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 2012  maggio 18 Venerdì calendario

L’oro non spegne la sete del Niger – “Si sta come d’autunno/sugli alberi le foglie”. Il celebre verso di Ungaretti che sintetizza in un lampo le stragi della prima guerra mondiale potrebbe essere applicato senza sforzo allo sterminio che malnutrizione e fame stanno provocando da anni tra la popolazione del Niger, nell’Africa occidentale

L’oro non spegne la sete del Niger – “Si sta come d’autunno/sugli alberi le foglie”. Il celebre verso di Ungaretti che sintetizza in un lampo le stragi della prima guerra mondiale potrebbe essere applicato senza sforzo allo sterminio che malnutrizione e fame stanno provocando da anni tra la popolazione del Niger, nell’Africa occidentale. Ed è soprattutto l’infanzia a dover subire i devastanti assalti del Kwashiorkor, una malattia che aggredisce i bambini sofferenti per la grave carenza di vitamine e apporto proteico. Secondo un dato raggelante, il Niger - grande quattro volte l’Italia, con 15 milioni di abitanti - è uno dei Paesi con il più alto tasso di mortalità infantile del mondo, tenendo però presente che corrisponde al tasso di fertilità delle donne, in vetta alla graduatoria mondiale. Ad Aguié, un villaggio della Provincia orientale di Maradi dove ci ha condotto la nostra inchiesta, ci imbattiamo in un gruppetto di donne, ognuna delle quali racconta, in poche parole, la propria quotidiana odissea. «Vorrei poter mangiare tutti i giorni, io e i miei due figli», dice Hadisa, 17 anni. «Ma è così difficile trovare qualcosa da mettere in bocca». Breve anche la litania di Nana, 30 anni, tre figli: «Vorrei qualcosa da mangiare tutti i giorni». Ogni mattina, lo spettro della fame s’affaccia ai loro tuguri: alla porta di Harira, 40 anni e nove figli, di cui due già morti, che sussurra: «Vorrei riempire la pancia a tutti quanti ma non ce la faccio»; o di Mariama, 20 anni e quattro figli, che spera di «mettere da parte un po’ di miglio»; o di Amina, 25 anni e tre figli, che vorrebbe ricomprarsi le capre vendute per sfamare la famiglia; o di Ubeda, 25 anni e tre figli, che ha il marito disoccupato; o di Balki, 20 anni e tre figli, ma il loro papà è in Nigeria, più affamato di loro; o di nonna Zuera che augura ai nipotini una «vita migliore della mia», avendo avuto la sfortuna di crescere in un luogo dove c’è «troppa sabbia e niente erba». La “cerimonia” del peso. Una tappa d’obbligo, durante la nostra escursione nella catastrofe alimentare africana, è il Centro Recupero Nutrizionale di Aguié – il Creni –, gestito dalla grande organizzazione umanitaria Save the Children, dove vengono ricoverati a centinaia bambini e bambine vittime del Kwashiorkor. La prima stazione, nella Via Crucis di questi neonati di pelle scura, è la “cerimonia” (se così la si può definire) del peso: ma i piccoli sono spesso così esili e leggeri da lasciare indifferente la bilancia. Nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale-ricovero si procede ora all’esame delle condizioni fisiche di una bimba di neanche sette mesi, che viene stesa nuda su una panca di legno: è alta 67 centimetri, mentre è di nove la circonferenza del braccio. Il suo peso, quando l’appendono al gancio che penzola dal soffitto e la fanno oscillare per qualche minuto come un balocco mentre lei piange e strilla, risulta essere di poco oltre i quattro chili. È questa l’immagine che mi scatta in mente ogni qualvolta penso all’infanzia dei Paesi del Sahel, dal Senegal alla Mauritania, dal Niger al Burkina Faso, dal Ciad al Camerun fino ai deserti del Sudan e dell’Etiopia: una versione aggiornata della strage degli innocenti dove le vittime sono più di 300 mila. Alle dimensioni della catastrofe ha indubbiamente contribuito la carestia dell’anno scorso (tra le peggiori degli ultimi decenni) dovuta in gran parte alla scarsità dell’acqua piovana che ha provocato una strage di cammelli, morti di sete sulle piste infuocate insieme con migliaia di mucche scheletriche afflosciate sui greti roventi dei fiumi. Ha un nome la piccola appesa al gancio nell’ospedale-obitorio di Aguié: si chiama Camilla. Ce l’ha portata la mamma, Nana, 35 anni e dieci figli, che se l’è caricata sulla schiena come un fagottino e ha fatto una camminata di due ore attraverso la steppa dal villaggio di Daratou, dove abita e dove ha lasciato il resto della pigolante nidiata. Ma quando la riaccompagniamo a casa con la bimba, le stanno tutti intorno rischiando di soffocarla in un tripudio d’affetto e lei non finisce più di piangere. Di gioia. Il tono idilliaco del quadretto non deve trarre in inganno. La situazione socio-economica della piccola comunità non è prospera: «Qui non c’è più niente da mangiare», è il malinconico esordio del signor Chaiboo, l’anziano capo del villaggio, che ha 90 anni, «e anche le riserve di acqua potabile sono ridotte al minimo». Ciò spiega il crescente flusso migratorio verso la Nigeria. Almeno una ventina di famiglie se ne sono andate, in cerca di lavoro. Anche la scuola elementare si è svuotata. Attualmente ci sono soltanto 250 alunni. Su una popolazione di 1.800 persone, almeno 500 sono emigrate in Libia o in Nigeria. Il Centro Recupero Nutrizionale è diviso in tre Zone: i casi più gravi sono confinati in Zona Uno, come un neonato che respira appena e per il quale non si nutrono speranze; in Zona Due troviamo Mustafà, un bimbo di 6 anni, inebetito e scheletrito da una inarrestabile diarrea. In Zona Tre, infine, c’è la chiassosa “masnada” dei Fuori pericolo, di cui l’87 per cento, assicura il capo-medico del Centro, «se la caverà». Agricoltura, uranio, oro. Eppure – ricordano i libri di Storia – ci fu un tempo in cui il Niger, nonostante il suo clima subtropicale, era in gran parte un Paese fertile con boschi e prati dove ora trovi soltanto distese di sabbia. Ma questa è la bellezza di cinquemila anni fa, quando i Tuareg scendevano da Nord verso Sud con le loro pittoresche, variopinte carovane. All’interno, il clima politico è sempre stato piuttosto inquieto, a causa soprattutto del Boko Haram, un movimento religioso estremista che si propone di instaurare un regime islamico, rigidamente basato sulla Sharia, e che considera “sacrilega” la cultura occidentale. Alla relativa stabilità socio-politica del Paese ha certamente contribuito il fatto che il gruppo etnico predominante – quello degli Hausa – non ha mai suscitato avversioni o contrasti profondi nelle altre maggiori etnie – Fulani, Tuareg, Kanuri, Arabi e Toubou – che potessero sfociare in un conflitto, come è avvenuto altrove. Un clima meno idilliaco si riscontra invece in certe zone agricole del meridione dove il rapporto fra contadini e pastori non è sempre pacifico, per via delle invasioni dei campi da parte degli animali. «Le mie pecore», asserisce un pastore, carezzando il muso di un agnellino che sporge dalla sacca, «non hanno bisogno del marchio. Le conosco a una a una. Mi basta guardarle negli occhi». Oltre che sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame (nelle zone non desertiche), l’economia nigerina può contare sull’estrazione dell’uranio e dell’oro: quest’ultima favorita nella sua espansione dalla scoperta, nel 2004, di una prodigiosa vena nelle viscere della collina Samira, che ha travasato il prezioso minerale nelle casse dello Stato. Musulmani tolleranti. La vera sorpresa, in questa breve visita, è scoprire che in Niger ci sono ancora gli schiavi, circa 800 mila persone, equivalenti all’8 per cento dell’intera popolazione, che vivono appartati nella boscaglia, in remote e bene occultate “riserve” dove nessun estraneo è gradito. Sono riconoscibili da come vestono, hanno sorrisi remoti e gentili, ma basta guardarli un attimo per rendersi conto che fra te e il loro mondo c’è una barriera, assolutamente invalicabile. Nell’ambito delle religioni non esistono poi conflitti di sorta: in Niger è l’Islam, diffuso in Africa fin dal Decimo secolo, a farla da padrone. I nigerini hanno assorbito i dogmi e gli insegnamenti del Corano, che ha gradualmente plasmato il loro modo di pensare e agire. Oggi l’80 per cento della popolazione è musulmano e poco contano le esigue comunità cristiane o animiste. È tuttavia importante riconoscere che il Niger mantiene la propria tradizione di Stato secolare secondo i dettami della legge. La tolleranza e il rispetto per altre fedi hanno consentito che temi delicati come il divorzio o la poligamia non diventassero oggetto di polemiche e speculazioni, che le donne non siano condannate alla segregazione o costrette a coprirsi il capo e il volto; e inoltre che sia concesso a chi lo desidera di bersi in pace una caraffa di birra al bancone del pub senza doverla trangugiare di nascosto nel sottoscala come un ladro di polli. La Cina è vicina. Dopo lo spettro della fame – minaccia reale – i nigerini sembrano ora turbati da un’altra sensazione, solo in apparenza epidermica, che riguarda la presenza sempre più ingombrante dei cinesi nella vita politica e socio-economica del loro Paese. Lo dimostra il fatto che Niamey, la capitale, è diventata la sede dei loro macroscopici investimenti in Africa. Vi hanno costruito fra l’altro una mastodontica raffineria che viene in continuazione rifornita di uomini e materiale provenienti da Pechino. Invasione pacifica, si intende, ma che alla fine non manca di alimentare la rabbia dei nazionalisti più intransigenti: costretti ad ammettere che dietro quel sontuoso orizzonte di grattacieli, palazzi, fabbriche, ponti e strade si dipana il sorriso enigmatico degli eredi di Mao. Ettore Mo