Fabio Genovesi, Vanity Fair 30/5/2012, 30 maggio 2012
Più di duecento chilometri separano Cherasco da Cervinia, e dall’inizio della tappa continuo a farmi la stessa domanda: ma è il Giro d’Italia che somiglia alla vita, oppure è la vita che è identica al Giro? Ci penso e non so rispondere, so solo seguire questa lunga avventura che si affronta giorno per giorno, un po’ in salita un po’ in discesa, con lunghi periodi piatti in cui non succede nulla, poi raffiche di emozione che ti arrivano addosso all’improvviso e ti portano chissà dove
Più di duecento chilometri separano Cherasco da Cervinia, e dall’inizio della tappa continuo a farmi la stessa domanda: ma è il Giro d’Italia che somiglia alla vita, oppure è la vita che è identica al Giro? Ci penso e non so rispondere, so solo seguire questa lunga avventura che si affronta giorno per giorno, un po’ in salita un po’ in discesa, con lunghi periodi piatti in cui non succede nulla, poi raffiche di emozione che ti arrivano addosso all’improvviso e ti portano chissà dove. Insomma, il Giro è un evento sportivo, ma è anche molto altro. Ecco perché non lo puoi contenere in uno stadio, un circuito o un palazzetto. Il suo palcoscenico naturale sono i borghi, le strade e le piazze dei nostri paesi, è sotto casa nostra che i campioni del pedale si danno battaglia. Un po’ come aprire la finestra una domenica pomeriggio, e scoprire che giù in cortile si gioca Juve-Milan. E proprio per questa sua anima on the road, il ciclismo è esposto a mille imprevisti, dalla più banale delle forature fino all’inconveniente capitato al campione olimpionico Paolo Bettini, che mentre gareggiava in Malesia è stato morso da una scimmia. Certo, oggi attraversiamo Piemonte e Valle d’Aosta e il rischio di scimmie assassine è assai basso, però un fagiano che zampettava al fianco dei fuggitivi l’ho avvistato, e lungo la salita verso Col de Joux le mucche pascolano insidiose a un passo dalla strada: nel ciclismo può capitare qualsiasi cosa. E questa vulnerabilità, così simile alla nostra, così umana, è parte del fascino che richiama tanta gente sulle vie del Giro. Milioni di persone, una folla superiore a quella di tutti gli stadi in un intero campionato di Serie A. E in effetti il ciclismo è lo sport perfetto per questi tempi di ristrettezze e sacrifici, in cui le vite dorate dei calciatori risultano odiose e le sgasate della Formula Uno ci fanno solo pensare a quanto costa un litro di benzina. Innanzitutto, il Giro lo puoi seguire gratis, e poi è così naturale riconoscersi nelle fatiche di questi pedalatori a cottimo, che stringono il manubrio e cercano di arrivare alla fine della tappa, inseguendo sogni di gloria. È forse anche per questo che, insieme agli striscioni dei tifosi, ne leggo tanti contro fabbriche che chiudono e industrie che licenziano a tutto spiano. Da Nord a Sud, quest’anno il Giro incontra regolarmente gruppi di manifestanti, e gli organizzatori devono trattare a lungo per convincerli a non bloccare la corsa. Ma oltre a curiosi e scontenti, il Giro vede la presenza di un agguerrito popolo di appassionati veri. E loro non li trovi mai belli comodi nelle piazze o seduti davanti ai bar. Loro si appostano solo nei punti impervi, lungo le salite più dure, incuranti del gelo e della pioggia che continua a battere. Hanno passato la notte a duemila metri di altitudine, su camper, su furgoni o in tenda, e da ore affollano i tornanti macchiati di neve nell’attesa di veder passare i corridori per qualche secondo. I più esagitati cercano di prolungare quell’attimo correndo a perdifiato accanto ai loro ciclisti preferiti, urlandogli incitamenti confusi nelle orecchie, dandogli pacche sulla schiena, rovesciandogli addosso dell’acqua rinfrescante anche se la temperatura si avvicina allo zero. Ma il freddo non si sente, quando ti scalda la passione. Ecco perché a poche curve dall’arrivo trovo un ragazzo tranquillissimo in mezzo alla strada, quasi nudo nel suo costume da centurione romano. «L’anno scorso ho fatto una cazzata», mi spiega. «Ero scalzo e sono caduto. Quest’anno però mi sono messo le scarpe». Viene da Conegliano Veneto e fa il ragioniere. Gli chiedo se ha passato la notte quassù: Sì. Gli chiedo se si veste sempre da centurione: Sì. Gli chiedo se ha bevuto: Sì sì. Avrei molte altre domande, ma arrivano i campioni e lui si lancia all’inseguimento. Lo guardo correre di fianco ai ciclisti, gli cade l’elmo romano ma lui non si ferma e sparisce lassù insieme a loro, inghiottito dal muro dei tifosi che si apre in due al passaggio della corsa, come il Mar Rosso davanti a Mosè. Nelle prime edizioni del Tour de France, l’auto del direttore allontanava i tifosi più scalmanati a colpi di frusta. Oggi è passato un secolo, ma il succo della storia non è troppo diverso: «Certe volte mentre guidi dietro a un corridore in salita», mi racconta Matteo Algeri, ex ciclista e direttore sportivo, «senti questo rumore, di qua e di là, come un ritmo. Sono gli specchietti dell’auto che sbattono contro il braccio o la spalla di qualche tifoso». Ma sono cose da nulla, carezze a cui l’appassionato non fa neanche caso. Soprattutto se intanto vede trionfare contro il cielo scuro di Cervinia un ragazzo venuto dal Costa Rica, Andrey Amador, che nel 2010 è stato quasi ammazzato da tre ceffi che gli volevano rubare la bicicletta. Si è ripreso, è tornato in sella e oggi grida la sua gioia sul traguardo. Perché la pedalata in più, quella che fa la differenza, riesci a darla solo se ti spinge la passione. Al Giro d’Italia come nella vita. Che più ci penso e più mi sembrano una cosa sola.