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 2012  maggio 24 Giovedì calendario

CON QUELL’ARMA HA FATTO FUORI LO STATO


Sostiene Ippazio Stefano, il sindaco vendoliano di Taranto fotografato con pistola alla cintola durante i festeggiamenti per la vittoria elettorale, che lui quella bocca da fuoco porta con sé per fare risparmiare lo Stato: non usa l’auto blu, ha rifiutato la scorta della Digos, ma siccome le minacce l’ha ricevute, si sente più tranquillo con la fedele Colt a portata di mano. Ippazio è un tipo strano, e alle armi non deve essere un granché abituato: nessun professionista terrebbe una pistola fra cintura e pancia con la canna oltretutto puntata sui gioielli di famiglia. Ma la toppa che ha messo a sua difesa è ancora più grave della foto che lo ritrae primo cittadino del West. A pochi giorni dal drammatico attentato alla scuola di Brindisi, in quella stessa terra c’è infatti un sindaco dello stesso partito del presidente della Regione che afferma bellamente di rifiutare lo Stato (poco importano i motivi) e di preferire farsi giustizia da sé. Si immagini il messaggio che il sindaco di Taranto ha offerto in quel modo alle famiglie di Mesagne delle ragazzine colpite a morte o gravemente mutilate da quell’attentato, mentre i magistrati litigano fra loro e il colpevole non salta fuori.
Quel messaggio: pistola con me e ci penso io, è per altro il più classico dei simboli che la criminalità organizzata da sempre cerca di offrire alla popolazione per cercare quel minimo consenso sociale che le è necessario per muoversi. Anche la Sacra corona Unita cavalca da tempo quell’idea. Perfino sul piano sociale: i boss in questi mesi stanno distribuendo alla popolazione più povera una sorta di assegno sociale che lo Stato non è in grado di fornire. Figurarsi se si presenta loro un’occasione d’oro come quella post-Brindisi per trasformarsi in vendicatori e veri custodi di quell’ordine pubblico e di quella giustizia che lo Stato non sa assicurare. Un bel trampolino l’ha offerto la stampa locale e nazionale. Perfino Repubblica ha santificato con un’intervista il boss-cassiere della Scu, Tonino Screti, che grazie al favore ha mandato alla popolazione il suo messaggio: “la Scu non c’entra nulla con l’orrore di Brindisi, la mafia non uccide ragazzini”, e quasi faceva capire dal carcere che il colpevole l’avrebbero trovato gli uomini d’onore del posto. Stessa filosofia nelle interviste della stampa locale a un altro boss, l’ex re del contrabbando, l’ostunense Francesco Prudentino, un tipino abituato a mitra e bazooka, ora “in pensione”: “Dovessi prendere io quell’assassino, quanto è vero Iddio lo ammazzerei”.
In Puglia quattro anni fa uscì dal carcere il boss più temuto di Gallipoli, Salvatore Padovano. Appena fuori cercò il consenso della sua gente. Fece finta di esser radicalmente cambiato, e pubblicò a sue spese due libri, uno di storia («Da Ciano all’11 settembre »), e una raccolta di poesie amorose («Tutti i dì»). Non erano capolavori, ma li acquistarono in blocco biblioteche comunali e perfino leader politici in campagna elettorale. Qualche mese dopo Padovano fu ucciso in un agguato da un fratello e da un cugino. Venne fuori che poesie o non poesie aveva tentato di fare il lavoro di sempre: il boss della Scu. E gli era andata male.
I boss mafiosi dunque quello fanno: rubano, drogano, ammazzano. Non sono loro i buoni in alternativa allo Stato cattivo. Non sono loro la vera legge che funziona meglio di quella di uno Stato troppo spesso incapace e troppe volte assente in quelle terre. Ma certo tutto che in anni si è costruito per farlo capire anche a chi vive a due isolati dal boss, va a farsi benedire davanti a un sindaco che per antipolitica sposa la legge del Far West e di fronte a giornali e giornaloni che si bevono la leggenda del mafioso in fondo buono che darà la caccia al terrorista che spara sui bambini…

Fosca Bincher