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 2012  maggio 18 Venerdì calendario

Venite a meditare sul tetto di Londra – Sul tetto d’Europa, a 310 metri d’altezza, sta nascendo una “Meditation Room”

Venite a meditare sul tetto di Londra – Sul tetto d’Europa, a 310 metri d’altezza, sta nascendo una “Meditation Room”. Per salirci si prende un ascensore a picco su Londra, in compagnia di lavoratori di quindici nazionalità diverse: un operaio nigeriano, un’operaia spagnola, il capocantiere olandese, il suo vice neozelandese, un ingegnere indiano del Punjab… In un angolo c’è anche il ministro della Cultura britannico, Ed Vaizey, 43 anni, in maglione, con il suo staff composto da ventenni. L’unico italiano è l’architetto. Spiega Renzo Piano che all’inizio si pensava, per coronare l’edificio, a un luogo di culto multireligioso. Poi si è preferito un ambiente laico. La vista sulla metropoli non si può raccontare con le parole: il London Eye è una ruota da criceti, il Big Ben un campaniletto, la Torre di Londra un fortino per i giochi dei bambini; e la cupola di Saint Paul non è più grande degli elmetti degli operai-alpinisti che danno gli ultimi ritocchi agganciati alle pareti. Racconta Piano che un argomento degli avversari dell’opera – tra cui il principe Carlo - fosse proprio che il grattacielo avrebbe fatto sfigurare la Cattedrale. Ci fu un’inchiesta pubblica durata un anno e mezzo, culminata in un processo. Il giudice che diede il via libera stabilì tra l’altro che quattro secoli fa anche Saint Paul era apparsa sproporzionata agli uomini del tempo; i quali non per questo rinunciarono a costruirla. La nuova opera di Renzo Piano si chiama The Shard, La Scheggia. Il più alto edificio d’Europa. Ma il suo architetto non sembra interessato a un record che magari durerà solo per qualche anno. Gli interessano di più altri significati di cui la torre di vetro è simbolo. La scommessa sul futuro di un continente provato dalla crisi, capace di attrarre per questo progetto un miliardo di investimenti privati da tutto il mondo, a cominciare dalla sceicca Mozah del Qatar. L’idea di una città «che cresce non più per espansione ma per implosione, che smette di consumare spazio ma riempie i buchi neri, bonifica i terreni un tempo industriali o ferroviari, trasforma le periferie-dormitorio in un luogo di vita e di scambio». E un’idea del mestiere di architetto né mediatica né estetizzante: «Non siamo archistar, né tappezzieri. Facciamo un mestiere d’avventura, pratichiamo un’arte di frontiera: costruire. E non potremmo farlo senza militanza, senza una ribellione all’esistente». «Una moderna Babele». La Scheggia dev’essere finita per il 5 luglio, quando – a tre settimane dalle Olimpiadi – il premier Cameron verrà a inaugurarla (poi ci vorrà altro tempo per rifinire gli interni). Tutto nel cantiere trasmette energia. Sotto gli elmetti gialli, che in Italia evocano minatori in sciopero davanti a Palazzo Chigi o cassintegrati che si scontrano con la polizia, ci sono 1.500 operai di sessanta nazionalità che hanno lavorato per tre anni senza un solo incidente. «Una sorta di moderna Torre di Babele», dice Piano. Siamo sopra la stazione di London Bridge, a Southwark, la sponda un tempo povera del Tamigi, dove oggi ci sono la Tate Modern e il Globe, la ricostruzione del teatro di Shakespeare. «Scavando le fondamenta», racconta l’architetto, «abbiamo trovato i resti di una villa romana. Qui sotto passano due linee della metropolitana, in superficie arrivano sei linee ferroviarie, più tre passanti e venti linee di autobus: fanno 300 mila persone ogni giorno. La Scheggia non sarà uno di quei luoghi ostili che si svuotano alle sei del pomeriggio: alla Viewing Gallery, che parte dal sottosuolo e arriva fino al 74° piano, aspettiamo un milione di persone l’anno. Ci saranno uffici, case private, ristoranti, un albergo». «Interpretare il momento». Dice Piano che costruire significa anche «interpretare il momento». Nel ’68 lui era proprio qui a Londra, con Richard Rogers. Tre anni dopo vinsero a Parigi il concorso per il Beaubourg. «Il momento da interpretare era il rifiuto dell’autoritarismo, della cultura pensata per un’élite ristretta. Da qui l’idea di un edificio totalmente aperto, nudo, senza muri». Oggi il momento da interpretare è un continente rappresentato come logoro e intento solo a decadere, che invece mantiene una grande capacità di attrazione sul resto del mondo, che può ancora canalizzare energie e capitali, e restituire energia alla città che oggi meglio lo rappresenta, Londra. «Città e civiltà sono la stessa parola», dice Piano, «indicano un luogo di incontro, di scambio, di rispetto reciproco. Un’altra parola da recuperare è urbanità, che significa anche comportarsi bene. Nel secolo scorso abbiamo vinto la battaglia per salvare i centri storici, che in tanti avrebbero voluto abbattere. In questo secolo dobbiamo vincere la battaglia delle periferie; che all’apparenza sono meno eleganti, meno fotogeniche, meno belle, ma nella realtà umana sono bellissime, perché sono i posti dove vive davvero la gente. Ogni città dovrebbe avere, come Londra, una “Green Belt”, una cintura verde oltre la quale non si può costruire. La metropoli cresce non più allargandosi ma concretandosi, costruendo sul costruito, trasformando la periferia in città». «Al vertice ci vedrei un summit». La torre non ha un tetto, e non ha una vera e propria cima. Non finisce; si frammenta nelle sue varie schegge, si infrange nel cielo e lo riflette nei vetri cristallini, inclinati in modo da restituire in ogni momento frammenti diversi del cangiante cielo inglese. Ci sono blogger che fotografano la torre nei vari momenti della giornata: gli Shard-watchers. «Non è un edificio arrogante», dice Piano. «È un’immagine dell’uomo che anela all’infinito, non lo raggiunge mai, ma proprio per questo non smette di desiderarlo. Per me costruire non è cosmesi; è avventura. Erigere ripari per l’uomo – perché il nostro mestiere resta questo, da millenni – è come coltivare la terra, pescare, scrivere. Puoi fare anche solo una capanna, ma comunque quella capanna rappresenterà chi la abita. Per questo l’architetto non può essere neutro; deve essere militante. La nostra non è un’arte celibe e vuota: deve cogliere i cambiamenti, e alimentarli». E la Meditation Room? «Mi piacerebbe diventasse uno spazio per la politica. Se il prossimo vertice europeo si facesse là in alto, forse i nostri leader avrebbero una visione più chiara del futuro e delle sue occasioni». Aldo Cazzullo