Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 22 Martedì calendario

"Quei capannoni avevano solo dieci anni" polemica sulle fabbriche della morte – sant´agostino (ferrara) - Se viene giù un capannone che non aveva nemmeno dieci anni di vita, se i bordi di una scatola di ferro e cemento si allargano e tutto si accartoccia e diventa una montagna di lastre e calcinacci bagnati dalla pioggia e mescolati dal vento, allora ti chiedi che diavolo non abbia funzionato

"Quei capannoni avevano solo dieci anni" polemica sulle fabbriche della morte – sant´agostino (ferrara) - Se viene giù un capannone che non aveva nemmeno dieci anni di vita, se i bordi di una scatola di ferro e cemento si allargano e tutto si accartoccia e diventa una montagna di lastre e calcinacci bagnati dalla pioggia e mescolati dal vento, allora ti chiedi che diavolo non abbia funzionato. Come siano state costruite queste fabbriche-tomba. Su quale terreno, con quali materiali. Resistenti a cosa. «Sì, è anche un problema strutturale», allarga le braccia l´architetto Fabrizio Magnani, responsabile tecnico del Comune di Bondeno, uno dei paesoni più martoriati nell´inferno emiliano, la croce di Tarik Naouch piantata tra le macerie della Ursa, colosso europeo del polistirolo per l´edilizia. «Le strutture industriali che sono cadute hanno quasi tutte tra i cinque e i dieci anni. Questo non vuol dire automaticamente che siano state costruite male. Il punto - ragiona - è un altro. È che prima del 2005 l´alto ferrrarese non era considerato zona sismica. E dunque: le fabbriche tirate su prima di allora non hanno certi requisiti strutturali. Sono rimaste "indietro"». Monche. Non al passo coi tempi e con il nuovo status di zona al terzo livello di rischio terremoto. Franco Gabrielli, capo dipartimento della Protezione Civile, va al sodo: «Che nel 2012 crollino coperture di capannoni costruiti negli anni Duemila deve fare riflettere più di tante altre cose». Per capire: la questione è che «una cosa che va bene oggi non va bene domani». E un edificio che può essere quasi perfetto per l´ex terra gentile dell´Emilia Romagna, in Giappone lo abbatterebbero all´istante per ricostruirlo dieci minuti dopo. Immaginate un corpo. Per comprendere cosa è successo nelle fabbriche di Sant´Agostino e Bondeno bisogna paragonare i capannoni crollati sotto le botte della terra a degli esseri umani: il tetto è la testa, la struttura portante; le pareti, i piloni, le "gambe", sono il corpo. «Non importa che abbiano solo cinque o dieci anni - dice ancora Magnani - . Se la testa è troppo pesante per il corpo, basta che qualcosa - qualcosa che prima del 2005 non era stata codificata come pericolosa - faccia barcollare il corpo, e viene giù tutto». Da ieri all´alba fino a sera, per interfacciare la teoria della «pesantezza» e di quella «inadeguatezza sismica», i tecnici della Regione Emilia Romagna e quelli della Protezione Civile hanno iniziato un lungo screening sugli edifici lesionati e sulle parti restanti di quelli sbriciolati. Si sono mossi lungo la striscia della morte e della devastazione: trenta chilometri di asfalto sollevato che da Est corrono verso Ovest, da Modena verso Ferrara e in mezzo, segnalati dagli squarci aperti nelle case, nelle cascine, nelle aziende, nei palazzi dei municipi, nelle chiese, ecco le "prove" che qualcosa o qualcuno è rimasto indietro, a prima del 2005. Dice Emanuele Cestari, assessore di Bondeno: «Partiamo da un ragionamento banale: il dimensionamento delle strutture è direttamente proporzionale al grado di rischio sismico. Se un edificio é reso inadeguato non dall´inesperienza o dalla leggerezza umana ma dagli anni, il rischio che qualcosa possa succedere c´è». In termini meno edulcorati, diciamo che il disastro di Sant´Agostino, i tre morti più quello della Ursa erano, volendo, evitabili. Bastava che qualcuno si accorgesse che la maggior parte dei capannoni che si sono ripiegati su se stessi andavano bene per un territorio che il terremoto non sa nemmeno che cosa sia. Prendiamo la più grossa delle fabbriche colpite dai lutti. La "Ceramiche Sant´Agostino". Un sito industriale nato nel 1964. Talmente esteso che si prende i due lati che costeggiano la strada statale Ferrara-Cento. Di qua un blocco di capannoni, di là l´altro. In origine fu «area di cottura». Poi sono arrivate le altre due. La seconda area di mono-cottura è divisa in due parti: quella dei «piccoli formati» - dove hanno perso la vita Nicola Cavicchi e Leonardo Ansaloni - e quella chiamata «quarto modulo» che sforna mattonelloni 120 x 60. L´hanno inaugurata a inizio anni Ottanta, la futura tomba di Nicola e Leonardo. Il movimento sussultorio del sisma ha strattonato quella «testa» - la copertura - fino a farla crollare addosso ai «fornai». «Vanno fatte tutte le verifiche necessarie per capire le cause di questa tragedia - spiega Vittorio Battaglia, responsabile Femca Cisl, il sindacato di una delle due vittime - . Questa è un´azienda che sulla sicurezza ha sempre puntato molto, gli stessi Manuzzi (proprietari della Ceramiche) passano più tempo sotto i tetti dei reparti produzione che nella stanza dei bottoni. Questo dovrebbe fare pensare che tutto fosse sicuro. D´altronde qui ha ceduto anche il magazzino, che è del 2003». Il magazzino automatico del bestione della ceramica. Fa impressione vederlo raso al suolo, il tetto dilaniato che avvolge un cumulo enorme di resti. Ocba El Mati, 47 anni, marocchino come l´operaio della Ursa, lo osserva dal ciglio della strada. La morte aveva dato appuntamento anche a lui, ma è arrivata in anticipo. Ocba doveva dare il cambio a Leonardo Ansaloni nella produzione notturna del forno. «I lavoratori di questa fabbrica sono come una grande famiglia, ma adesso vogliamo tutti sapere come sia stata possibile questa tragedia». Quella su cui proprio oggi la Procura di Ferrara ha annunciato l´apertura di un´inchiesta, intanto che il segretario della Camera del Lavoro di Ferrara dichiara: «Non è stata una fatalità». E allora, uno dei tecnici della Protezione Civile dell´Emilia - «mi chiami Michele e basta» - prova a spiegarla così: «Il guaio di questi capannoni è come sono stati costruiti. Basta guardare le pareti che sono rimaste in piedi: tutte divaricate. Gli schiaffi orizzontali della terra le hanno allargate provocando il cedimento della copertura. Questo non sarebbe successo se le strutture fossero state anti-sismiche. Ma come si può pensare che un imprenditore che ha costruito il capannone prima del 2005, lo abbatta e lo ricostruisca dopo l´entrata in vigore del nuovo livello di rischio?». Una lavatrice. Che sballotta la «scatola» da sinistra a destra e viceversa. Fino a farla implodere. Questo è il film dell´altra notte alla Ceramiche, alla Tecopress, alla Ursa. Parli con gli operai di Sant´Agostino e ti dicono che le loro ditte avevano investito sulla sicurezza ancor più che sulla forza lavoro. Che «tutto era sempre filato liscio: mai un cedimento, rari persino gli infortuni». Loris Bui è magazziniere alla Tecopress. «Ne sono crollati tanti di capannoni qui nella zona, non sono un tecnico ma credo che questo sia prova del fatto che il sisma è stato così potente da eliminare altre ipotesi». Infatti non è un tecnico e non può sapere che dal 2000 nove ditte su dieci nella zona stretta tra Modena e Ferrara sono cresciuti così: ossature prefabbricate con innesti di pareti. Troppo molli, ma che importa: fino a sette anni fa non c´era bisogno di combattere contro il terremoto. Adesso è arrivato e ha trovato pane morbido per (TESTO MANCANTE DAL GIORNALE – anche cartaceo)