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 2012  maggio 25 Venerdì calendario

IL BARONE SANGUINARIO CHE VOLEVA DIVENTARE GENGIS KHAN

Urga venne messa a ferro e fuoco il 3 febbraio. L’incendio era precipitato come una valanga dalle alture, bruciando la capitale della Mongolia, sospinto dalla folle cavalcata del "Barone sanguinario", Roman Nikolas Max von Urgern-Sternberg, e dal suo esercito di demoni: cosacchi della Transbaikalia, buriati, mongoli, volontari tibetani, guardie bianche russe. Gli occupanti cinesi si diedero alla fuga, il Giappone benedisse l’invasione, l’Armata Rossa di Lenin si mosse poco dopo per piegarlo. Durò lo spazio d’un mattino, l’Impero asiatico di Urgern-Kahn, massacratore e guerriero visionario, l’erede di Gengis e della sua Orda d’Oro, austriaco di origine, russo nel sangue, satanico nella crudeltà, processato e fucilato il 15 settembre del ’21 a Novosibirsk.
Un enigma sanguinario, il Barone. Almeno fino a ieri. Due righe nei libri di storia. Oppure ritratti infarciti di leggenda. Fu invece la degna incarnazione di Kurtz, l’argonauta dell’orrore che il Conrad di Cuore di tenebra vide apparire in Congo, e il regista Coppola fece traslocare in Vietnam, per far scoppiare di delirio il finale di Apocalypse Now. Anche il "barone sanguinario" fu, come Kurtz, una figura universale. In ogni secolo che Dio ha mandato in terra, ha scoperto il biografo Vladimir Pozner, un suo antenato cavalcò come avrebbe fatto lui all’ombra dell’Apocalisse, distinguendosi in operazioni di sterminio.
Una maledizione cosmica, che però aveva lasciato poche tracce. Nessuno parlava volentieri del Barone. Se ne erano occupati, per davvero a diverso titolo, Julius Evola, il filosofo nero del fascismo più esoterico, e Hugo Pratt, padre di Corto Maltese, il più cult dei fumetti italiani. Il primo ne aveva esaltato le gesta anticomuniste, il secondo lo aveva utilizzato per animare l’avventura di Corte sconta detta arcana, durante la quale Corto e Rasputin cercano di appropriarsi del tesoro dello zar Nicola, che viaggia su un treno blindato lungo la Transiberiana, mentre l’orda selvaggia del Barone, tutto intorno, scatena la sua danza di sangue.
Poi è arrivato Pozner. Scrittore, giornalista, madre francese e padre ebreo russo accusato di essere una spia americana, autore di bestseller di no fiction (Tolstoj è morto, Adelphi 2010). Pentitosi di aver difeso l’Urss, e oggi critico verso il regime di Putin, Pozner un giorno incappa in Blaise Cendrars, eminente scrittore svizzero naturalizzato in Francia, che ha avuto l’incarico di dirigere per una casa editrice una collana di libri dedicata agli avventurieri.
"Non ne posso più di biografie di Stendhal e Racine" dice a Pozner il vecchio Cendrars, che alla fine sceglie una biografia di Al Capone per inaugurare la collana. Pozner si offre di scrivere la storia del Barone. Ne sa qualcosa? No, nulla. Solo dei vaghi "sentito dire" che odorano di sangue.
Il frutto di un mostruoso lavoro sul campo è oggi Il Barone sanguinario (Adelphi, pp. 288, euro 20, tradotto da Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, con un utile registro dei nomi curato da Valentina Parisi). Pozner, che nel libro racconta anche come ha scritto il libro, getta subito via ogni ipotesi di fredda saggistica. "La vita non è un assemblaggio di mobili antichi" dice. Soprattutto se ti devi occupare di un condottiero considerato "il più disinteressato degli assassini, il più metodico dei carnefici", "un essere che sembra sospeso tra Paradiso e Inferno, privo della benché minima nozione delle leggi terrene". E ancora "una eccezionale commistione di profonde tendenze metafisiche e di crudeltà".
Ma chi era costui? Non fumava, non beveva, ignorava le donne, cavalcava come un diavolo, le carte da gioco lo interessavano solo per simulare mandala tibetani o interrogarsi sul profondo significato dell’asso di cuori nel folclore mongolo. Eroe nell’esercito zarista, dopo la Rivoluzione russa si disperde in un territorio di tre milioni e mezzo di chilometri quadrati alla testa di un esercito. È un "generale bianco" della guerra civile russa. Ma non ubbidisce neppure ai capi dei mercenari che combattono al soldo del fronte antibolscevico, sotto bandiere con teschi e tibie incrociati, con una K nera cucita nella manica della divisa.
Rimettere gli zar sul trono di Mosca? Per lui è solo un dettaglio. Sogna piuttosto il grande impero asiatico di Kublai Kahn, Europa e Russia comprese. È per questo che getta prigionieri nelle fornaci delle locomotive o inventa la "tortura del topo" (un roditore dentro una lattina legata alla vittima, che si scava la strada da solo).
Ben prima di Hitler, ha l’idea dei progrom. Scatena la soldataglia contro gli ebrei, più odiati dei bolscevichi. Odia anche Albert Einstein (lo dirà torturando un prigioniero) perchè "l’oscena teoria della relatività" mette in crisi l’eterna fissità dei cicli cosmici. E nel buddhismo, al quale era devoto, sceglie la "via della Mano Sinistra", che prevede la trascendenza da leggi umane e divine.
Pozner ritrova i vecchi commilitoni del Barone, diventati guru o tassisti in pensione. Li incalza, li sbugiarda. E, con il rasoio di Occam, divide le leggende dai fatti. Comprese quelle diffuse in Italia da Pio Filippani Ronconi, orientalista e Obersturmführer delle SS italiane, allievo di Giuseppe Tucci, sfiorato dalle inchieste sullo stragismo, protagonista, a suo dire, degli ultimi "duelli a morte" dietro le chiese di Roma.
Per lui, il Barone era penetrato in una "frattura della Storia". E da allora il suo fantasma cavalca in Europa. Forse non aveva tutti i torti.