Michele Smargiassi, la Repubblica 22/5/2012, 22 maggio 2012
Quei dannati inghiottiti dalle loro fabbriche – SANT’AGOSTINO ERANO al loro posto. Magari non ci fossero stati
Quei dannati inghiottiti dalle loro fabbriche – SANT’AGOSTINO ERANO al loro posto. Magari non ci fossero stati. Erano tutti e quattro, l’altra notte, dentro il ventre di una di quelle fabbriche che non dormono mai, mostri bizzosi che pretendono di essere nutriti ad ogni ora. SEGUE HA DELL’INCREDIBILE che quattro delle sette vittime del terremoto d’Emilia siano operai del turno di notte, di tre stabilimenti diversi. Nicola, Leonardo, Gherardo, Tarik sono stati sepolti nella stessa manciata di secondi in questo villaggio industriale disseminato fra i campi che è la pianura tra Modena, Ferrara e Bologna, nella notte paradossale e feroce in cui il terremoto ha scelto di far crollare le fabbriche e non le case; e non è una fortuna perché le fabbriche, oggi, sono abitate anche di notte, come le case. Così il terremoto si è portato via gli operai del buio, i lavoratori del terzo turno, i laboriosi in mezzo al riposo degli altri. LEONARDO ANSALONI, IL PAPÀ «A Leonardo non pesavano le notti, perché viveva bene i giorni». La moglie Gloria si copre alla meglio la testa con un plaid celeste. Piove fitto, ma lei resta in cortile come tutti, la bella casetta giallo limone di Reno Centese, nido di felicità familiare, è diventata ostile: «Ecco senta, un’altra scossa!», dice stremata. Non le hanno detto nulla, neanche una telefonata. Alle sette di ieri mattina ha cominciato a preoccuparsi, il turno finisce alle sei e lui non fa mai tardi, lo chiama al telefono, non risponde, «allora vado a cercarlo». Quel che trova non è più la Ceramica Sant’Agostino, è un mazzo di carte afflosciato, le grandi placche di cemento scompostamente una sull’altra, e sotto, da tre ore, c’è suo marito. «Sì, mi aveva svegliato, il terremoto, alle quattro, ma non era successo niente, la casa era intatta, non ho pensato...», si stringe nel plaid, «non è possibile, una fabbrica deve essere sicura come una casa, più di una casa...». Non è crollato tutto, lo stabilimento, piccola città da trecentocinquanta operai: è crollato il capannone degli anni Ottanta, di cemento prefabbricato, mentre quelli più vecchi hanno resistito. Erano in tre, solo in tre, in quell’enorme spazio, due "fornai" e un manutentore, a sorvegliare che il forno inghiottisse placidamente le sue salsicce di piastrelle e le cuocesse come si deve, un lavoro non troppo faticoso, aveva cinquant’anni, ma «fare due notti ogni dieci giorni non gli pesava, perché pensava che poi di giorno poteva portare in piscina i ragazzi», 18 anni lei, 8 lui, il piccolo non sa ancora nulla. Operaio della notte, papà del giorno: è finita. «Una morte inutile», dice Gloria, le guance bagnate di pioggia o forse no. NICOLA CAVICCHI, IL FIDANZATO Il secondo del turno, alla Ceramica, era Nicola, 35 anni, delegato sindacale della Cisl, un ragazzo ormai adulto, il calcio, i lavori in campagna, la fidanza ta ormai quasi moglie, questione di mesi, tempo di ristrutturare l’appartamentino appena comprato. Il terzo era Giovanni Grossi, l’unico dei tre che si è salvato, ma voleva tornare dentro, dopo, disperato. Nicola era al suo posto, all’uscita forno, troppo lontano dall’uscita. Ancora due ore e si tornava a casa. Nel piazzale è ancora parcheggiata la sua Alfa grigia, mamma Romana la riconosce: «Non doveva lavorare ieri notte, non toccava a lui, era riserva, un collega s’è ammalato e lui non fa mai problemi, voleva andare al mare, ma poi aveva guardato le previsioni, "tanto piove"... È destino, è destino...». Anche a loro nessuno ha detto nulla. Ma papà Bruno ha capito subito, «Nicola mi porta sempre il giornale, quando torna dal turno di notte, alle sei e mezza in punto», ed erano già le sette passate. Ed eccoli anche loro, qui, davanti allo sfacelo inverosimile che ha ingoiato una vita ancora tutta da vivere. TARIK NAOUCH, IL FIGLIO Mustafà, accasciato contro la ringhiera, si batte le guance con le mani, si punisce per il suo dolore. Aveva solo 29 anni il suo Tarik prediletto, gioia d’un figlio, portato in Italia dal Marocco assieme a un fratello e a due sorelle, anzi assieme a un clan di tre famiglie, insediate in un vecchio cascinale di Bevilacqua, rimesso bene a posto coi soldi sudati a far l’autista di pullman sulle rotte degli emigranti, poi il giardiniere, poi anche lui l’operaio. Tarik come operaio era speciale, «era molto stimato dal capo» alla Ursa di Bondeno, fabbrica chimica di polistirene espanso, isolante per edilizia, anche questo un processo produttivo che non si può mai fermare, ci vuole una squadra di sette per tenerlo d’occhio, e Tarik l’altra notte era il coordinatore, forse era una delle prime volte, sentiva la responsabilità, ed ecco allora che, usciti tutti di corsa alla prima scossa, lui lo vedono rifiondarsi dentro, «aveva dimenticato qualcosa», dicono i compagni scioccati, «sì, voleva chiudere la valvola del gas». Non l’hanno più visto uscire. Ora bisogna dire a Iudad, la sua sposa bambina, diciott’anni appena, di restare in Marocco. Proprio la scorsa settimana Tarik aveva ottenuto il ricongiungimento familiare. Sarà lui invece a tornare laggiù, per sempre. GERARDO CESARÒ, IL MARITO Lo avevano sedotto in due: l’Emilia, e la Catia. Carabiniere ventenne, da Sant’Antimo, nel napoletano, lo avevano spedito in questa pianura piatta emiliana, e a lui era piaciuta subito. Poi aveva conosciuto sua moglie, e aveva deciso che questa era la terra giusta per metter su casa (a Molinella) e fare figli (due, ora grandi). «Innamorati come il primo giorno», giura l’amico di famiglia, li vedevano in giro col cagnolino, felici. Aveva 57 anni, gli mancava poco alla pensione. Le notti alla Tecopress di Dosso le faceva di buona lena, aveva un’andatura «da nobile» ma era un uomo solido, aveva lavorato nell’acciaieria di Budrio, prima che chiudesse. Da due anni portava in giro l’alluminio fuso, col muletto. Che lo ha tradito. «Forse tra movimento e rumore non ha capito subito che era il terremoto», non si dà pace Franco, che con lui e altri otto era di squadra nella notte maledetta. Franco sì che l’ha capito subito, «come se il pavimento mi esplodesse sotto i piedi», la luce che va via, le travi che cadono, i forni che eruttano alluminio fuso che infiamma ogni cosa, «mi sono buttato senza pensare a destra, se era a sinistra a quest’ora non ero qui». Gerardo non ce l’ha fatta, a buttarsi fuori come gli altri. Catia gli ha telefonato alle sette, telefono staccato, «sarà andato a fare metano alla macchina». Lo hanno cercato per ore scavando in quel magma di detriti, prima di trovarlo. Suo figlio ha assistito alla ricerca, tutto il tempo. Un gruppo di operai senegalesi intanto rumoreggia nel piazzale, dicono che uno di loro manca all’appello, «no, è uscito come gli altri», li rassicurano. Franco mostra le sue scottature. «Questa vita per 980 euro al mese», dice un suo collega più giovane, che ha quei contratti temporanei che ti fanno lavorare solo se il lavoro c’è, «però quando c’è, anche cinque notti di fila», nascosti nel ventre del mostro che non dorme mai, dove solo il terremoto sa che ci sei.