Claudio Carabba, Sette 18/5/2012, 18 maggio 2012
Marilyn, il colibrì che viveva solo in una cinepresa – «Come il volo di un colibrì: solo una cinepresa può fissarne la poesia»
Marilyn, il colibrì che viveva solo in una cinepresa – «Come il volo di un colibrì: solo una cinepresa può fissarne la poesia». Così la signorina Constance Collier, grande attrice dei teatri del Novecento e poi stimatissima maestra di recitazione nella New York del dopoguerra (sino al 1955, l’anno della sua scomparsa) definì una volta il mistero di Marilyn Monroe, che fu sua allieva per alcuni anni. La frase intera riporta per la prima volta la definizione più conosciuta («una bellissima bambina»), poi ripresa con sfumature diverse da eccelsi scrittori (da Truman Capote a Pasolini); vale la pena di riportare per intero il pensiero della severa Constance proprio perché, con Marilyn ancora al massimo del suo splendore, anticipa molte riflessioni postume: «Ha qualcosa dentro, una bellissima bambina… Non credo affatto che sia un’attrice, in senso tradizionale. Le qualità che ha, questa presenza, questa luminosità, questi sprazzi di intelligenza. Non potrebbero mai emergere a teatro». No, meglio lasciare che il cinema fissasse, nella sua illusoria eternità, il suo fascino leggero, come un volo di colibrì, appunto. In realtà Marilyn, nel breve tempo che le fu concesso, diventò anche un’eccellente attrice comica e drammatica, capace di mascherarsi da miope imbranata a caccia di milionari da sposare o di mangiarsi persino l’austero Sir Laurence Olivier in un film, brillante e parzialmente sbagliato, come Il principe e la ballerina (1957). Ora c’è una nuova occasione per verificare la gloria e la sventura della ragazza che non volle (non poté) invecchiare. Il 5 agosto ricorre infatti il cinquantenario della sua scomparsa, improvvisa, triste e solitaria, sprofondata nel grande sonno nel suo letto disfatto; una fine ancora avvolta da avvelenati sospetti. Intanto, sta per uscire un nuovo film (My Week with Marilyn, o semplicemente Marilyn, nella versione italiana che sarà nelle sale dal 1° giugno) in cui il regista Simon Curtis ricostruisce proprio la travagliata lavorazione (scandita da litigi e ripicche) del Principe e la ballerina; con la tenera Michelle Williams nei panni della diva perduta e lo scespiriano Kenneth Branagh in quelli di Olivier. L’impresa è ardua: quasi tutte le biografie dei grandi di Hollywood sono sinora naufragate. Ha fallito anche Martin Scorsese con Aviator, accurata ma fredda ricostruzione della vita di Howard Hughes e degli Studios di Hollywood: e per quanto riguarda la Monroe, al di là delle mille imitatrici in giro per il mondo, l’incauto Leonardo Pieraccioni andò incontro al disastro giocando con il fantasma amoroso in Io e Marilyn (2009). L’infanzia di Norma Jean. Meglio, dunque, cercare i frammenti del fulminante passato della “magnifica preda”. Lo scrittore che più si appassionò al “caso Marilyn”, dall’infanzia da ragazzina povera (Norma Jean era il suo nome, prima della scoperta di Hollywood) all’ultimo respiro, fu Norman Mailer (quello del Nudo e il morto, per intendersi) che già nel 1973 pubblicò un’intensa biografia illustrata dai maggiori fotografi del tempo, da Eve Arnold e Richard Avedon, sino a William Read Woodfield, seguendo l’ordine alfabetico. Nel magnifico gruppo di maestri dell’immagine c’era anche Ben Stern. E ora la Taschen ha ripubblicato, in un’edizione per collezionisti (tiratura limitata, copie firmate, un volume da 750 euro; vedi box pag. 117), le parole di Mailer e le immagini di Ben Stern, che potete vedere in queste pagine. Guardando le dolci figure si trova conferma del pensiero del romanziere: «Marilyn era il nostro angelo, il dolce angelo del sesso; lo zucchero del sesso usciva da lei come la vibrazione dal suono di un violino». Chiuso il libro, ognuno ricorderà i film che preferisce. Sono tante le cose che Marilyn ci ha lasciato nel cuore, a cominciare dai vestiti e dagli oggetti smarriti: l’abito rosso che la fascia come la fiamma del peccato nel tragico Niagara (sì, perché la Monroe sullo schermo non fu solo la bambina innocente ma anche una peccatrice assassina), gli intimi tenuti in frigorifero e la leggendaria gonna che si alza al vento del metrò in Quando la moglie è in vacanza, le calze a rete di Bus Stop, l’ukulele suonato da Zucchero in A qualcuno piace caldo. Il catalogo del desiderio sarebbe troppo lungo, ognuno può scegliere dove vuole, magari i quadri di Andy Warhol (opzione che personalmente scarterei). Senza dimenticare che non tutti subirono il fascino di Marilyn. Si racconta che proprio durante le litigiose riprese di A qualcuno piace caldo, dopo la scena d’amore in barca, Tony Curtis (nel memorabile ruolo del suonatore “travestito” per forza e finto miliardario timido per seduzione), a chi gli chiedeva come era andato quel bollente corpo a corpo sul divano, commentò caustico: «Non so bene, è stato come baciare Hitler». O ancora, incauti giovanotti delle nuove generazioni, abbrutiti da bellezze magre e anoressiche, commentarono dopo una proiezione alle maratone romane del Massenzio o in qualche altro posto: «Ma era troppo grassa!». Che dire, erano barbari, ignoranti e incivili. Malinconica solitudine. Altri compagni di schermo, invece, si innamorarono perdutamente dell’angelo biondo. Per esempio, l’amichevole rapporto che si instaurò con il bel Yves Montand sul set di Facciamo l’amore, fece infuriare la moglie del fascinoso attore-cantante, l’energica Simone Signoret, che nelle sue memorie scrisse a muso duro: «Mi ha anche rotto le scatole, Marilyn. Era un po’ fastidioso sentirla raccontare come era stata felice e ispirata durante i mesi in cui aveva fatto una serie di foto per Avedon… Parlava delle sedute di posa come gli attori parlano delle recite. Non aveva altri buoni ricordi personali. Nessuna di quelle storie di risate a crepapelle con gli amici… Tutto questo le era estraneo. Non riuscivo a capacitarmene». Dietro il veleno da moglie forse tradita, certo incattivita (nessuno, neppure l’intelligente Signoret, è in questi casi perfetto), c’era qualche verità: una malinconica solitudine di Marilyn, nonostante la celebrità, gli amori e i matrimoni; e specialmente quella generale volontà maligna di inchiodarla per sempre nei limiti della pin-up da calendario: un dettaglio non secondario, che la faceva molto soffrire. Truman Capote, uno dei primi scrittori che capì il suo fascino, ne parla nell’intervista-ritratto Una bellissima bambina (definizione poi ricorrente) contenuta in Musica per camaleonti. Fra un pettegolezzo piccante e un rimpianto, la Monroe si sfoga con l’insolitamente buono Truman: «Tutti dicono che non so recitare. Dicevano la stessa cosa di Elizabeth Taylor. E si sbagliavano. In Un posto al sole è straordinaria. Ma io non otterrò mai la parte giusta, una parte che mi piaccia. È il fisico che mi frega. Ho un aspetto troppo speciale». Per fortuna Marilyn si sbagliava, molte sono le sue interpretazioni notevoli, compresa l’ultima, drammatica apparizione negli Spostati di John Huston. Ma l’idea di essere solo un oggetto del desiderio resta come una condanna, la conferma di una vita pagata sempre cara, sin dalla durissima infanzia, figlia illegittima cresciuta in desolati orfanotrofi, nella periferia di Los Angeles dove era nata nel 1926. Infatti, sempre nella conversazione con Capote, l’attrice ne parla quasi con orrore: «Anche se ci sono nata, non riesco a trovare neanche una cosa buona da dire di quella città. Se chiudo gli occhi e mi figuro Los Angeles, vedo solo una grossa vena varicosa». Lo sbarco a Hollywood non è per niente facile, ma sempre meglio dei giorni da bambina randagia senza collare. Arthur Miller, la sventura. Un primo matrimonio sbagliato, particine, compromessi (Mailer si sofferma sulle ore passate dalla ragazza in ginocchio sulla moquette dei produttori) e il famoso calendario rosso. Sullo schermo la sua prima apparizione mi pare quella fulminea, da gentile spalla dei fratelli Marx, in Una notte sui tetti (1950): Marilyn, tutta strizzata in un vestito stretto, va da Groucho, buffo investigatore, e gli dice: «Ho la sensazione che un uomo mi segua». Groucho la guarda, dietro i suoi spessi occhiali, masticando il sigaro e commenta: «Ho la sensazione di capire perché». Pochi mesi dopo arriva il ruolo dell’amante svampita del maturo avvocato corrotto (lo “zietto” Louis Calhern) in Giungla d’asfalto di John Huston, uno dei migliori film da rapina della nostra vita: la parte non è lunghissima, ma sufficiente per farla notare. La via del successo è iniziata. E sembra arrivare anche la felicità con il matrimonio con Joe Di Maggio, supremo campione di baseball, l’unico che porterà fiori sulla sua tomba. Ma l’attrice non regge al pur dolce legame; perde la testa per uno scrittore di robusto impegno come Arthur Miller, un pigmalione narciso e superbo che sulla tragica fine della sua donna scriverà, nel 1964, un cinico dramma teatrale, Dopo la caduta. Norman Mailer, che ha Miller in furente antipatia, considera questo incontro una delle sventure dell’attrice. Così, a pelle, concordo. La colazione mancata. A leggere i mille libri usciti su Monroe, niente sembra bello e perdonabile nell’atteggiamento del pur celebre commediografo. Da parte sua, sul lavoro, Marilyn è sempre più capricciosa e poco puntuale sul set. I suoi clamorosi ritardi irritano registi e attori. Infuriato da tanta incuria, Gregory Peck, tanto per fare un esempio, lascia il ruolo del miliardario nascosto (poi andato, come si è detto, a Yves Montand) in Facciamo l’amore. Ed è certo un peccato che la parte di Colazione da Tiffany, chiaramente modellata su lei da Capote, vada poi a Audrey Hepburn, che con quel personaggio non c’entrava niente, anche se poi è diventata uno dei miti della moda e del cinema (sono i misteri dell’arte). All’inizio degli Anni Sessanta, quando Marilyn è di nuovo sola, il suo nome viene accostato a John Kennedy: e il filmato della festa di compleanno, dove lei che canta con voce da Zucchero Happy Birthday, mister President, resta uno degli indizi del segreto amore. Poco dopo, in una scena da Traviata, il fratello Robert, ferreo ministro della Giustizia, sarebbe andato a trovarla, chiedendole di troncare il rapporto; e si sarebbe a sua volta perdutamente innamorato. Questa doppia passione, sorvegliata da Cia e Fbi, sarebbe, secondo alcuni, la causa vera di una morte violenta, non di un suicidio. Ma, cinquant’anni dopo, nessuna prova del “complotto sentimentale” è stata trovata. Semmai, con senno postumo, si può azzardare che la fine di Marilyn è il primo degli imprevedibili lutti che segnano la fine delle illusioni degli Anni Sessanta: dall’assassinio di JFK a Dallas ai crudeli attentati del 1968 contro il “dottor King” e, appunto, contro Bobby Kennedy, colpito a morte nella cucina di un hotel di Los Angeles. Nuda e alfine libera. Di sicuro, al di là di ogni ipotesi nera, Joe Di Maggio, che curò le tristi esequie, non invitò al funerale né i Kennedy né Frank Sinatra e i cattivi ragazzi del suo clan (che pure la conoscevano bene). C’era, in compenso, uno dei massimi maestri dell’Actors Studio (che Marilyn aveva per un po’ frequentato), Lee Strasberg, che pronunciò il discorso funebre: «Aveva qualcosa di luminoso – una combinazione di pensosità, radiosità, struggimento, che la distingueva e nello stesso tempo faceva desiderare a tutti di condividere quell’ingenuità infantile, che era insieme così timida e così vibrante». Il mondo pianse sul corpo di Marilyn. Ado Kyrou, raffinato storico del cinema erotico, scrisse su Positif: «Nuda, come amava vivere e dormire, felice di sentirsi, alfine, libera. La mano sulla cornetta del telefono, pronta a offrire al mondo intero la sua nudità». Nude sono anche le ultime immagini cinematografiche di Monroe viva: leggiadra in piscina, e poi emergente come Venere dalle acque, in un film mai finito (proprio per colpa dei suoi capricciosi ritardi) Something’s Got To Give di George Cukor. Ma dovendo scegliere una figura simbolo per ricordarla, scelgo le inquadrature in un selvaggio bianco e nero negli Spostati, il film maledetto di John Huston (non solo lei, tutti gli attori, da Clark Gable e Monty Clift, morirono presto e male). Sola in mezzo al deserto del Nevada, Marilyn grida ai suoi amici, spietati cacciatori di cavalli: «Fermatevi, assassini». E l’urlo si perde fra il cielo e le montagne. Claudio Carabba