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 2012  maggio 26 Sabato calendario

QUELLE TRE CAMERE DI SICUREZZA QUASI SEMPRE DISABITATE

Non si chiamano carceri ma «camere di sicurezza», sono tre e sono quasi sempre vuote: insomma le «carceri» del Vaticano sono le meno affollate al mondo. Le tre camere di sicurezza si trovano accanto alla sede del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, all’interno dello stesso edificio che ha il nome di Palazzo del Tribunale. Lo si incontra sul retro della Basilica di San Pietro, a sinistra per chi dia le spalle alla Basilica, tra la Scuola del Restauro e la Casa Santa Marta (una specie di albergo dove alloggiano i cardinali durante il Conclave).
A memoria d’uomo si ricorda un solo caso in cui le tre camere sia state occupate tutte e tre in contemporanea e fu nel 1971, quando ospitarono quattro dipendenti vaticani, tecnici della Centrale telefonica, accusati di furto nell’appartamento privato del Papa: avevano rubato una buona quantità di «medaglie del Pontificato», un fattaccio simile - per il luogo del reato - a quello per cui ora è detenuto l’«aiutante di camera» del Papa.
Il «colpo» era stato compiuto il 31 luglio 1969, essendo il Papa a Castel Gandolfo. Davanti all’appartamento non c’erano le due Guardie svizzere che sempre vi stazionano perché il Papa era fuori. Il capo della «banda dei telefoni» è Giancarlo Casale, 45 anni, caposquadra della Centrale telefonica vaticana e i tre correi sono un installatore della Centrale telefonica, Raffaele Saliani, e due dipendenti della stessa Centrale, Giovanni Cimaomo e Giovanni Manupelli.
Come tecnici dei telefoni conoscono l’appartamento papale, i turni delle guardie, che cosa si può trovare nelle diverse stanze. In quei giorni che il Papa è fuori vengono incaricati di verificare la funzionalità degli apparecchi telefonici, fanno duplicare le chiavi di cui vengono provvisti e con quelle, di notte, tornano nell’appartamento. «Abbiamo attraversato lo studio del Papa e non ricordo quali altre stanze, per raggiungere lo studio del segretario privato del Pontefice, don Pasquale Macchi», diranno in Tribunale.
La vendita delle medaglie aveva fruttato ai quattro circa 400.000 lire a testa. Durante la detenzione uno di loro — Giovanni Manupelli — si dice disperato e tentato dal suicidio: «Ero deciso ad uccidermi con una forchettata al cuore. Per questo mi tolsero tutte le posate». Il processo dura sei giorni. Dopo due ore di camera di consiglio, il presidente del Tribunale legge la sentenza che condanna Casale e Manupelli a tre anni di reclusione.
Viene assolto per non aver commesso il furto ma dichiarato colpevole di ricettazione Raffaele Saliani. Nei suoi confronti il tribunale pronuncia una condanna a nove mesi con la sospensione della pena. A Giovanni Cimaomo viene riconosciuto il reato di ricettazione e di detenzione di arma da fuoco: si scopre così che almeno uno degli uomini della banda era entrato armato di pistola nell’appartamento pontificio: viene punito con un’ammenda di 250.000 lire, ma anche per lui viene concessa la sospensione della pena. Paolo VI grazierà tutti, pago della lezione che i quattro avevano avuto da quello straordinario e unico processo con detenzione dei «rinviati a giudizio».
Per lo più i «reati» che si compiono in Vaticano sono furti delle offerte in San Pietro o di qualche articolo in vendita nei negozi e tutto si risolve rapidamente con l’identificazione del colpevole e una multa. E’ raro che vengano usate le «camere di sicurezza». Per i casi più seri, come quelli dell’attentatore alla vita di Giovanni Paolo II Alì Agca e di Lazlo Toth, l’ungherese che negli anni 70 del secolo scorso prese a martellate la Pietà di Michelangelo, la detenzione fu affidata alle forze di sicurezza italiane che fanno servizio presso il Vaticano.
Era stato Pio XI a volere che venissero predisposte le tre «camere di sicurezza» accanto ai locali del Tribunale. Il vaticanista storico del Corriere della Sera Silvio Negro racconta in «Vaticano minore» (1959) che Papa Ratti abbia voluto vederle, quand’erano ultimate, e che abbia commentato: «Ci siamo voluti assicurare che non ci siano strumenti di tortura».
Luigi Accattoli