Roberto Beccantini, La Stampa 24/5/2012, 24 maggio 2012
CILE-ITALIA CINQUANT’ANNI DOPO
Avevo undici anni e mezzo, quando successe. Vivevo a Bologna, ero già sivoriano. La Battaglia di Santiago fu la prima grande zuffa di sport alla quale assistetti in salotto, davanti al televisore. Avrei giurato sulla “diretta”, invece no: solo differita. Due giugno 1962, mezzo secolo fa: Cile due, Italia zero. I Mondiali, gli oriundi, e quella baraonda da saloon, brutta, sporca, cattiva. Alberto Facchinetti l’ha recuperata dalla polvere dell’archivio per ricavarne un libro, questo, dal titolo secco, senza sottofondi ambigui o ruffiani: La Battaglia di Santiago. Punto.
Alberto ha fatto di quella partita il suo Titanic, e per investigare le cause scatenanti del tutti contro tutti è andato a caccia di chiunque potesse offrirgli un indizio: protagonisti, testimoni diretti e indiretti, libri, giornali. Ha scomodato i vivi e “disturbato” i morti. Ha ricostruito la rissa in laboratorio, non già per il gusto perverso di alterare la sequenza e vendicare torti vari ed eventuali; semplicemente, per documentare la genesi e le tappe del finimondo.
L’autore ha intervistato anche il sottoscritto. Non dimenticherò mai lo stupore con il quale accolse e raccolse la risposta alla domanda “Cosa ricordi di quel casino?”. Gli snocciolai la formazione del Cile, dall’uno di Escuti all’undici del famigerato Leonel Sánchez. Tutti, senza sbagliarne uno. Ricordavo loro, i cileni: non gli italiani. Tracce patenti di esterofilia galoppante, sintomi di malattie che mi avrebbero contagiato e accompagnato non solo nel lavoro. In parole molto povere, l’attrazione irresistibile per lo stretto superfluo.
FATTI, NON PAROLE. O comunque: parole per raccontare, e spiegare, i fatti – e i fattacci – del Sessantadue, dagli “scripta manent” di Antonio Ghirelli e Corrado Pizzinelli, gli inviati che illustrarono il Cile in maniera tale da far arrabbiare i cileni, ai “verba volant” in campo e dintorni, fino ai pugni e all’isteria indiscriminata che portarono all’espulsione, già nel primo tempo, di Giorgio Ferrini e Mario David. Il libro arriva al corpo a corpo dello stadio Nacional passando attraverso la formula sin troppo democratica e democristiana che aveva sbriciolato la direzione tecnica della nostra Nazionale, lasciandola in balìa di Paolo Mazza e Giovanni Ferrari, a loro volta succubi delle informative dei giornalisti, come documentano le romanzesche doglie che produssero il parto degli undici anti Cile, senza Omar Sivori e Gianni Rivera, e con Angelo Benedicto Sormani in vantaggio su José Altafini fino all’ultimo conciliabolo, e poi da costui scavalcato.
Ci sono aneddoti saporiti, tipo i muri-non-muri che consentirono a Sivori di cogliere i pissi pissi di Mazza la notte della vigilia. C’è il coté cileno, che visse quella vittoria, e il terzo posto di quel Mondiale, come una sorta di risarcimento per il fango che gli scribi italiani avevano gettato addosso all’orgoglio del Paese. C’è la sponda inglese, legata alla nazionalità dell’arbitro. In principio, Kenneth Aston non avrebbe dovuto dirigere Cile-Italia. Gli fu assegnata in seguito ad alcune mosse non proprio lungimiranti della delegazione azzurra, angustiata dalla prospettiva di un “giudice” spagnolo, dunque stessa lingua. Aston è colui che anni dopo, folgorato dal giallo e dal rosso di un semaforo londinese, avrebbe inventato i cartellini che ancora oggi certificano le ammonizioni e le espulsioni. Sapeva delle tensioni politiche tra i due governi, ma non poteva immaginare la dinamite nascosta tra i nervi, i cileni che provocano e gli italiani che ci cascano e reagiscono. Gli azzurri uscirono dopo tre partite: zero a zero con la Germania Occidentale, zero a due con il Cile, tre a zero, platonico, alla Svizzera. Tenne banco il caso degli oriundi, di fronte ai quali, da buoni figli di Niccolò Machiavelli, ci siamo sempre regolati in base ai risultati: preziosi nei trionfi (Mondiali 1934, 1938), rovinosi nei disastri (Mondiali 1958, l’unica edizione alla cui fase finale non partecipammo perché sconfitti sul campo, dall’Irlanda del Nord). Alberto ha girato mezza Italia per cucire brandelli di realtà, se non proprio di verità; per capire come si fosse potuto giungere a così tanto, in così poco tempo, e in un’epoca così lontana dalle invasioni della televisione tentatrice e gossipara.
LE PAGINE OFFRONO una rustica tana anche alla malinconia di Nereo Rocco, che sui gradi di commissario tecnico (o unico, come era di moda allora) aveva fatto più di un pensierino, e alle stregonerie di Helenio Herrera che, già a libro paga dell’Inter di Angelo Moratti, ai Mondiali del ‘62 allenò la Spagna e, come noi, uscì al primo turno. C’è un episodio che mi ha colpito. Cesare Maldini, di passaggio a San Paolo con l’aereo che porterà la Nazionale in Cile, consegna a Rocco una lettera di Mino Spadacini, dirigente del Milan e consigliere federale. “Tutto qua?”, domanda il Paron, mesto. “Sì, signor Rocco”. E via, ciascuno per la sua strada: Maldini, verso la tempesta; il Paron, verso l’acquisto di Germano, il brasiliano che, al Milan, durò lo spazio di due gol e di un matrimonio (con la contessa Giovanna Agusta).
La Battaglia di Santiago è un’indagine che porta a galla le dinamiche del primo, grande Far West che coinvolge il calcio nazionale in epoca moderna. Nata nel 1954, la Rai aveva ancora le braghe corte, e la copertura dell’evento venne affidata, così, alla radio e alla voce di Nicolò Carosio. Le sue cronache, sì, erano in diretta. Nicolò ci controlla da lassù, con il suo “whiskaccio” e in compagnia di Nando Martellini, colui che, in tv, avrebbe poi commentato la differita.
OGNI ANGOLO è stato frugato; ogni aspetto, sviscerato. Con tanto di Humberto Maschio che sferra un pugno pre-ventivo al cazzotto post-ventivo di Sánchez. Il racconto della zuffa del Nacional ha chiuso ferite e riaperto cicatrici, prova ne sia il rancore di Amos Ferrini, figlio di Giorgio, nei confronti del sommo Brera, che su Il Giorno aveva giustificato la hybris paterna come effetto collaterale di un rudimentale doping. La terra, lieve, avrà aiutato tanto Giorgio quanto Gianni a spiegarsi: li vedo brindare, dandosi di gomito, ai Sánchez dei giorni nostri.
Uno spaccato dell’Italia pallonara, proprio così. Il ring e il bordo-ring non distolgono l’autore dalla ricerca delle correnti di pensiero che avevano censito “quella” formazione. Erano tempi in cui i giornalisti si sfidavano a singolar tenzone – da una parte, il Lombardismo di Brera; dall’altra, la scuola napoletana di Ghirelli e Palumbo – e raggiungevano l’orgasmo nel suggerire/dettare i titolari ai commissari di turno. Le scappatelle dei medesimi, titolari o commissari che fossero, non fregavano un tubo. Fregava la tattica: che ci fosse tizio al posto di caio, e non chi andasse a letto con sempronio. Alberto Facchinetti ha esordito nel 2011 con Doriani d’Argentina, saga dei campioni, quasi campioni e finti campioni che hanno militato nella Sampdoria. La Battaglia di Santiago è la sua ultima fatica: un pugno che torna ad agitare la nostra memoria e i nostri lividi.