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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

I GUERRIERI ANTIFISCO

Passata la mezzanotte, dopo sette portate di carne alla griglia, l’ex poliziotto rivela che abbiamo poco da dormire. "Domani andiamo in Slovenia", dice. Domani quando? "Alle quattro si parte". Più che domani è dopo. "Già, ci restano tre ore di sonno. Ma non potevo dirlo al telefono", spiega lui e indica con il mento la tavolata nella sala accanto: "Quelli là ci ascoltano". E chi sono quelli là? "I carabinieri". Davvero? Il gestore del ristorante, amico e simpatizzante, conferma. Una tavolata di carabinieri in borghese. "Ogni volta che ci riuniamo, ci sono loro. Ma questa volta li freghemo", sorride l’ex poliziotto. È lui il capo, il presidente, il comandante. Ed è sempre lui, una settimana dopo, durante una riunione da carbonari in un hotel di Vicenza, a sostenere la necessità di un avvertimento forte allo Stato: "Lo scopo è il messaggio latente che si dà anche alla Guardia di finanza", annuncia testuale, "per dire: oh, in campana ragazzi, perché il messaggio è che qui si è autorizzati a difenderse. Noi gli abbiamo scritto a Equitalia. Gli abbiamo scritto alla Abaco, incaricata nella provincia di Treviso di fare prelievi forzosi... È giusto, è giusto. Dobbiamo far passare ’sto messaggio qua, se no non è un messaggio forte. Noi non vogliamo nessuna violenza. Ma glielo diciamo: stai in campana perché se venite qua, rischiate di trovarvi anche una fucilata. Ovvero il cittadino veneto che si difende e difende i propri beni in questa circostanza da un prelievo forzoso italiano, è condannabile da parte nostra? Noi diciamo di no. Ha esercitato un suo diritto". Punto. Fine. Sedici voti a favore. D’accordo tutti i rappresentanti delle cernide, come le chiamano loro, le milizie di autodifesa civile. Nessuno contrario. Nemmeno quell’altro, il vicepresidente. Nemmeno lui che di giorno comanda la polizia locale in un paese del miracolo a Nord-Est. E di notte eccolo qua, rivoluzionario in giaccone mimetico seduto alla sinistra del capo. Adesso, prima di tornarsene a casa a dormire, tutti in piedi sull’attenti. Il piccolo stereo portatile suona l’inno di Venezia. La musica di Vivaldi. E alla fine, il grido a squarciagola."Par tera, par mar: San Marco".
Dieci giorni nell’epicentro della rivolta fiscale. Dieci giorni dentro una delle organizzazioni più pedinate da carabinieri e polizia. Da quando la dolce vita della famiglia Bossi a spese dei contribuenti ha messo ko la Lega. Da quando la crisi e l’aumento delle tasse stanno limando il benessere anche in Veneto. L’ex poliziotto e il comandante dei vigili ora riempiono i bar di paese. Con i loro comizi di fuoco. E non solo i bar. In pochi giorni 2.116 fan raccolti su Facebook, dopo l’ultimo attacco degli hacker che avevano cancellato la pagina. Un centinaio di attivisti fidati sparsi tra le province di Treviso, Venezia, Belluno, Vicenza, Verona. E un seguito, non sempre discreto, di carabinieri in borghese che spiano le loro mosse. Da lontano hanno davvero l’apparenza di una milizia. Una di quelle congreghe di fanatici della provincia americana che dichiarano guerra al governo centrale. Da vicino li scopri per quello che sono. L’ex ispettore della polizia di Stato con un passato in seminario. Il comandante della polizia locale e tiratore scelto al poligono, per anni pubblico ministero onorario in una sezione del Tribunale di Treviso. L’ex autista dell’impresa di pompe funebri che si è licenziato per dedicarsi alla causa. Il venditore di auto di lusso. L’imprenditore che installa zanzariere. Il proprietario del pub della zona industriale. L’impiegato del mobilificio. L’idraulico. Il barista-artista che trasforma la frutta in sculture. Al di là dei comunicati a volte grotteschi, del piglio militare, dei giacconi mimetici e dei cappellini, non usano armi nei loro incontri. Soltanto parole. Almeno per il momento, scherza qualcuno. Ma sono parole incendiarie, se finiscono in menti agitate. Come l’idea delle fucilate alla Guardia di finanza, agli esattori del fisco. E molto altro ancora che questo viaggio rivela.
Il Veneto è sempre stato attraversato da indipendentisti e velleitari. Da storici faida-te che considerano la Serenissima Repubblica il territorio da liberare. E l’Italia uno Stato coloniale da scacciare. Un po’ come se ne trovano in Sardegna, in Sicilia, in Alto Adige. La novità è il seguito di cui si circondano da qualche mese a Nord di Venezia. E qui la milizia dell’ex poliziotto non è l’unica a seminare rabbia. È il risultato di una terra in cerca di rappresentanza. Il record di astensioni nelle amministrative a Belluno. Il senatore leghista locale, Piergiorgio Stiffoni, indagato per peculato e finito sui giornali con l’inchiesta su Umberto Bossi e figli. Addirittura il vicesindaco-sceriffo di Treviso, Giancarlo Gentilini, fischiato due domeniche fa al raduno degli alpini, un tempo grande allevamento elettorale fedele alla Lega. Ora c’è il vuoto. E la paura di non farcela. Davanti alla recessione. Davanti alla scelta imposta a molti piccoli artigiani tra il pagare le tasse, l’Imu o gli stipendi ai dipendenti. Davanti ai fallimenti e ai suicidi. La paura è sempre il sentimento guida. Lo era quando lo sceriffo Gentilini sfruttava la cronaca nera per raccogliere voti. Lo è ancora nei comizi della milizia anti-tasse con le storie di padri di famiglia che si uccidono. Così, dopo 18 anni in cui ministri della Repubblica e tirapiedi della Lega hanno predicato la secessione e l’impiego del tricolore per l’igiene intima, non bisogna meravigliarsi se adesso molti ci credono davvero. In fondo i leghisti duri e puri sono comparsi trent’anni fa proprio qui. Prima che Bossi si impadronisse del progetto Liga Veneta. E trasferisse cassa e bandiera a Milano.
Bisogna risalire il Piave. E tornare indietro di una settimana, alla cena delle sette portate di carne e dei carabinieri seduti al tavolo accanto. Il fiume della Patria conduce dentro i paesi dove, sottovoce, è cominciata la rivolta. Spresiano. Maserada. Villorba. Ponzano Veneto, proprio lì tra le industrie che hanno diffuso nel mondo il marchio "united colors" dei Benetton. Provincia di Treviso. Traffico rallentato su strade rimaste agli anni Sessanta. Doppia linea continua al centro. Platani ai bordi come ai tempi di Gino Bartali. Colonna di camion. Non si sorpassa. Vigneti e fabbriche. Uva e cemento. Come se appartenessero alla stessa catena di montaggio. Quella con cui è stato costruito il miracolo Nord-Est.
Si comincia al di là del fiume. A Ponte sul Piave, via Verdi 1. È la casa che fu di Goffredo Parise. Non si può fare a meno delle parole dello scrittore, morto a Treviso nel 1986. Forse aiutano a capire cosa è accaduto: "Noi veneti abbiamo girato il mondo, ma la nostra Patria, quella per cui, se ci fosse da combattere combatteremmo, è soltanto il Veneto. Quando vedo scritto all’imbocco dei ponti sul Piave fiume sacro alla Patria mi commuovo, ma non perché penso all’Italia, bensì perché penso al Veneto".
Sono proprio queste le pagine che vuole riaprire Sergio Bortotto, 50 anni, l’ex poliziotto destituito qualche anno fa dalla questura di Treviso dopo 22 anni di servizio. Se si segue la sua vita attuale, non è difficile scoprire perché gli abbiano tolto la divisa. L’appuntamento alle quattro del mattino è davanti a una vetrina del centro commerciale di Villorba. Uno spiazzo illuminato a giorno e sorvegliato dalle telecamere. Sopra i vetri a specchio dell’ingresso e la scritta "Sicurezza", la brezza fa sventolare il leone alato di San Marco con in pugno la spada. Bortotto lavora qui. Direttore della sicurezza del centro commerciale. E questo è anche il punto di ritrovo degli attivisti del Movimento di liberazione nazionale del popolo veneto. Di cui l’ex ispettore di polizia è l’inventore. E il presidente. L’obiettivo è sempre lo stesso: ribellarsi allo Stato invasore e rifondare la Repubblica di Venezia. Come nel 2009. Quando con un altro movimento, Autogoverno del popolo veneto, nominano il ministro dell’Interno, cioè Bortotto. E costituiscono la "Polisia veneta". Divise. Gradi. Per il momento niente armi. Sembra una storia da raccontare per ridere al bar. Bortotto e i suoi però ci credono. Vivono per questo. E la Procura si muove. L’ex poliziotto viene portato in questura a Treviso. Questa volta da cliente. L’accusa: violazione del decreto del 1948 che vieta le associazioni a carattere militare. Il processo è ancora impantanato all’udienza preliminare. Perché prima di andarsene il ministro per le Semplificazioni, Roberto Calderoli, ha semplificato il decreto. Cancellandolo. Stop al processo sulla Guardia padana della Lega, avviato a Verona. Ma anche a quello sulla "Polisia veneta". Robe all’italiana. L’ultima tappa è di pochi giorni fa, quando il giudice dell’udienza preliminare ritrasmette le carte alla Corte costituzionale, che già una volta si è pronunciata a favore dei "polisiotti".
Sergio Bortotto dice di non riconoscere la magistratura italiana. Non risponde alle lettere dell’avvocato. Non va alle udienze. Non paga le tasse. Eccolo adesso che arriva nel parcheggio deserto su un’auto che non è la sua. "Per evitare sorprese alla frontiera", spiega, "la mia macchina resta a casa". Guida Sandro Meneghin, 27 anni, ex promessa del ciclismo con Oscar Gatto, che in questi giorni sta correndo il Giro d’Italia. Dietro è seduto Paolo Gallina, 45 anni. È lui il comandante della polizia locale. Lavora a Cornuda, altro paese lungo il Piave. Era l’unico armato del gruppo. Per ragioni di lavoro. E per passione sportiva. Fino al giorno della perquisizione. Gli sequestrano nove pistole tra cui le sue Glock da collezione. E due fucili da caccia. Tutti registrati. Ma anche, secondo i verbali della polizia, 922 cartucce di vario calibro: cioè 722 oltre il massimo consentito. "Era tutto regolare", sostiene lui durante il viaggio. Dove andiamo? "A Lubiana. Presentiamo la richiesta di riconoscimento del nostro movimento di liberazione", rivela Bortotto. Arrivati dopo un po’ di peripezie davanti alla porta del Kabinet predsednika vlade, il palazzo del governo, l’agente di guardia fa passare soltanto Gallina. Il veneziano non è più una lingua internazionale. L’italiano non lo è mai stato. Tanto meno il veneto. Entra Gallina perché è l’unico dei tre che parla un buon inglese. Il comandante dei vigili di Cornuda presenta la carta d’identità autoprodotta della Repubblica di Venezia. Ci sono la sua foto, il numero di serie, gli stemmi. In lingua veneta ovviamente. Ai poliziotti sloveni basta così. Non gli chiedono i documenti italiani. Più che un incidente diplomatico, forse è solo sbadataggine. Gallina esce euforico. Mostra il timbro blu. La domanda è stata accettata. E pensare che per la resa di Venezia, nel 1797 i francesi mandarono addirittura Napoleone. Bortotto risponde al cellulare: "Sì", dice, "so’ ciapà coe bombe". Bombe? "È un modo di dire, quando si hanno tante cose da fare", si affretta a spiegare.
Qualche giorno dopo tre ladri tentano di rubare una bicicletta nel centro commerciale. L’ex poliziotto accorre con Rufus, il cane nero con lampeggiante sul guinzaglio e targhetta identificativa "Sicuresa". I tre vengono fermati. Sono minorenni. Bortotto chiama i carabinieri. Si stringono la mano. Scherzano. Di giorno quasi colleghi. La sera di nuovo su fronti opposti. "Anche se io rispetto l’Arma", dice lui: "Quando sarà il momento della liberazione, chi vuole entra nella nostra polisia". Si va in provincia di Belluno, a Farra d’Alpago. Incontro pubblico in pizzeria con i ragazzi del posto. La sera dopo, comizio al pub di Maserada sul Piave. Sala pienissima. Gallina a sinistra, giaccone mimetico. Bortotto al centro, camicia nera. A destra Enrico Pillon, 37 anni, l’impiegato. Camicia nera anche lui. Pillon si presenta così sulla pagina Facebook, collegata al sito del movimento: "Dal nome germanico Heinrich che, composto dai termini haimi (casa, patria) e rich (potente, dominante), può essere tradotto come potente, dominante nella sua patria, o come re o sovrano".
Si potrebbe chiudere qui il viaggio (e questo articolo). Con una risata e un bicchiere di prosecco. Invece li stanno a sentire. "Siamo occupati da uno Stato straniero", sostiene Bortotto, "è l’Italia. Perché la Repubblica veneta giuridicamente non ha mai cessato di esistere. Noi non siamo mai diventati italiani. Ci continuano a dire che siamo italiani perché ci dicono paghé le tasse, siete italiani, ste zitti, lavoré, continuate a pagar. Tipico di uno Stato che ci colonizza... Noi vogliamo spiegare che il movimento di liberazione nazionale è un percorso previsto per legge. Legale e legittimo secondo il diritto di autodeterminazione dei popoli. Tutto quello che si sono inventati sulla polizia nazionale veneta è un’inchiesta creata ad arte per spaventarve... Dobbiamo costituire una polizia nazionale veneta perché un padre di famiglia non può delegare a un altro padre di famiglia di difendere i propri figli. E siccome questa è casa nostra, solo un altro veneto potrà giudicare un altro veneto. Solo un altro veneto potrà pretendere tasse da un altro veneto". Dura due ore. Adesso tocca a Gallina: "Vogliamo che prendiate coscienza del fatto che siete, siamo veneti a casa nostra.Non dobbiamo chiedere niente all’Italia. Ma mandarla a quel paese. La Guardia di finanza, l’Italia e tutto il resto. Fuori dai piedi... Noi siamo contro la guerra. Però ricordate che se un popolo prende coscienza, si ribella non ghe xe manette della Digos, che ghe ga un centesimo di addestramento. Li femo a tochi", li facciamo a pezzi. Basterebbe forse ricordare la decadenza del patriziato della Serenissima all’arrivo di Napoleone, la compravendita di voti allora come nell’Italia di Berlusconi, l’insurrezione di Venezia il 17 marzo 1848, Daniele Manin, Niccolò Tommaseo e tanti altri. Ricordi di scuola troppo lontani perché riaffiorino nell’età media dei presenti. Un po’ di pensionati. Tanti quarantenni. Alla fine un fragoroso applauso conclude anche questa lezione da bar.
Sono almeno una decina in Veneto le sigle nazionaliste che invitano alla rivolta fiscale. Come quest’altra a Spresiano, dieci minuti di macchina da Villorba. È la sede dell’Autogoverno del popolo veneto. Daniele Quaglia, 63 anni, ex leghista della prima ora, è il presidente. Oltre che il responsabile di Treviso dei Life, i Liberi imprenditori federalisti europei. Uno di loro, Graziano, 62 anni, si è suicidato per non trascinare la famiglia nel fallimento della sua impresa. "In Austria, in Slovenia", dice Quaglia, anche lui indagato per la polizia veneta, "i nostri simili pagano il 35 per cento di tasse. Se un veneto adotta l’evasione fiscale, ha una motivazione giusta. Lo fa per liberarsi". E gli attentati a Equitalia? "Non è vero che ci sono stati degli attentati prima nei confronti di Equitalia. Gli attentati sono avvenuti nei confronti di imprenditori veneti costretti, istigati al suicidio. Io la conosco la solitudine. Spesso qualcuno mi telefona qua che non sa che santi chiamare. Adesso la gente, finalmente, ha deviato l’obiettivo. Non l’autolesionismo. Finalmente una protesta". Si torna a Villorba. E si riparte in carovana con Bortotto, Gallina e gli altri. Li attende la riunione a porte chiuse a Vicenza. L’incontro periodico di tutte le cernide del Veneto, i capi milizia. Durante il viaggio raccontano del questore di Venezia che il 25 aprile, festa di San Marco, ha mandato la polizia a identificare chi girava in città con le bandiere della Serenissima. Per loro, una vittoria. Se i simboli fanno paura, è già un brutto segno.