Roberto De Ponti, Corriere della Sera 23/05/2012, 23 maggio 2012
CAIRO: «VENTURA E’ UN BEL QUADRO. MI HA INSEGNATO MOLTO» —
Alle sue spalle uno Schifano di due metri per sei, con i toni del verde intenso, ad avvolgere la scrivania. A destra, appoggiata a terra, un gigantografia che lo ritrae allo stadio, tra i tifosi, con una scritta bianca in campo granata: in hoc signo vinces. «Questo poster me l’hanno regalato i giocatori quest’inverno. La domenica dopo abbiamo perso a Modena. Così ho pensato di nasconderlo fino al termine del campionato: adesso posso finalmente appenderlo alla parete».
Urbano Cairo è finalmente rilassato, dopo tre anni il suo Torino è finalmente tornato in A: lontani i tempi della contestazione, i tifosi sono tornati a chiamarlo papa Urbano. Unico problema: la voce che rischia di abbandonarlo da un momento all’altro. «Colpa della pioggia che abbiamo preso sul pullman scoperto domenica sera, quando abbiamo festeggiato la promozione. Però il diluvio ha reso il pomeriggio eroico: a festeggiare con il sole sono capaci tutti».
Solo la pioggia? Le cronache raccontano di un Cairo scatenato, domenica sera...
«Abbiamo cenato, cantato, ci siamo innaffiati con lo champagne...».
In Rete girano immagini di Urbano Cairo ballerino.
«Ebbene sì, ho ballato alla John Travolta, mostrando limiti fisici evidenti. Ormai, con telefonini e social network, bisogna stare attenti. Però alcuni tifosi mi hanno detto: anche se Travolta balla un po’ meglio, se festeggiassimo così pure il prossimo anno non sarebbe male».
Quali sono le sue passioni?
«Il calcio, la comunicazione, l’arte contemporanea».
Come sceglie un quadro?
«Ovviamente ci dev’essere qualcosa di estetico che ti attrae. Con Schifano è così. Poi l’artista deve avere anche un certo tipo di appeal».
E un allenatore come lo sceglie?
«Guardo quanto ha vinto, perché ad alcuni la vittoria fa paura, e invece è la chiusura di un’opera. Guardo il curriculum. Guardo le motivazioni».
Nel caso di Giampiero Ventura?
«Nel suo caso è stata importante la voglia di rivincita. Ventura non vinceva il campionato dal ’99, con il Cagliari».
Tredici anni.
«Mi raccontava che con la Samp aveva perso un campionato dopo averlo condotto a lungo ed essere crollato nel finale. E quando me lo raccontava mi veniva il magone e pensavo tra me e me: speriamo che Paganini non ripeta».
Com’è il rapporto con Ventura?
«C’è grande sintonia, un rapporto buono, diretto. Mi ha trasferito alcuni suoi concetti fondamentali che sono stati per me un momento di apprendimento».
Quali?
«La sua richiesta quasi maniacale di arrivare in ritiro con la squadra quasi fatta. Chiaro che fare la squadra prima è meglio che farla dopo, lo direbbe anche Catalano, ma poi dipende da quanto questa cosa viene sottolineata. Lui era così determinato su questa cosa che ho capito quanto fosse fondamentale».
Altro?
«Il concetto che la squadra conta più degli individui. Da giovane giocavo nella Pro Sesto: avessi avuto Ventura come allenatore avrei combinato qualcosa di più, come calciatore. Ero un po’ un veneziano e vivevo nel mito del singolo, della bella giocata. A Ventura un giorno chiedevo dei giocatori e lui mi rispose: non dobbiamo parlare di singoli, dobbiamo parlare della squadra».
Ok, allora parliamo di singoli: Angelo Ogbonna resta al Toro o no?
«Ogbonna ha raggiunto la sua maturazione. È stato convocato in azzurro. Ovvio che vorrei che resti».
Ha confessato di essere rimasto solo perché Ventura gli aveva detto di restare.
«Credo che anche stavolta Ventura gli dirà la stessa cosa. Così come credo che anche Angelo sarebbe contento di rimanere al Toro. Ha rinnovato fino al 2016, gli ho offerto un contratto migliorativo perché era giusto e anche per l’atteggiamento che ha tenuto nei precedenti mercati, senza mai creare problemi. Si è sempre deciso insieme, lo faremo anche questa volta. Chiaro che spero di riuscire a fare cose gratificanti per noi e quindi anche per lui».
Si offende quando la definiscono un piccolo Berlusconi?
«Ci ho lavorato insieme, imparando molto, negli anni eroici della tv commerciale, dopodiché ho fatto la mia strada. Lavoriamo entrambi nel settore della comunicazione, abbiamo in comune la passione per il calcio. E comunque, dopo 4 anni alla Mondadori, mi hanno cacciato. Alla fine è stato meglio così, perché mi sono messo in proprio. Piccolo Berlusconi quindi non direi, anche perché sono un po’ più alto di lui... ».
Il momento peggiore in 7 anni di presidenza?
«La retrocessione è stata un momento pesante, pesante... Ma c’era la voglia di ripartire. Poi è chiaro che la contestazione ti pesa, ma ho resistito tre anni. Ho fatto una cosa da Toro: non ho mollato mai».
Voleva vendere la squadra.
«L’avevo detto, ma speravo che nessuno si facesse avanti».
Se lo ricorda mister X?
«Altroché! Ha tenuto banco sui giornali per due mesi. È stato molto destabilizzante. Certo non siamo retrocessi per colpa di mister X, ma di sicuro non ha aiutato».
Quanto pesa la storia al Torino?
«Questa è una società che è rinata da un fallimento, ma la storia deve contare. C’è, ed è una storia importante. Il nostro impegno sarà quello di creare un gruppo di giocatori che facciano da padroni di casa con i nuovi arrivati spiegando loro che cosa significa indossare la maglia granata».
Obiettivi per il prossimo anno in serie A?
«Fare un campionato da Toro».
Roberto De Ponti