Gianluca Veneziani, Libero 25/5/2012, 25 maggio 2012
SESSANT’ANNI FA LA CASTA ERA PURE PEGGIO
Uno pensa che la Casta se la siano inventata Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Uno pensa che peones, portaborse, impunità e vitalizi d’oro siano i segni della nostra classe politica in declino. E invece gli stessi privilegi e personaggi c’erano già agli albori della Prima Repubblica. Lo dimostra, con acume e senso dell’ironia, Sabino Labia nel suo saggio Onorevoli! Le origini della casta, e-book già disponibile su Amazon (euro 4,11).
L’esigenza dei parlamentari di sentirsi una categoria privilegiata, avverte l’autore, non è un fatto nuovo. Negli anni Ottanta l’onorevole Dc Paolo Caccia era già affetto dalla sindrome del «lei non sa chi sono io». Un giorno era in autobus e invitava l’autista a fare presto, perché altrimenti l’aereo sarebbe partito senza di lui. «Io sono un onorevole! » si impettì. E la gente, in coro, gli rispose: «Chi se ne frega».
Oltre ai privilegi, i politici hanno sempre preteso di godere delle impunità. Prima tra tutte, quella di non dover pagare le tasse. Fece scandalo, a esempio, il 27 gennaio 1952 la dichiarazione dei redditi di Alcide De Gasperi, allora presidente del Consiglio, e soprattutto di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. Il primo dichiarò soltanto 108.000 lire (ma i deputati di allora ne percepivano 250.000 come indennità parlamentare); Togliatti e Nenni, invece, figuravano addirittura come nullatenenti. Tutti e tre, insomma, erano grandi evasori fiscali.
Eppure il loro “reato” era tutelato da una legge che risaliva nientedimeno che all’età fascista. Nel 1929 il governo Mussolini aveva infatti stabilito che gli stipendi dei parlamentari dovessero essere esenti dal prelievo fiscale. L’Italia repubblicana, naturalmente, non ci pensò nemmeno a cassare quella legge, fascista sì, ma ancora buona per le tasche dei parlamentari.
Stesso discorso si può fare per le pensioni. Le previdenze d’oro di deputati e senatori esistono da più di un cinquantennio. Tutto risale al 21 dicembre del 1954, quando i parlamentari, riunitisi in seduta segreta, decisero di farsi un bel regalo di Natale: assegnarsi il vitalizio, che allora ammontava a una cifra compresa tra 50.000 e 150.000 lire. Il cadeau, va da sé, doveva restare ignoto ai cittadini. Peccato che all’indomani un parlamentare scrupoloso, un certo Giuseppe Veronesi, svelò tutto, suscitando l’indignazione del Paese contro i politici e la riprovazione dei politici contro di lui.
Ma gli onorevoli colleghi tennero duro e un anno e mezzo dopo, nel luglio del 1956, ci riprovarono, stavolta con più fortuna. Venne allora istituita la Cassa di Previdenza per i Deputati della Repubblica: agli onorevoli sarebbero spettate 50.000 lire mensili, pagate immediatamente alla cessazione del mandato parlamentare. Non solo. La pensione sarebbe stata retroattiva, coinvolgendo chi il mandato lo aveva già finito da un pezzo. E anche reversibile perché, nel caso il parlamentare morisse, potessero godere del vitalizio congiunti e affini, dalla moglie fino ai nipoti più lontani. A una condizione però. Che «la morte fosse avvenuta per cause inerenti all’esercizio del mandato parlamentare». Dove, per cause inerenti all’esercizio del mandato, si intendeva anche «il deputato che muore a seguito di incidente».
I giornali non la presero bene, e il Sole 24 Ore, aprì, nel giro di un mese, con due editoriali a effetto in prima pagina, che tanto ricordano il «Fate presto» di più recente memoria. Il primo si intitolava «Silentium!»; il secondo si chiamava «Zitti zitti... piano piano» e incolpava quei parlamentari che «alla chetichella cambiano cose che l’opinione pubblica unanimemente riprova».
Già allora c’era però chi non si arrendeva a questa condizione di privilegio. E, da semplice peone, cioè parlamentare senza infamia e senza lode, decideva di denunciare la situazione. Così nel 1958, durante una riunione della Sesta Commissione per l’Istruzione, un oscuro deputato, un certo Alberto Cavaliere, si alzò in piedi e, anziché commentare la leggina appena votata, declamò versi in rima, parafrasando Il cinque maggio di Alessandro Manzoni e annunciando il suo ritiro dalla carriera politica. «Ei fu, siccome immobile/ con un mortal sospiro/ pensa che ormai la Camera/ non prenderà più in giro». Poi continuò, denunciando le miserie della vita da parlamentare. «Tutto ei notò: le chiacchiere, le lunghe discussioni, gli emendamenti sterili, le opposte votazioni». Quindi concluse: «Oh, quante volte al placido/ fluir dell’ore inerti/ sentendo i suoi colleghi esperti/ si chiese malinconico: / “Ma chi me lo fa far?”…». Cavaliere si guadagnò un applauso scrosciante. Quel momento di gloria poetica aveva riscattato la sua esistenza anonima tra gli scranni di Montecitorio. Finalmente un giorno da leone dopo cento da peone.
Altri, invece, anziché recitare versi, componevano filastrocche. Come Massimiliano Cencelli, il padre del fantomatico manuale sulla lottizzazione politica, il quale, per sbrigare l’onere di assegnare a questo e a quel parlamentare, di questa o quella corrente, un posto da ministro o da sottosegretario, decise di divertirsi, buttando giù una canzoncina, modellata sullo stile della ninna nanna. «Cencellì Cencellò, questo posto a chi lo do?/ Lo daremo a un fanfaniano/che lo tenga un anno sano/Cencellà Cencellì, a chi assegno questo qui?/ Per variare un po’ la lista,/ lo puoi dare a un socialista».
Gianluca Veneziani