grace Borgenicht, Zabriskie. Per non parlare della prima moglie di Castelli, Ileana Sonnabend, un tipo impossibile, e la seconda, Antoinette, che inaugurò la Castelli Graphics». «È un vero peccato che le nuove generazioni non sappiano neppure chi fosse Leo Castelli — riflette con amarezza —. La galleria, dove non metto piede da anni, è stata prelevata dall’ultima moglie Barbara Bertozzi, maltrattata dai media che non si congratulano mai con giovani donne che sposano uomini vecchi e ricchi».
A un certo punto dell’intervista Stella risponde al telefono per riagganciare dopo poco. «Era un tipo che mi chiedeva di parlare di fronte a 10 mila neuroscienziati — spiega sorridendo —. Gli ho risposto che non saprei cosa raccontare. Torniamo alla realtà: di cosa stavamo parlando?». Gli chiedo che effetto gli avevano fatto le bocciature dei critici a inizio carriera (il «New York Times» lo ribattezzò «il Cézanne dei nichilisti e il maestro della noia»). «Tutti quei riflettori puntati mi hanno solo aiutato — risponde —. Ero euforico che parlassero, male, di me». Da lì a poco anche suo padre dovette ricredersi. «Fino allora non faceva che ripetermi la stessa cosa — "spero che trovi un lavoro vero" — e quando fui respinto alla leva militare, mi disse: "Peccato, ti avrebbe trasformato in un uomo". Fu lui a suggerirmi di usare il colore nei miei quadri, se volevo venderli».
Che cosa pensa dei giovani artisti? «Quando avevo la loro età, i più bei quadri erano ancora fatti a mano; per loro la pittura è un oggetto d’artigianato. Un giorno chiesero a De Kooning di commentare lo spazio astrofisico: lui rispose di preoccuparsi solo dello spazio raggiungibile con la sua mano. Eravamo tutti su quella lunghezza d’onda: guardavamo verso il paradiso, ma ci interessava ciò che potevamo toccare».
«Ciò che alla mia generazione sembrava rivoluzionario, il flat painting, per loro è preistoria — aggiunge —. Noi forse eravamo monomaniaci: abbiamo avuto un’idea e l’abbiamo spremuta a morte. L’era digitale è l’opposto e non perdona: i giovani non riescono a credere di poterla conquistare e domare. Anch’io uso i computer ma per pura convenienza, senza amarli. Per loro invece è un matrimonio emotivo e destinato a essere infelice».
La vera differenza tra ieri e oggi è che «molti artisti adesso non vogliono sporcarsi le mani». «Parlo dell’arte da executive di Damien Hirst e Jeff Koons, che dicono per telefono a squadre di assistenti che cosa fare». Il ritorno al figurativo di questi artisti lo rende perplesso: «Watson e lo squalo dipinto nel 1778 da John Singleton Copley è infinitamente più interessante del pescecane in formaldeide dentro una vetrina di Damien Hirst». «L’arte figurativa ha una strada tutta in salita perché deve paragonarsi a Tintoretto, Tiziano e Raffaello — insiste —. Io devo gareggiare solo con Mondrian, Malevich e Kandinsky. Dai graffiti preistorici delle grotte di Chauvet e Lascaux a oggi, l’uomo ha dipinto nello stesso modo per 17 mila anni. L’astrattismo, che esiste da circa un secolo, non si è certo esaurito. Per quanto riguarda l’arte digitale, continuano a dirci che presto sarà altrettanto bella di quella manuale. Ma io sto ancora aspettando».
Alessandra Farkas