Massimo Fini, Libero 23/5/2012, 23 maggio 2012
IL POPOLO CHE SCEGLIE LA FORESTA «IL PROGRESSO CI HA RESO TRISTI»
Besoro è un piccolo villaggio immerso nella giungla subtropicale nel sud del Ghana, abitato dagli Ashanti, un’antichissima tribù, un tempo guerriera, che fino a un paio di secoli fa occupava vaste aree dell’Africa nera. A Besoro, Modernità, Progresso e quella che noi chiamiamo civiltà non sono ancora arrivati.
Una principessa del villaggio, Nana Konadu Yiadom, decide di fare un viaggio in Italia. Insegue il suo sogno: incontrare anche una suora, in odor di santità, che vive a Schio. Alla partenza – tutto il villaggio è venuto a salutarla – ha un momento di commozione guardando gli occhi pieni di luce, limpidi, sereni della sua gente. Sono occhi da bambini. Passerà un breve periodo in Sicilia, dove vive una conoscente, poi salirà a Schio dove scoprirà che la suora, l’obiettivo del suo viaggio, è morta mezzo secolo prima.
Si fermerà però a Schio per molti anni, mantenendosi facendo la colf. Non ha una cattiva percezione del nostro mondo. La cosa che la colpisce di più, all’inizio, è che tutti vanno di fretta e portano al polso uno strano oggetto che a Besoro non si è mai visto: l’orologio. A Besoro il tempo non esiste o, per meglio dire, ha una dimensione diversa: è segnato dal levar del sole e dall’ombra quando raggiunge le radici del grande cuacua del villaggio, il che vuol dire che è venuta sera. In seguito scoprirà molte altre cose del nostro mondo.
Nel frattempo la vecchia regina di Besoro ha designato proprio lei alla sua successione ma Nana Konadu Yiadom, che per semplicità in Italia si fa chiamare Rosina, rimarrà ancora molti anni da noi, quasi diciotto, tranne qualche breve ritorno al villaggio natìo. Una regina che fa la sguattera? In Italia diventa un caso. Ne parlano i giornali, arrivano da tutte le parti inviati per intervistarla. Ancora un passo e le proporrebbero una comparsata all’Isola dei famosi. Ma Nana cerca di sottrarsi a ogni pubblicità. Finché il consiglio degli anziani la reclama a Besoro perché possa adempiere appieno ai suoi doveri di regina. Nana-Rosina è ormai partecipe delle due culture: quella occidentale e quella di uno di quei rari popoli «primitivi», che i tedeschi chiamano più correttamente «popoli della natura» (Naturvölker), ancora rimasti sulla faccia della terra. Vuole migliorare le condizioni del suo povero villaggio. Niente di grandioso: una piccola scuola, un piccolo ospedale. Che verranno costruiti con l’aiuto di alcuni amici italiani che si sono presi a cuore la sorte di questo villaggio dimenticato dalla civiltà. Costruito l’ospedale il medico, un nero anche lui ma che viene da fuori, fa notare a Nana che l’ospedale è inutile se non si costruisce anche un pozzo, se adulti e bambini continuano ad abbeverarsi al putrido stagno del villaggio dove è facile che contraggano la malaria. Si dà quindi il via anche al pozzo.
Nana è contenta. Pensa di aver fatto bene il suo mestiere di regina. Ma dopo qualche tempo si accorge, con sorpresa, che gli abitanti di Besoro sono diventati tristi. I loro occhi non sono più pieni di luce, limpidi, sereni. Si sono incupiti. Compaiono malattie mai viste a Besoro: l’ipertensione. «È la malattia della città», dice il medico. Si parla molto di soldi. «Qualcosa stava cambiando nei sentimenti delle persone».
Il primo a squagliarsela, tornando a vivere nella foresta, è il contadino Kojo, seguito poi da molti altri e persino dal fedelissimo «zio Ofa». Un giorno Buama, che aveva cominciato a lavorare con grande energia al progetto, dice alla regina: «Nana, non posso più vivere così». L’esperimento non è riuscito, in senso esistenziale, non materiale. Scritto in prima persona, nella forma di una lettera a un ragazzino ashanti, Kofi, che non ha mai lasciato Besoro e nulla sa del Progresso, in uno stile piano, semplice, fresco, spesso ingenuo (che il giornalista Andrea Pasqualetto, che ha raccolto il racconto di Nana, ha fatto bene a lasciare così com’è perché, già di per sé, ci parla di un mondo completamente diverso dal nostro, un mondo di sentimenti semplici e forti, di pudore, di riservatezza, di silenzi, di controllo delle proprie emozioni, di dignità, di valori ancestrali) il libro centra alcuni nodi cruciali del nostro rapporto con le altre culture. In questo caso con quelle complesse, sofisticate, ma delicatissime dell’Africa nera. Basta conoscere le cosmogonie di alcune grandi tribù, per esempio i Dogon, per capire quanto profondo sia, sul terreno spirituale ed esistenziale, il pensiero dei neri africani, così lontano dalle cupe e rozze rappresentazioni islamiche e cristiane.
È bastato poco, un niente per dissolvere equilibri millenari su cui la gente di Besoro viveva, felice nella sua povertà. Felice anche se ci si ammalava di malaria bevendo da uno stagno e si moriva un po’ prima di quanto si muoia da noi. Certo, oggi ci si ammala meno di malaria a Besoro e forse si vive un po’ di più. Ma non erano queste le cose, che pur a noi appaiono fondamentali e imprescindibili, che rendevano serena la gente di Besoro. Era una dimensione interiore che noi in Occidente, nonostante tutte le nostre conquiste tecnologiche e proprio a causa di esse, abbiamo perduto.
L’esperimento di Besoro è andato così benché a guidarlo fosse una persona, Nana, che conosceva bene la sua gente e che quindi l’ha condotto con la massima prudenza e non delle Ong che, quasi sempre, si muovono come degli elefanti nel classico negozio di cristalli, poco o nulla sapendo della mentalità, della sensibilità, delle tradizioni, della storia, degli equilibri delle popolazioni che vogliono «salvare» bastandogli la certezza di rappresentare «il migliore dei mondi possibili», il nostro, i cui valori e i cui metodi si ha non il diritto ma il dovere di trasportare a chiunque ne sia rimasto estraneo.
L’inferno, si dice, è lastricato di buone intenzioni. Quello moderno dall’ottuso ottimismo di Candide. Resta però in sospeso la domanda finale che Nana Konadu Yiadom pone a Kofi, ma in realtà a se stessa: «L’altro mondo arriverà presto anche a Besoro e nessuno potrà fermarlo. Arriverà l’asfalto, arriveranno le macchine, arriveranno molte cose che incantano l’uomo come il vecchio Mensah incanta i bambini, con la fantasia. Tutti le vorranno e anche tu le vorrai. Un giorno forse non si guarderà più il cielo come fai tu, come fa tuo padre Kwaku, come faceva mia nonna Yaa Serwaa. Cosa fare, Kofi? Questo è il destino del mondo».
Massimo Fini