Enrico Deaglio, il venerdì di Repubblica 25/05/2012, 25 maggio 2012
MALEDETTI CINQUANTENNI
Torino. Egoisti. No, ben gli sta, erano furbacchioni troppo protetti. Parassiti, sanguisughe, sfruttatori dei loro stessi figli. Esodati (e questo è davvero il neologismo più raccapricciante). In crisi di nervi, depressi, aspiranti suicidi perché falliti e fondamentalmente inutili. Appena un attimo fa, i nostri governanti se la prendevano con i bamboccioni e gli sfigati, adesso con le loro mamme e papà. Sono i cinquantenni (fascia d’età particolarmente numerosa nel nostro paese invecchiato) colpiti duramente dalla crisi e dalle riforma delle pensioni. Nessuno sembra volerli più: sul lavoro sono demotivati, spesso ammalati e non sanno neanche come funziona Google. Sono un tappo che impedisce l’assunzione di giovani, e nello stesso tempo lo Stato (e con lui, la Germania, il Fondo Monetario Internazionale, Wall Street, la banca centrale cinese e il fondo delle vedove scozzesi, tutti interessati a fare affari con noi) considera troppo esoso pagargli una pensione per circa 25 anni a venire, visto che questa benedetta aspettativa di vita continua a salire (mannaggia a lei) e non ci sono più guerre, epidemie, pestilenze, calamità a ripulire un po’ l’ambiente, e ci si è messa anche la scienza, a complicare i conti.
Adesso che la prostata riesci a prenderla in tempo, adesso che dopo l’infarto corri anche la maratona, adesso che il Viagra si vende come il latte per i bambini, adesso che persino il pio Formigoni si mette le camicie a fiori... Zac, la stangata. Partiamo dai dati, terribilmente eloquenti. Gli italiani sono oggi sessanta milioni; e quelli tra i 50 e i 59 anni sono otto milioni, un po’ più donne che uomini. Almeno un sessanta per cento di loro percepisce un salario. Cinquantenni, e donne, sono addirittura l’82 per cento del milione di insegnanti italiani; cinquantenni sono quelli che fanno funzionare le poste, le banche, i commissariati di polizia, le ferrovie. Sono poi parte importante di quello che resta della nostra grande industria, privata o di Stato; sono i più protetti dai sindacati, di cui costituiscono il nerbo degli iscritti in attività. E qual è la loro massima aspirazione? Andarsene in pensione, e unirsi - loro, otto milioni - ai 17 milioni di italiani già pensionati. Questo, almeno, fino a ieri, quando si poteva andare in pensione tra i 60 e i 62 anni, e le varie categorie usufruivano di decine di "finestre", "scivoli", "sanatorie" e silenziosi accordi privati in grado di facilitare l’agognata uscita. Ancora un passo indietro, per poterci rendere meglio conto di cosa è realmente successo. I 57-58-59enni, appena ieri, finivano di lavorare, intascavano la liquidazione e la pensione (in genere non altissime nessuna delle due, ma nemmeno disprezzabili) e si dedicavano essenzialmente ad attività famigliari: sostegno economico ai figli (l’aiutino per il mutuo; il baby sitteraggio dei pupi), spesso qualche attività di volontariato sociale, ma anche qualche lavoro part-time, ovviamente in nero e poi aggiungevano una veranda, un soppalco, una cameretta, insomma un un po’ di metri cubi di cemento alla casetta al paese e, in linea di massima, ci scappava anche la settimana a Cuba o il giro del Mediterraneo con la Costa Crociere. Insomma, la classe media italiana, non eroica come la generazione che l’aveva preceduta, ma nemmeno così furbacchiona e assenteista come adesso la si descrive, imboccava un lungo viale del tramonto, in compagnia di un po’ di botox, una protesi d’anca fatta con la mutua, una dentiera fatta a Budapest, un voto al Pd di Bersani. Alla fine del viale l’aspettava, sorridendo, la badante. Ora si scopre che qualcosa come 400 mila di questi quasi sessantenni (il numero esatto non si saprà mai, è una specie di segreto aziendal-sindacale) avevano patteggiato un "esodo", una sorta di apertura burocratica del Mar Rosso verso le terre di latte e miele di una vecchiaia lunghissima pagata dallo Stato, con Inps, Cgil, Cisl e parlamento italiano ognuno a far la parte di un piccolo Mosè.
Tutto questo comportava piani dettagliati di spesa, una parte non piccola della depressa domanda interna. E invece, la pensione è ritardata di almeno cinque anni e, nello stesso tempo, il tuo padrone non ti vuole più tra i piedi. Una signora è diventata famosa, per la macabra maglietta "Fornero al cimitero", ma poi, quando ha chiesto scusa tra le lacrime e ha raccontato quanto fossero umane le sue aspettative e quanto grande la batosta subita, tutti l’hanno compresa.
Le storie sono tante, gli esodati scrivono molto. Ho potuto vedere una discreta messe di lettere, messaggi, sfoghi. Ecco tre tipologie. Attonito, indignato, esterrefatto: "Mia moglie è un’impiegata statale che, quest’anno, avrebbe fatto domanda per la pensione di anzianità per uscire con la finestra del 2013 e dedicarsi alla madre invalida e con soli 800 euro al mese di pensione. Adesso dovrà rimandare la sua uscita di oltre cinque anni. Cinque anni tutti in una volta, a pochi mesi dal traguardo, hanno stravolto la nostra famiglia con ripercussioni notevoli su salute e stato d’animo, con ricorso massiccio ad ansiolitici e sonniferi che non danno più risultati. Eppure bastava poco per attenuare l’impatto... Invece no. Si è voluto compiere un atto discriminatorio e punitivo nei confronti di una parte di lavoratori, ignorando anche la Costituzione". Ferito, molto arrabbiato, minaccioso: "Io ho 59 anni e dovrei maturare il diritto alla pensione il prossimo luglio 2012, la "finestra" si aprirà nell’agosto 2013, a 61 anni compiuti. Ma la mia azienda chiuderà prima e io, a 60 anni, non troverò un lavoro. Tutto questo mentre in Sicilia gli impiegati della Regione vanno in pensione con 25 anni di contributi (gli uomini) e 20 (le donne)... A me non calcolano invece neppure i 15 mesi di servizio militare. Bell’affare servire la Patria! Io adesso farò tutti gli scioperi e le manifestazioni. Non permetterò a nessuno di calpestarmi di nuovo. Anche se è un professore della Bocconi... Negli anni di piombo non capivo ciò che succedeva, i perchè della lotta armata. Oggi li comprendo perfettamente". Disperata, impaurita: "Sono un’insegnante che lavora nella scuola da quasi quarant’anni, ho sempre svolto il mio lavoro con dedizione e serietà, per uno stipendio attuale di 1.698,88 euro netti. Non mi sono mai lamentata, appagata da ciò che avevo: un lavoro, una casa di proprietà costruita da mio padre - che, per una vita, si è alzato alle tre di notte per mungere le pecore -, un’automobile senza pretese, i contributi pagati e la certezza di andare in pensione a sessant’anni. Sono figlia unica di madre vedova di ottant’anni in pessime condizioni di salute. Ditemi, cosa potrei fare se mia madre dovesse avere bisogno di assistenza? Si potrebbero riaprire le commende: sa quei bei posticini dove i vecchietti venivano tenuti legati ai letti e dovevano giacere nei loro escrementi! Oppure prendiamo spunto dal Grande Tedesco e riapriamo le camere a gas, forse quelle sono meno costose e risolvono anche il problema dell’allungamento della vita: a ottanta anni, tutti dentro, per il bene dell’Italia?".
Anche se il governo ora ha preso delle misure per tamponare la situazione delle prime 65 mila persone che rischiavano di trovarsi senza salario e senza pensione, rimandando una soluzione globale a tempi migliori, è molto difficile però che possa recuperare in simpatia in questa fascia di popolazione. Altro rapido giro d’orizzonte. Macchinista 58enne di La Spezia, riuscito a raggiungere la pensione per un pelo, prima che chiudessero le porte. "Qui vigeva una sorta di legge non scritta. In ferrovia, come all’Arsenale o in Finmeccanica: quando ti mancava qualche anno, l’azienda te li regalava, cioè tu davi le dimissioni e loro ti pagavano i contributi che ti servivano. Adesso non sarà più così. In ferrovia, per esempio, ci sono diecimila macchinisti, molti di questi fermati sull’orlo della pensione. L’azienda trova che due macchinisti per ogni treno sia un intollerabile spreco, addirittura l’emblema del privilegio (ma vi assicuro che non lo era passare la vita, in due, dentro una cabina foderata d’amianto) e vuole ridurli della metà. Risultato: i treni saranno guidati da un macchinista solo, vecchio e tendenzialmente incazzato. Assunzioni di macchinisti giovani? Non se ne parla proprio".
E il Grande Nord? Quello dove i sindacati riuscivano a firmare sontuosi contratti di dieci anni di cassa integrazione straordinaria per i dipendenti Alitalia; il Nord dove la Fiat, quando andavi in pensione a 60 anni ti dava una medaglia; il Nord dove, quando chiusero l’Olivetti ad Ivrea, gli ex dipendenti ebbero una specie di vitalizio? Interrogo Beppe Viganò, segretario Generale Fim Cisl per il territorio di Legnano, ovvero Padania pura. Mi segnala i casi dei quali si occupa al momento: Maurizio ha 52 anni e, dall’agosto del 2010, è in Cassa integrazione straordinaria (Cigs) per fallimento dell’azienda nella quale lavorava (taglio della lamiera per trasformatori) da 15 anni. È passato da un reddito di 24 mila euro annui ai 12.500 lordi della Cigs. Si sta lasciando andare. Graziella, 52 anni, stessa azienda, prima operaia (vapore, caldo, alluminio fuso, rumore, turni di notte) poi, con grandi sacrifici, impiegata. Idem, come Maurizio. Aiuta una conoscente che ha una bancarella di abbigliamento al mercato per qualche centinaio di euro al mese. Bruna lavorava ai televisori Mivar (vi ricordate? "Mivar, la risposta italiana alla Sony", oggi sull’orlo della chiusura totale). Delegata Fiom messa in mobilità del 2009, due contrattini che, nonostante le assicurazioni, non si sono trasformati in un posto stabile. Fra poche settimane perderà anche l’ultima tranche della mobilità residua. Separata (quindi, è una delle nuove povere del mondo occidentale) con un figlio di 19 anni, studente, sta seriamente pensando di vendere casa, perché non ce la fa più a soddisfare i bisogni primari.
Riflessione del sindacalista Viganò: "Se il Nord industriale non si è ancora trasformato in sede dello sconforto e dell’abbattimento, è solo perché molti cinquantenni "stanno bruciando la legna della cascina" che i genitori hanno accumulato nell’età dell’oro dell’Occidente".
Anche qui, naturalmente di assunzioni di giovani non si parla. Nessuno, peraltro, riesce a spiegare come sia possibile tenere al lavoro fino a 65 anni o più le persone (peraltro riottose) e, nello stesso tempo, immaginare l’entrata di giovani al lavoro. E infatti, non è materialmente possibile. E così, improvvisamente, trovare oggi in Italia un cinquantenne fiero di fare dei sacrifici perché serviranno ai suoi figli, è diventato molto arduo. Molti piuttosto si chiedono: "Ma davvero ho vissuto al di sopra delle mie possibilità? Davvero costo troppo?". In generale, improvvisamente in Italia è diventato arduo trovare un cinquantenne felice. Peccato, perché era un’età di moderazione e saggezza, quella che garantiva la famosa coesione sociale. Forse aveva ragione il cancelliere Bismarck, l’uomo che introdusse le pensioni nel 1889. Le fissò a settant’anni, sapendo che a quell’età i tedeschi in genere erano già morti. Dieci anni dopo, in un atto di bontà realista (temeva che sarebbe arrivato il socialismo), le portò a 65. Si vede che il socialismo non fa più paura perché qui da noi, cent’anni dopo, facciamo il contrario. Che l’allungamento della vita non sia stato un buon affare?