Evgeny Morozov, la Lettura (Corriere della Sera) 27/05/2012, 27 maggio 2012
PER UNA PACE CYBER-ARMATA - L
a guerra cibernetica dovrebbe impensierirci? Moltissimo, a giudicare dai titoli catastrofici dei media. La tecnologia informatica renderebbe infatti più facile avviare una guerra, e aumenterebbe quindi le probabilità di conflitto.
Per quale ragione? In primo luogo, perché la guerra cibernetica è asimmetrica. Essendo poco costosa e molto distruttiva, può spingere Stati deboli a iniziare conflitti con Stati più forti — cosa che in passato non sarebbe accaduta. In secondo luogo, perché, essendo notoriamente difficile risalire alle fonti degli attacchi informatici, chi li intraprende non ha da temere ritorsioni immediate e può quindi comportarsi in modo più aggressivo del solito. In terzo luogo, perché gli Stati più razionali possono essere indotti ad attaccare per primi, data la difficoltà di difendersi. Infine, perché le armi informatiche sono circondate dal segreto e poco definibili, ed è difficile stipulare accordi sul controllo degli armamenti. In altre parole, più guerre cibernetiche dovrebbe voler dire più guerre in generale.
Non corriamo troppo, avverte Adam Liff, ricercatore di Princeton, in un articolo estremamente provocatorio uscito recentemente sul «Journal of strategic studies». Secondo Liff, supporre che la guerra informatica abbia una logica intrinseca — una teleologia — che porterebbe a un aumento dei conflitti è una teoria miope, che non considera le sottigliezze della strategia militare e dei rapporti di potere. Invece di basare la nostra politica cibernetica su ipotesi bizzarre tratte da film di fantascienza di second’ordine, dobbiamo pensare che le armi informatiche sono utilizzate da protagonisti reali che hanno programmi e interessi reali e che, se qualcosa va storto, dovranno pagare dei costi reali.
Nella situazione geopolitica attuale, Liff non vede alcuna ragione che giustifichi l’allarmismo catastrofista dei principali ambasciatori dell’industria per la sicurezza informatica, tra cui spicca Richard Clarke con il suo bestseller del 2010 Cyberwar. Anzi, a suo parere la tecnologia informatica potrebbe far diminuire, non aumentare, i conflitti. Proprio così: le armi cibernetiche potrebbero promuovere la pace nel mondo. Hippy di tutto il mondo unitevi e imparate a lanciare attacchi informatici!
È una tesi ardita, ma Liff non esita a confutare le teorie convenzionali sulla guerra cibernetica. La guerra informatica potrebbe sembrare asimmetrica, ma è un mito che le armi informatiche avanzate siano economiche e facilmente reperibili: la loro realizzazione richiede una gran quantità di risorse, di tempo e una buona dose di segretezza. Chi è debole non è realmente in grado di organizzare attacchi prolungati, capaci di paralizzare l’infrastruttura di sistemi ben difesi.
Ma anche se lo fosse, probabilmente sceglierebbe di non farlo: attacchi informatici da parte di Stati più deboli hanno senso solo se questi Stati possono contare anche su armi convenzionali. In caso contrario, rischiano di venir spazzati via da una risposta militare convenzionale dello Stato più forte. Questo spiega perché non è probabile che la Somalia o il Tagikistan facciano una guerra informatica agli Stati Uniti in un prossimo futuro: la reazione ai danni informatici che potrebbero causare verrebbe infatti condotta con armi convenzionali.
È inoltre difficile prevedere quali possano essere le conseguenze di un attacco informatico. Anche Stati tecnologicamente avanzati come gli Stati Uniti non sono in grado di predire il successo di una simile iniziativa. Vi è infatti un rischio notevole di produrre danni a se stessi o di distruggere senza volerlo beni potenzialmente utili (come le infrastrutture bancarie di un nemico). Queste incertezze sono il miglior deterrente.
Come sottolinea Liff, è probabile che chi agisce razionalmente preferisca sfruttare le reciproche vulnerabilità informatiche, e non impegnarsi in una guerra cibernetica costosa se riesce a trovare altri modi più economici per risolvere i conflitti. La disponibilità di armi informatiche, qualunque sia il loro effettivo potenziale distruttivo, potrebbe in realtà consentire a Stati più deboli di ottenere dei vantaggi dai loro avversari più forti, forse anche evitando uno scontro.
Non dobbiamo poi dimenticare che l’obiettivo della guerra è la coercizione — ed è difficile costringere altri a comportarsi come si desidera se non si rivendicano i danni causati ai loro beni. È difficile risalire alle fonti degli attacchi cibernetici, ma i governi che li utilizzano per ottenere qualcosa vorranno anche rivendicarli. (La Russia non si è assunta la responsabilità degli attacchi informatici del 2007 in Estonia e del 2008 in Georgia perché sono stati irrilevanti: nel primo caso si è trattato di un atto di semplice hackeraggio e nel secondo di un evento collaterale alla guerra vera e propria).
I terroristi potrebbero essere più portati ad agire nell’anonimato, ma in realtà, dopo l’11 settembre, nessun gruppo terroristico è più riuscito a causare gravi danni alle infrastrutture civili o militari. Per un gruppo come Al Qaeda, i costi di un attacco cibernetico efficace sono troppo elevati, e non è detto che una campagna ciber-terrorista sarebbe spettacolare quanto l’esplosione di una bomba in una piazza affollata.
Oltre a non condividere il panico generale causato dalla minaccia di una guerra informatica, Liff mette anche in evidenza il pericolo di credere che le tecnologie (armi comprese) producano lo stesso effetto, prevedibile e rivoluzionario al contempo, ovunque siano utilizzate. Non pensa che la guerra informatica sia rivoluzionaria, e sostiene che la possibilità che le armi cibernetiche incentivino un conflitto dipende dalla natura delle parti coinvolte, dalle relative forze contrattuali, e da quante informazioni attendibili abbiano sull’avversario. «Nella maggior parte dei casi, osserva Liff, è improbabile che (la tecnologia cibernetica ndr) aumenti in modo significativo la possibilità di una guerra tra parti che altrimenti non si scontrerebbero. La minaccia di una guerra cibernetica potrebbe semmai essere più utile, a volte, come deterrente contro avversari superiori nell’armamento convenzionale, riducendo quindi la probabilità di una guerra».
Liff fa notare che gli analisti militari del passato sostenevano con altrettanta convinzione che i bombardamenti strategici e la bomba atomica erano delle «armi assolute» destinate a rivoluzionare la strategia militare. È innegabile che l’aeronautica e la bomba atomica abbiano avuto un profondo effetto sulla natura dei conflitti militari, ma la loro logica intrinseca (ad esempio l’idea che la guerra aerea non ammette difesa, ma solo offesa) si è dovuta comunque piegare a considerazioni e costrizioni di natura politica, sociale ed economica espresse dagli Stati che le possedevano. La potenza dell’aeronautica non si traduceva sempre in potere politico.
La lezione da imparare, in questo caso, è che le teorie teleologiche sulla tecnologia raramente offrono spunti acuti di analisi, mentre assai più spesso danno luogo a idee confuse e a una cattiva politica. Eppure, il modo teleologico di pensare alla tecnologia è ancora dominante. Proprio come è di moda pensare che la guerra informatica sia di per sé un male per la sicurezza internazionale e la pace nel mondo, così è di moda pensare che i social media siano di per sé un male per i dittatori o che i filtri in Internet impediscano le scoperte e il dibattito pubblico. Ma il mondo reale non è così malleabile e ordinato, non si adatta a teorizzazioni teleologiche superficiali, e spinge le tecnologie ad assumere ruoli e funzioni che nessuno si sarebbe aspettato.
Così, qualunque sia la logica intrinseca delle armi cibernetiche, dei social media o dei filtri in Internet, essa muta inevitabilmente a seconda del modo in cui queste tecnologie vengono usate da un regime politico, sociale o culturale. Per questa ragione le armi cibernetiche finiscono per promuovere la pace, i social media per rafforzare il totalitarismo, e i filtri in rete per migliorare la capacità di scoprire informazioni. Potremmo non essere sempre in grado di prevedere questi effetti in anticipo, ma se continueremo a confidare nelle spiegazioni teleologiche saremo ancor meno in grado di costruire schemi efficaci per comprendere la tecnologia e prendere decisioni.
Evgeny Morozov
(Traduzione di Maria Sepa)