Massimo Gaggi, Corriere della Sera 24/05/2012, 24 maggio 2012
ZUCKERBERG E I SUOI «AMICI». QUEI GURU DELLA RETE COME SQUALI DI WALL STREET —
Anche i «bravi ragazzi» molto social di Facebook si sono fatti prendere la mano dall’avidità dei banchieri di Wall Street. Ma Mark Zuckerberg, per anni restìo a quotare la sua creatura, è stato davvero giocato da Morgan Stanley che, mentre dava solo ad alcuni clienti le informazioni sulla ridotta capacità dell’azienda di produrre reddito, ha spinto il volume di azioni offerto e il prezzo oltre ogni ragionevolezza? O l’«anima nera» è il direttore finanziario di Facebook, David Ebersman, che ha approfittato dell’eccitazione di risparmiatori e speculatori, abbagliati dalla celebrità del marchio e dalla possibilità di un facile guadagno, per imporre una quotazione fuori mercato?
Lo stabiliranno le inchieste delle authority del mercato borsistico e della magistratura. Ebersman dovrà, ad esempio, spiegare perché, dopo aver mandato il 9 maggio alla Sec un aggiornamento del prospetto dell’Ipo nel quale avvertiva che la redditività dell’azienda è minata dalla maggior tendenza degli utenti a collegarsi al social network via cellulare anziché col computer (la pubblicità sul telefonino vale meno), ha ugualmente concordato con Morgan Stanley una supervalutazione. Non solo, ma ha anche avvertito i soci «storici» di Zuckerberg che potevano approfittare del momento della quotazione per vendere più azioni del previsto a un prezzo favorevole.
Non c’è bisogno, però, di indagini particolari per convincersi che i «bravi ragazzi» che volevano cambiare il mondo mandando in pensione il capitalismo novecentesco, facendo del bene (slogan di Google) e senza puntare al profitto (il mantra di Zuckerberg, fino a qualche tempo fa), al momento delle scelte cruciali si sono comportati in modo non troppo diverso dai vecchi «padroni del vapore».
Steve Jobs ha rischiato di finire in galera perché la sua Apple (non lui personalmente) ha battuto in spregiudicatezza perfino i finanzieri di Wall Street nell’uso dei «bonus esentasse» per i manager. Quanto a Zuckerberg, avendo dato pezzi di Facebook ai cofondatori e a diversi «compagni di strada» e avendo già venduto privatamente una parte della società a investitori e a banche come il tycoon russo Yuri Milner e la Goldman Sachs, è stato ben attento a non perdere il controllo della società, pur non avendo più la maggioranza del capitale. Prima di quotare Facebook, il fondatore ha fatto dividere le azioni in due classi: così, anche se ha solo il 28% di quelle di classe B, Zuckerberg ha in mano il 57% dei diritti di voto.
Espedienti vecchia maniera che ci riportano ai giochi delle scatole cinesi e agli artifici tipici del capitalismo familiare. Ma, anche se ora è accusato da Larry Page di essere una specie di padrone feudale che tiene sotto chiave i suoi utenti, in campo finanziario il fondatore e capo di Facebook si è ispirato proprio al suo collega di Google: è stata la società di Page e Brin, infatti, la prima a importare nella Silicon Valley dell’alta tecnologia la struttura finanziaria basata su due classi di azioni. Un modello «archeologico» prontamente seguito anche dalle società più cool dell’economia digitale sbarcate nel mercato: da LinkedIn a Groupon, da Zynga a Yelp.
Del resto l’abbinamento diavolo-acqua santa, Zuckerberg l’ha accettato quando ha aperto le porte a Milner e a un altro oligarca russo legato al Cremlino: Alisher Usmanov, un re dell’acciaio e delle miniere. Errori e furbizie che hanno fatto precipitare la situazione fin dal primo momento della quotazione andranno analizzati in profondità. I comportamenti a dir poco disinvolti della Morgan Stanley di James Gorman che in questa vicende si gioca la fama di banca d’affari specializzata nel collocamento di società tecnologiche, ma anche il black out del Nasdaq che venerdì mattina, mentre il suo capo, Bob Greifeld, brindava nel campus di Facebook con Zuckerberg, si è bloccato per più di mezz’ora perdendo un numero incredibile di ordini di acquisto e vendita. Ora anche il Nasdaq fa mea culpa, ma non sa come compensare chi è stato danneggiato. Altro lavoro per gli inquirenti.
Ma non c’è bisogno di aspettare l’esito delle indagini per sentire puzza di bruciato davanti alla decisione, presa a poche ore dal collocamento, di aumentare massicciamente la quantità di titoli Facebook venduti da alcuni suoi grandi azionisti storici, dallo stesso Milner alla Goldman Sachs. La banca regina di Wall Street che stavolta, in una vicenda che ricorda (per la logica non certo per le dimensioni) gli eccessi che hanno portato al crollo della Lehman e al crash del 2008, è rimasta nelle retrovie, lasciando il palcoscenico a Morgan Stanley. Ma che, all’improvviso, ha deciso di liberarsi non del 23% delle sue azioni Facebook, come previsto inizialmente, ma di quasi metà del suo pacchetto.
Massimo Gaggi