Alberto Orioli, Il Sole 24 Ore 23/5/2012, 23 maggio 2012
MARCEGAGLIA: «MISSIONE COMPIUTA, TORNO IN AZIENDA»
«Polemiche, certo, e attacchi personali. Ma anche tanta solidarietà, tanta vicinanza: è stata un’esperienza dura, straordinaria, profonda, piena. Ho sempre sentito che le imprese, gli imprenditori italiani, erano con me. Con le nostre battaglie». Emma Marcegaglia (nella foto) è all’ultimo giorno di presidenza della Confindustria: quattro anni ritmati dalle continue emergenze create dalla più spaventosa crisi economica globale. «La recessione ha bloccato il processo di rinnovamento e di ristrutturazione che era in atto nel sistema produttivo italiano e ha acuito tutti i problemi, antichi, di questo nostro Paese». Il 23 maggio del 2008, giorno del suo insediamento, titolavamo «Priorità è tornare a crescere». Un titolo che vale anche oggi. L’Italia è un malato inguaribile? No. Il nostro problema si chiama produttività: non siamo ai livelli dei nostri migliori concorrenti, siamo 30 punti sotto la quota dei tedeschi. Il dato più grave è relativo alla pubblica amministrazione: lo Stato è obeso, la spesa corrente è sempre cresciuta fino a bruciare completamente il dividendo dell’euro che, con il calo dei tassi, avrebbe potuto consentirci di abbassare la spesa pubblica». Alberto Orioli «Ma non è stato così e, nel frattempo, abbiamo faticato moltissimo – e fatichiamo tuttora – a realizzare le riforme strutturali. Le sta realizzando il Governo Monti... Il Governo Monti le ha avviate, ma siamo solo all’inizio. Il processo riformista è continuo e dispiega i suoi effetti su tempi medio lunghi. Anche la certificazione dei crediti della Pa verso i suoi fornitori definita ieri dispiega i suoi effetti in un arco di tempo medio... Ho detto al viceministro Vittorio Grilli che mi ha fatto un regalo di fine mandato. Premesso che la soluzione vera e auspicabile è che lo Stato paghi tutto e sempre nei tempi concordati, va detto che erano anni che chiedevamo la certificazione dei crediti vantati presso le amministrazioni. Finalmente è arrivata, con anche la possibilità di compensare i debiti fiscali, Irap e Imu comprese, e anche i debiti con Inps e Inail. Per il futuro il Governo si è impegnato a recepire la direttiva Ue sui pagamenti entro 60 giorni. Non deve più derogare. Quello fiscale resta il tema più caldo nella dialettica tra Stato e cittadini e tra Stato e imprese. Qual è il bilancio della sua presidenza su questo fronte? Il Fisco è il problema dei problemi per l’Italia: con le manovre Monti e quelle del Governo Berlusconi la pressione fiscale è superiore al 45% e, per chi paga le tasse, arriva anche al 60%, livelli non tollerabili se non a breve. Il carico sul lavoro e sull’impresa è ai massimi in Europa e non aumenta certo la competitività di un Paese. Se a questo si aggiunge anche che la riforma Fornero del lavoro, per certi versi, aumenta i costi, si vede bene come il sistema non sia sostenibile. Il Governo Monti ha consentito di dedurre dall’Ires la componente costo del lavoro dell’Irap, ha introdotto l’ace, lo sgravio per gli utili reinvestiti e per le quote destinate a ricapitalizzare le aziende, per un importo complessivo a regime di 6 miliardi. Ma è davvero solo un inizio. L’azione di spending review deve incidere profondamente nella struttura dei costi dello Stato e ben oltre quei 4,2 miliardi considerati l’obiettivo minimo dell’azione di Enrico Bondi per evitare l’aumento dell’Iva. Servono tagli da 5-6 punti di Pil, vale a dire di diverse decine di miliardi di euro. Questo sarà il vero segnale del cambiamento di cultura e abitudini di cui ha bisogno il nostro Paese. Anche sul tema del lavoro da sempre l’Italia si gioca il suo "contratto sociale", il suo modello di gestione dei rapporti di forza (o di collaborazione) tra impresa e lavoratori. La grande polemica sull’articolo 18 e sul tema della flessibilità non rischia di avere messo in ombra il vero cuore della dialettica sociale che è lo scambio tra produttività e salario? Sono certa che, con il tempo, l’accordo del 28 giugno dello scorso anno sulle relazioni industriali dispiegherà tutto il suo potenziale innovativo proprio sul tema della produttività. Lo considero uno dei più importanti risultati della mia presidenza. Quella cornice di regole crea le condizioni per mettere a disposizione delle imprese una pluralità di modelli negoziali adattabile alle esigenze produttive e di contesto competitivo dell’azienda. C’è un modello basato su un contratto nazionale meno invadente e su un forte peso della contrattazione di secondo livello con addirittura la possibilità di deroghe rispetto ai contratti nazionali e anche alla legge. Si tratta, per la prima, volta di un impianto condiviso da tutti i sindacati, dunque esigibile e certo. Non a caso compaiono le prime sperimentazioni in azienda e sono tutte molto interessanti soprattutto perchè aumentano la produttività e inventano nuove forme di welfare aziendale. È chiaro che il modello prevalente in precedenza di dialettica sociale ha portato a forme di evidente squilibrio se abbiamo bassa produttività e bassi salari. È chiaro che anche in tema di lavoro la crisi getta una nube nera su ogni ipotesi di sperimentazione perchè la priorità diventa la salvezza dell’occupazione... È vero: la recessione ha condizionato tutto. Ma considero molto importante che, nella prima parte del mio mandato, assieme al sindacato, alle altre organizzazioni imprenditoriali, al Governo abbiamo tenuto insieme il sistema. Ci siamo inventati la moratoria sui prestiti e sui mutui, abbiamo concentrato risorse e idee sulla proroga degli ammortizzatori sociali, abbiamo sollecitato la nascita del fondo di garanzia per le Pmi e del Fondo italiano per gli investimenti. È stata una stagione di grande collaborazione e comunanza di intenti: ricordo quel marzo del 2009 con i fatturati che calavano del 30 o anche del 40%, con il Pil che subiva cali, rispetto a due anni prima, del 6% e la produzione sbalzi del 30-40%: lo sforzo congiunto delle forze sociali ha fatto un miracolo. L’occupazione non è crollata, il Paese non ha conosciuto derive conflittuali: l’Italia è sopravvissuta. Poi c’è stata la stagione della piccola risalita, prima di arrivare al nuovo, recentissimo, crollo... Dopo la fase del superamento dell’emergenza è subentrata la necessità di fare le riforme per attrezzare il Paese ad essere più competitivo e robusto di fronte a una nuova crisi. Tra i pochi abbiamo chiesto – e appoggiato – la riforma dell’università e degli istituti tecnici abbiamo chiesto la riforma del lavoro, del fisco. Ma dopo il 2010, poichè il Governo aveva ridotto di molto il suo margine di maggioranza in Parlamento ed era lacerato e diviso al suo interno, le richieste di riforme cadevano nel vuoto. Nell’agosto del 2011 abbiamo capito che l’Italia poteva diventare, dopo la Grecia, il vero detonatore per far saltare l’euro. Come parti sociali abbiamo alzato la voce e abbiamo spinto, con le altre associazioni imprenditoriali, affinchè il Paese potesse avere un nuovo Esecutivo in grado di portare l’Italia – e dunque anche l’Europa e l’euro – fuori dai rischi. Ci hanno criticato, ci hanno attaccato, ma è stato importante evitare quel baratro. Dunque, il Governo Monti tutto bene? Siamo stati tra i pochi a sostenere il Governo Monti nella sua azione di riforma delle pensioni, nonostante rappresenti un costo anche per le imprese. Abbiamo sostrenuto l’esigenza di fare le manovre correttive, ma abbiamo alzato la voce quando sulla riforma del lavoro il Governo è tornato indietro rispetto ai suoi stessi passi in tema di flessibilità in ingresso e in uscita. La riforma rimane un’occasione persa, ma con la messa a punto del Parlamento il testo finale sembra migliorato; bisogna prendere atto come sia la prima volta dal 1970 che si interviene sull’articolo 18 da sempre considerato un tabù intoccabile. In sostanza non c’è più solo l’obbligo di reintegro in caso di licenziamento contestato. L’interesse associativo o l’interesse del Paese? Per chi guida la prima organizzazione imprenditoriale, soprattutto in tempi di sacrifici, non sempre coincidono. Ha mai dovuto affrontare questo dilemma? Certo, ma ho sempre pensato che la migliore forma di rappresentanza degli interessi dell’impresa sia quella di guardare al miglioramento de Paese. Siamo sempre stati una voce a favore delle riforme anche nei momenti più drammatici. In Italia di corporazioni ce ne sono già troppe. Come sta cambiamndo il capitalismo italiano? Quanto è difficile far convivere insieme grandi imprese, piccole imprese, gruppi pubblici e gruppi privati? Rappresentiamo 150mila aziende con 5,5 milioni di addetti: in Confindustria ci sono piccolissime imprese e grandi gruppi pubblici e privati, ma questo è una ricchezza, anche se a volte si traduce in una dialattica interna. Stimola a trovare punti di mediazione, minimi comuni denominatori che, una volta raggiunti, aiutano a risolvere in modo duraturo i problemi. L’importante è mantenere la coerenza rispetto al mercato e alla concorrenza: per me sono state le stelle polari dell’azione di rappresentanza. Sempre. Del resto qual è l’alternativa? Una serie di associazioni con piccole quote? Come ho detto di corporazioni ce ne sono già troppe. Eppoi non ha senso immaginare un modello di difesa degli interessi industriali basato sulla richiesta di sussidi, di incentivi, di aiuti: la spesa pubblica non c’è più e non ci saranno più assalti alla diligenza a favore degli iscritti. E non è certo quello che serve alle imprese sane. Ma chi è più indietro ne è consepavole davvero? Come agisce all’interno dell’organizzazione di rappresentanza degli interessi: collabora o si oppone? Non mi sfugge che un pezzo di sistema deve fare il salto di qualità quanto a investimenti in innovazione, in qualità delle produzioni in iniziative per l’export. Ma quando abbiamo organizzato le Assise di Confindustria e ci siamo confrontati in 5mila con il massimo della franchezza è emerso chiaramente che il 92% dei nostri associati sa benissimo che bisogna indirizzare ogni sforzo verso le esportazioni, soprattutto adesso in una fase dove abbiamo patito il calo della domanda interna, il credit crunch, i mancati pagamenti pubblici e il più alto livello di tassazione. Va detto, senza infingimenti, che abbiamo fatto miracoli. Lei ha subito tentato la strada del dialogo con tutti i sindacati, Cgil compresa, ma non è sempre stato un idillio. Ho cercato da subito il dialogo con tutti, Cgil compresa. Ma non ho mai creduto nell’unanimismo: quando, dopo trattative lunghe, incessanti e defatiganti, ho capito che la Cgil non avrebbe firmato un accordo interconfederale sulle relazioni industriali non ho esitato a cercare l’intesa con le altre sigle e a firmare un accordo interconfederale – per la prima volta – in modo separato. Era una riforma importante attesa dal ’93 il cui valore superava la necessità di arrivare a firme unitarie, che in quel momento non ci sarebbero state. Quando poi l’anno scorso il tempo è stato maturo per arrivare a una ulteriore formulazione di quell’impianto con anche la firma della Cgil ho salutato con favore quella firma unitaria. Ora, anche con l’ok della Cgil, se in azienda ci sono accordi firmati da Rsa o Rsu, queste sono applicabili, senza scioperi, senza rischio di ricorsi davanti al giudice. Come si dice in gergo sono intese esigibili. Era quello che voleva la Fiat che, però, ha deciso di uscire da Confindustria con uno strappo epocale. Si ricucirà quello strappo? Auspico naturalmente che la Fiat torni in Confindustria. Ma è una decisione che spetta solo alla Fiat. A me sembra che, proprio nella parte sindacale, abbiamo fatto molti passi avanti, abbiamo davvero innovato. Del resto ce lo hanno riconosciuti anche la Bce e la stessa unione europea. Se guardo alla Confindustria dopo l’uscita della Fiat vedo un’organizzazione che è cresciuta del 14% nel numero di iscritti e che aspetta di affiliare altre 10mila imprese di provenienza Confapi. A me pare il riconoscimento del buon lavoro fatto. L’Istat fotografa un’Italia impoverita, senza lavoro, con più diseguaglianze. La crisi attanaglia tutti, ma non c’è dubbio che il Nord, con la sua vocazione all’export, si è salvato più del Sud. La differenza nei tassi di sviluppo si è acuita e davvero quella di oggi sembra l’Italia del Dopoguerra. Nonostante questo confermo la contrarietà verso gli incentivi a pioggia che non aiutano le imprese vere ma creano solo clientele. Trovo scandalosa l’incapacità di progettare iniziative per utilizzare al meglio i fondi europei, bene fa ora il ministro Fabrizio Barca (come anche prima di luigi Raffaele Fitto) a recuperare le somme non spese e a dirottarle su pochi progetti esecutivi. Al Sud resta aperto un problema serio di ordinaria amministrazione e di criminalità organizzata. Sono fiera di aver contribuito a diffondere la lotta alle mafie prima con il procollo in Sicilia poi esteso al Sud e infine applicato da tutte le Confindustria e in tutta Italia. La speculazione internazionale e l’aggressività della turbofinanza ha creato le premesse della recessione e ha intaccato nel profondo anche le dinamiche dlel’economia reale. Il tema dei derivati a rischio torna di prepotente attualità nella vicenda JP Morgan. Che ne pensa? Ci vogliono nuove regole e se ne parla da almeno 4 anni. Ma è evidente che su questo tema non si è fatto abbastanza. Sono molto preoccupata: se il mondo scoprisse di essere nuovamente invaso da titoli tossici sarebbe una castariofe. A proposito di finanza, non crede che sia un vecchio vizio del capitalismo italiano di dedicarsi alla finanza, dunque alla rendita, più che all’investimento su prodotto e processo? Se mai c’è stata, questa "devianza" mi pare più una cosa del passato e su scala comunque molto ridotta. Oggi la stragrande maggioranza delle imprese fa il suo mestiere. E in condizioni davvero difficili. Ci salverà l’Europa? Non bisogna sottovalutare il fatto che oggi l’Europa ha comunque un problema strutturale di competitività rispetto ad altre aree del mondo dove, infatti, si stanno concentrando gli investimenti. Dopo l’euro ci vuole l’Europa politica. E intanto non deve prevalere la linea del rigore ottuso. È chiaro che nel medio periodo i bilanci pubblici devono convergere verso la parità, ma se nel frattempo la crisi distrugge il sistema produttivo o addirittura interi Paesi, non ha senso applicare meccanicamente i principi dell’ortodossia tedesca. Furono proprio i tedeschi nel 2000, quando il patto di stabilità minava il loro potenziale di crescita, a non applicare il rigore sui conti. Certo, hanno fatto le riforme prima e meglio di tutti i Paesi europei, ma oggi godono di un beneficio strutturale che vale quanto le vecchie svalutazioni competitive. E per giunta si finanziano a tassi negativi ed esportano per il 60% negli altri Paesi Ue. Non ci sfugge che la debolezza dell’Europa è per la Germania un affare. La situazione deve cambiare e confido che Monti e Hollande, magari aiutati anche da Obama, possano fare molto per evitare rotture che sarebbero drammatiche. Oggi è il suo ultimo giorno. Poi? Torno in azienda: é un gruppo importante, molto internazionale. Eppoi non vedo l’ora di dedicare tutto il tempo che merita alla mia bimba.