Enrico Marro, Corriere della Sera 25/05/2012, 25 maggio 2012
ANNO PER ANNO TUTTI I NUMERI DELLE PENSIONI. L’ASSEGNO PREVIDENZIALE FINO ALL’84% DEL REDDITO —
«Le ripetute riforme previdenziali degli anni Novanta, compresa l’ultima, la Fornero-Monti, garantiranno nel medio-lungo periodo non solo una sostanziale stabilità della spesa pensionistica in rapporto al prodotto interno lordo, ma anche il mantenimento di adeguati livelli di prestazione». Lo afferma Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, la commissione di esperti del ministero del Lavoro che diffonderà oggi l’ultimo rapporto sugli «andamenti finanziari del sistema».
L’adeguatezza delle prestazioni è la cosa che più interessa al lavoratore. Essa infatti, attraverso il cosiddetto «tasso di sostituzione», misura l’importo della pensione in rapporto all’ultima retribuzione. Bene, secondo le proiezioni del rapporto Brambilla, che si spingono fino al 2060, il tasso di sostituzione della pensione al netto del prelievo fiscale è addirittura destinato ad aumentare per i lavoratori dipendenti, passando dal 78,1% della retribuzione nel 2010 all’84,6% nel 2060. L’esempio si riferisce alle pensioni di vecchiaia con età di inizio del lavoro a 30 anni.
Il miglioramento del grado di copertura delle pensioni, spiega il rapporto, è dovuto essenzialmente al fatto che si lavorerà più a lungo. L’età per la pensione di vecchiaia, dopo la riforma Fornero, aumenterà infatti gradualmente dai 66 anni attuali a 71 anni e 3 mesi nel 2065. Sarà di 70 anni e 10 mesi nel 2060 e quindi il lavoratore dell’esempio riportato nel rapporto avrebbe quasi 41 anni di contributi. Per un lavoratore autonomo, invece, il grado di copertura scenderà dall’88,9% del 2010 al 69,4% del 2030 per poi risalire fino al 77,6% del 2060. Un andamento altalenante che si spiega con l’andata a regime del metodo di calcolo contributivo: gli autonomi pagano il 24% rispetto al 33% dei dipendenti e nel retributivo avevano un rendimento della pensione molto maggiore.
In realtà, spiega Brambilla, dal 2030 andranno in pensione soprattutto coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, che ricadono nel contributivo puro. Costoro potranno andare in «pensionamento anticipato» se in possesso di 20 anni di contributi e di un’età minima che oggi è di 63 anni e che salirà anch’essa gradualmente. Nel 2030, per esempio sarà di 65 anni e due mesi. Un lavoratore dipendente che appunto avesse cominciato nel ’96 potrebbe andar via nel 2030 e, con 35 anni di contributi, avrebbe una pensione pari al 67,2% della retribuzione: tasso di copertura che il rapporto stima in crescita fino al 72% nel 2060 quando saranno necessari 67 anni e 10 mesi. Più basso invece l’andamento del tasso per un lavoratore autonomo sempre nel contributivo puro, dal 58% del 2030 al 66,9% del 2060. Si conferma quindi che per chi ha cominciato a lavorare dopo il ’95 la pensione integrativa sarebbe utile.
Quanto al rapporto tra la spesa previdenziale e il prodotto interno lordo, esso è salito tra il 2007 e il 2010 dal 13,5% al 15%, scenderà fino al 2030, quando è stimato al 14,4%, poi salirà leggermente, fino a raggiungere il massimo del 15,4% nel biennio 2046-2047 per ridiscendere infine al 13,8% nel 2060. Questi andamenti, tutto sommato positivi, si realizzeranno, ammonisce però Brambilla, solo se l’economia riprenderà a crescere e l’occupazione aumenterà. Oggi siamo gli ultimi in Europa per tasso di occupazione, tranne Malta, sottolinea il rapporto.
In prospettiva, aggiunge il presidente del Nucleo di valutazione, il problema maggiore si porrà per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996 perché nel sistema contributivo puro non ci saranno più le maggiorazioni assistenziali, come per esempio le integrazioni al minimo della pensione, che oggi riguardano 7 milioni di anziani, e quindi per avere una prestazione buona sarà indispensabile aver avuto una carriera lavorativa continua: un risultato difficile da raggiungere per chi resta intrappolato nei contratti precari.
Enrico Marro