Tommaso Pellizzari, la Lettura (Corriere della Sera) 27/05/2012, 27 maggio 2012
PALLONI SGONFIATI - I
nvece di accusarlo di essere il nuovo oppio dei popoli, e di guardarlo per questa ragione con distacco o disprezzo, molti intellettuali neomarxisti o semplicemente antiliberisti farebbero bene a osservare il calcio da vicino, perché potrebbero scoprire cose interessanti. Tra cui soprattutto una: il calcio è quel microcosmo in cui l’applicazione pratica dei principi fondamentali del neoliberismo nella sua versione più radicale (in estrema sintesi, quella per cui solo il mercato puro è in grado di regolare se stesso) ne ha reso evidenti molti limiti. In particolare, il calcio contemporaneo dimostra che alcune delle critiche fondamentali mosse all’ideologia neoliberista contemporanea si sono rivelate fondate. E cioè: a) non è per l’appunto vero che, senza intervento di un’autorità indipendente superiore agli attori in campo, un mercato finisce comunque per autoregolarsi; b) senza interventi redistributivi dall’alto i ricchi tenderanno a diventare sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; c) sul mercato del lavoro, gli operatori devono affrontare la concorrenza di forza lavoro extracomunitaria; d) l’eccesso di finanziarizzazione crea un eccesso di dipendenza dalle fluttuazioni dei mercati e finisce per allontanare il cuore dell’impresa dal territorio di cui è espressione e fornitore d’identità al tempo stesso.
Il «piede» invisibile
Così come Adam Smith non è Milton Friedman, il calcio del terzo millennio non è quello che va dagli inizi di fine ’800 agli anni 90 del ’900. In altre parole, quello del calcio è sempre stato un mondo caratterizzato dai princìpi-base del liberalismo economico. In fondo, si tratta di un’arena in cui una serie d’imprenditori competono fra loro investendo denaro all’interno di un sistema di regole certe che permettono di determinare con chiarezza vincitori e sconfitti. Esattamente come in qualsiasi altra attività economica, ci sono imprenditori più e meno ricchi, e quindi diverse opportunità di successo per ogni singolo attore, con l’ovvia conseguenza che chi parte avvantaggiato ha più probabilità di ottenere successi, che a loro volta forniscono ulteriori mezzi per rafforzare il proprio predominio e così via.
Una significativa carenza di equilibrio è quindi sempre stata piuttosto fisiologica al sistema calcio. Come ricordano Simon Kuper e Stefan Szymanski nel saggio Calcionomica (Isbn, 2010), in Italia «dal 1960 al 2009 Juve, Inter e Milan hanno vinto 37 scudetti su 50, rispetto ai 35 titoli spagnoli che nello stesso periodo si sono spartiti Real Madrid e Barcellona e ai 32 campionati inglesi finiti nelle bacheche del triumvirato Manchester United, Liverpool e Arsenal». Ma se, restando solo in Italia, tra il 1960 e la fine degli anni 80 gli scudetti conquistati dalle tre grandi sono circa i due terzi, tra il 1992 e il 2009 la percentuale è salita quasi al 90%.
In Spagna, degli ultimi dieci campionati uno lo ha vinto il Valencia, 5 il Barcellona e 4 il Real Madrid. Quest’anno, i blancos di José Mourinho hanno conquistato la Liga con un punteggio mai visto prima, 100 punti. È la prima volta: nel 2010 il Barcellona di Pep Guardiola si era fermato a 99. Il problema è che se nei due anni precedenti il Valencia (terzo classificato) aveva totalizzato 71 punti (cioè 28 e 25 meno del Barcellona campione), quest’anno si è fermato a 61: il distacco è cioè salito a 39 punti. Con i suoi 50 gol, il capocannoniere del torneo Leo Messi ha segnato da solo più di quanto siano riuscite a fare 13 squadre del campionato. È anche per questo che la definizione che il presidente del Siviglia José Maria Del Nido ha dato del campionato spagnolo non sarà molto in stile London School of Economics, ma rende l’idea: «Una Liga de mierda». E non parlava degli oltre 750 milioni di debito che i club hanno col fisco, o del buco in bilancio da 2.153 milioni complessivi di Real, Barcellona, Atletico Madrid, Athletic Bilbao e Valencia (i 5 club arrivati alle semifinali di Champions ed Europa League). Del Nido si riferiva alla «scozzesizzazione» del calcio spagnolo, cioè alla trasformazione in un campionato in cui la sfida si riduce a due squadre (come Rangers e Celtic) mentre tutte le altre partecipanti al torneo si limitano a fare da comparse.
In Inghilterra, da quando il campionato inglese è diventato Premier League, 12 volte ha vinto il Manchester United, 3 l’Arsenal, 3 il Chelsea (dopo l’arrivo del miliardario russo Roman Abramovich). L’unica eccezione, del 1994-95, è stata il piccolo Blackburn Rovers: retrocesso nel 1999, è tornato in Premier nel 2001 senza mai più andare oltre il sesto posto. Domenica 13 maggio 2012 è infine arrivato il Manchester City. Da quando ne è divenuta proprietaria, nel 2008, la famiglia dello sceicco Mansour bin Zayed al-Nahyan ha speso circa 1,1 miliardi di euro. Come ha ricordato Dave Simpson sul «Guardian», il Leeds, l’ultima squadra a vincere il campionato inglese prima che diventasse Premier League nel 1992, era costato 10 milioni.
La prima rivoluzione
Proprio la data del 1992 è fondamentale, perché in quell’anno avviene la prima rivoluzione: Rupert Murdoch perfeziona l’idea della francese Canal+ e inonda di soldi le squadre di calcio in cambio dei diritti di trasmissione delle partite via satellite a pagamento. A quel punto, il peso specifico di una squadra diventa il parametro fondamentale per l’individuazione dei criteri di ripartizione: anche nel modello più «partecipativo», le vittorie, il numero di tifosi e il cosiddetto «bacino d’utenza» di una squadra determinano l’arrivo di più o meno risorse. Teoricamente è come la famosa democrazia secondo Winston Churchill («il sistema peggiore, eccetto tutti gli altri»): però in Spagna, per esempio, a Real Madrid e Barcellona va quasi la metà dei diritti tv, il resto viene diviso tra le altre 18 squadre. Le due squadre hanno ciascuna 600 milioni di debito con le banche, ma il credito continua a essere concesso grazie a fatturati intorno al mezzo miliardo annuo, agli ottimi andamenti delle attività di merchandising e alla sicurezza di asset come gli stadi di proprietà. Un po’ quello che succede in Inghilterra, dove la variabile fondamentale sta diventando il capitale investito (si fa per dire) da personaggi di ricchezza incalcolabile come Abramovich o la famiglia Mansour, che spendono sul mercato molto più di quanto una distribuzione di diritti tv più equa o il merchandising possano garantire.
In un’ottica strettamente neoliberista, peraltro, il modello di business in parte funzionerebbe (grazie anche agli Stati che pure qui chiudono un occhio sui debiti): il calcio dei ricchi, infatti, si vende — e bene — in tutto il mondo. Il problema è che la soglia d’ingresso nel mercato che conta si alza ogni giorno, rendendo sempre più difficile l’affermazione dell’equivalente della start up nata in un garage. Se Davide non batte mai Golia, ricordano Kuper e Szymanski, il calcio inizierà a perdere appassionati, insieme alla sua essenza. Nel 2012, Davide è il Montpellier campione di Francia con un bilancio di 36 milioni, davanti al Golia-Psg degli emiri. Ma è lo stesso presidente Louis Nicollin, il terzo imprenditore più importante di Francia nel trattamento dei rifiuti, a spiegare che non può durare: «Del Psg parleremo per almeno cinque anni».
Il meccanismo, descritto da Gianfrancesco Turano in Tutto il calcio miliardo per miliardo (Il Saggiatore, 2007) è nel complesso semplice: «Se più soldi significano più campioni, il denaro delle televisioni ha ulteriormente rafforzato il potere dei grandi club; più si guadagna più si vince, ma è altrettanto vero che più si vince e più si guadagna», per poi ricomprare altri campioni e così via. Ma se i campioni costano sempre di più è per via della seconda rivoluzione che, negli anni 90, investe il calcio: quella determinata dalla cosiddetta «sentenza Bosman».
La seconda rivoluzione
Bosman sarebbe Jean-Marc Bosman, un calciatore destinato a un destino da totale sconosciuto se non fosse per la causa (storica) che vince nel 1995. Cinque anni prima la sua squadra, il Liegi, gli aveva proposto un rinnovo al ribasso del suo contratto da 40 mila euro l’anno in scadenza. Bosman aveva rifiutato e aveva firmato per i francesi del Dunkerque. Imponendo un prezzo d’indennizzo di 200 mila dollari, il Liegi fa saltare il trasferimento, costringendo Bosman a chiudere la carriera a La Réunion, mentre il procedimento alla Corte di giustizia europea segue il suo iter. Fino alla sentenza, secondo la quale ogni lavoratore a fine contratto è libero di trasferirsi in qualsiasi Paese dell’Unione e senza che sia dovuto alcun indennizzo.
A quel punto i club decidono di tutelarsi proponendo da una parte contratti lunghi e ricchi ai fuoriclasse (o a quelli che sembrano tali), perché è con loro in squadra che i risultati si ottengono più rapidamente. Dall’altra, completano la rosa andando a pescare nei mercati più convenienti: Est europeo, Africa e soprattutto Sudamerica. Così, manodopera a basso costo, ad alto rendimento e virtualmente infinita per potenza demografica, invade il mercato europeo modificando radicalmente la natura del calcio. Gli esempi sono infiniti: il club campione d’Inghilterra (il Manchester City) è di proprietà degli sceicchi degli Emirati arabi. Il suo antagonista, lo United, è in mano agli americani, come il Liverpool. La squadra campione d’Europa, il Chelsea, è del russo Roman Abramovich. La nazionale inglese, teoricamente espressione di uno dei due campionati migliori del mondo, è piena di calciatori di livello medio, perché le squadre principali sono piene di stranieri (come l’Inter vincitrice della Champions League 2010, in cui l’unico italiano in campo è Marco Materazzi, entrato all’ultimo minuto). In Spagna, dove il vivaio del Barcellona (la mitica cantera) resta comunque un’eccezione, in cima alla classifica marcatori ci sono due argentini (Messi e Higuain), un portoghese (Ronaldo), un colombiano (Falcao) e un francese (Benzema).
E poi c’è la Germania. Nel 2002, il fallimento del gruppo televisivo Kirch lasciò i club senza soldi, così quella di puntare sui vivai non fu una scelta, ma una necessità. Sarà un caso, ma negli ultimi anni il calcio tedesco ha scavalcato di slancio quello italiano nel ranking Uefa e la sua nazionale è la favorita (altro caso, insieme alla Spagna) all’Europeo 2012. Con i suoi splendidi stadi nuovi e sempre pieni, costruiti per il Mondiale 2006, e le sue squadre multietniche e autosufficienti (da 19 anni il Bayern Monaco ha i bilanci in ordine) quello tedesco è il modello che fa o dovrebbe fare scuola. Nella sua Storia delle idee del calcio, Mario Sconcerti scrive che il modo di giocare di un Paese rispecchia la sua maniera di vivere. Volendo ancora guardare all’Europa come a un’Unione, la finale di Champions tra Chelsea e Bayern Monaco somiglia molto a uno scontro simbolico tra due concezioni non solo di calcio. Se è così, non ci vuole molto a indovinare per chi possa avere tifato il presidente dell’Uefa Michel Platini. L’ex fuoriclasse francese, con le sue battaglie per il fair play finanziario e per la difesa delle identità calcistiche nazionali, sembra sempre più un vecchio socialista utopista — un po’ come Obama secondo gli avversari della riforma sanitaria negli Usa. Che pure è lo stesso Paese in cui gli stipendi milionari dei fuoriclasse dello sport sono regolati dal «socialistissimo» salary cap.
Il fatto che comunque, alla fine, la Champions l’abbia vinta il Chelsea di Abramovich, con il premier conservatore David Cameron (al G8 di Camp David) a braccia alzate di fianco a un’impietrita Angela Merkel, è un segnale in più per l’Europa affaticata di questo 2012.
Tommaso Pellizzari