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 2012  maggio 20 Domenica calendario

CHE GUAIO GRILLO... MA CHI VERRÀ DOPO SARÀ PURE PEGGIO


C’è una domanda che molti si fanno in queste giornate di catastrofe per i partiti italiani: perché la Prima Repubblica è durata più di quarant’anni, mentre quella odierna, la Seconda, sembra sul punto di tirare le cuoia anzitempo? A mio parere i motivi sono tre. Quello principale è che allora i partiti si combattevano, ma non si odiavano, per lo meno non sempre e non spendendo tutte le loro energie. Il secondo è che i rapporti di forza erano stabili: la Dc stava al governo, il Psi era il suo alleato principale, il Pci si accontentava dell’opposizione.
Ma il più importante appariva il terzo motivo: la Balena democristiana era bonacciona. Non si vestiva mai a lutto come la Casta di oggi, non urlava, non mordeva, preferiva sorridere più che azzannare. Li ricordo bene i capi dicì per averli descritti un’infinità di volte: ridevano sempre. Anche nei giorni di lutto partitico. Anche sotto le piogge di fango politico. Anche di fronte alle congiunture più avverse.
Gli capitava un salasso di voti e loro ridevano. Dovevano lasciare Palazzo Chigi a un socialista o a un repubblicano e seguitavano a ridere. Erano costretti a cedere il controllo di una grande città o di un lucroso ente pubblico e non smettevano di ridere. La Dc dei tempi d’oro era un’immensa galleria di risate d’autore.

SORRISI DC

Antonio Gava vi esponeva la risata gorgogliante-partenopea. Ciriaco De Mita la sardonica-avellinese. Amintore Fanfani quella ringhiosa-toscana. Vittorio Sbardella la sghignazzata squalesca. Paolo Cirino Pomicino la sghignazzatina astuta. Giulio Andreotti il suo famoso sorriso al veleno, messo in mostra sotto un vetro blindato come quello della Gioconda.
Certo, qualcuno che non ridesse c’era anche nella Dc. Aldo Moro, per esempio: sempre triste, come se presagisse la sua tragica fine. O Benigno Zaccagnini, capace di sorridere soltanto a ogni morte di papa. Ma la risata era la Premiata Specialità della nomenklatura democristiana. Anzi, la sua insegna, il suo stemma, la sua bandiera. La bandiera di chi poteva far sempre buon viso a cattivo gioco per un motivo semplice: perché il gioco non era mai così cattivo da incrinare la fiducia della Balena Bianca nell’eternità del proprio potere.
L’altro tratto che rammento della Dc è la natura di questo potere. Nel tempo del trionfo politico, la Balena comandava con il pugno di latta nel guanto di lanetta. Il suo regime esisteva, ma era del genere soffice, segnato da una voracità cautelosa, pronta più alla mancia che al randello. E decennio dopo decennio aveva finito con il diventare una rete a maglie larghe. Dove chi si opponeva non aveva motivi per iscriversi alla categoria dei martiri.
Se ripenso al mio lavoro di cronista, la memoria mi restituisce il ricordo di una Balena tollerante. Potevi scrivere le peggio cose sulla Dc, ma nei loro santuari correntizi o nei consigli nazionali e nei congressi ti accoglievano sempre con il tappeto rosso e il sorriso sulle labbra. La battuta più cattiva me la scoccò Andreotti, quando mi sorprese nell’atrio di Piazza del Gesù, la sede dicì, mentre prendevo appunti sul taccuino stando in piedi: «Ma che fa, Pansa? Le contravvenzioni?».
Quando ci rifletto, mi convinco che i miei reportage non contavano niente. E che contavano molto poco anche le testate per le quali lavoravo, pur essendo tutte di rango. Del resto, sino all’inizio degli anni Novanta e prima della catastrofe di Tangentopoli, la politica italiana era meno sensibile ai media di quella odierna. I quotidiani non erano schierati per questo o quel blocco partitico come accade oggi. E la televisione non era oggetto di contese feroci, dal momento che era interamente democristiana. Salvo un piccolo lotto socialista e un orticello assegnato ai comunisti.

SPESA PUBBLICA

È possibile, dunque, che la tolleranza della Balena fosse anche il riflesso di un menefreghismo da potere. La Dc possedeva tutto. E poteva contare su tutti. I preti e la polizia. La Confindustria e la burocrazia statale. I magistrati e la Coldiretti. La sanità e le Casse di risparmio. I servizi segreti e la Confcommercio. Per non parlare dei Consorzi agrari e delle aziende pubbliche, a cominciare dall’Iri, dall’Eni e dalle banche di Stato.
La sublimazione di questo potere era la spesa pubblica, un ipermercato dove tutti potevano servirsi a prezzi di favore e spesso senza pagare. Qualche cassandra, per esempio Ugo La Malfa, strillava: così andremo a fondo! La Balena replicava: quando ci andremo?, tra un anno, tra dieci, tra venti? Dunque, che la festa continuasse. Con l’avallo tacito dei senzadio dell’Elefante comunista. Felici di chiudere gli occhi. E di compensare così la propria impotenza a scalzare i maledetti democristi.
Quella sì che era una casta. Ma in quel tempo quest’immagine sferzante, una frustata di cinque lettere, non l’avevano ancora coniata. La Casta odierna è soltanto una povera caricatura di quella del tempo che fu. Nessuno dei partiti che la compongono ha una forza tale da imporsi agli altri clan. Di conseguenza tutti risultano deboli, con gruppi dirigenti fragili e per questo timorosi di perdere il poco potere che possiedono.
L’unica vera arma è la capacità di imporre veti. Ma anche questo è un segno di debolezza. Lo rivela l’atteggiamento dei leader, dei vice leader, dei capi e dei capetti di ciascuno dei clan: non ridono mai, come invece facevano i boss democristiani. Vanno di continuo in tivù e mostrano soltanto facce lunghe, mutrie da venerdì santo, tetre, accigliate, ringhianti. E spendono le scarse energie in un solo modo: odiando gli avversari e cercando di azzannarli, di metterli sotto, di sbranarli.
In questi tempi di depressione profonda e dall’incerto futuro, avremmo bisogno di partiti capaci di mostrare nervi d’acciaio, forza, tranquillità. Invece la Casta è ogni giorno di più in preda all’isterismo. Ha paura che la crisi distrugga il benessere del paese? È possibile, ma il terrore più evidente è un altro: la Casta teme per se stessa, ha la strizza di morire. Per mano di un nemico che si è abituata a chiamare l’Antipolitica.

IL FANTASMA

Ma l’antipolitica non esiste, è soltanto un fantasma creato dalla Casta per non ammettere l’amara verità che la riguarda. Esiste invece il fastidio crescente dei cittadini per i vizi dei partiti: incompetenza, disonestà, difesa dei propri privilegi, arroganza, incapacità di governare, disprezzo per gli altri. La Casta sa bene che la faccenda è questa. Eppure preferisce negarlo. E si è inventata pure il pupazzo dell’antipolitica: il faccione di Beppe Grillo.
Questo comico al di là dei sessant’anni, urlatore volgare e campione dell’insulto, è il figlio legittimo della Casta, una sua creatura. Se i partiti non fossero malati terminali, lui non esisterebbe. Eppure, come spesso succede con i mostri creati in laboratorio, sarà Grillo il killer dei suoi inventori. Ucciderà la Casta, svelando il vecchiume dei partiti, le loro vergogne, le loro piaghe. Ma più in là non riuscirà ad andare.
Anche se conquisterà il municipio di Parma, di certo Grillo non cambierà in meglio la sorte dell’Italia. Questa è un sfida che può essere vinta soltanto da un nuovo sistema partitico in grado di prendere il posto di quello che oggi sembra vicino al crollo. Nessuna democrazia vive senza partiti. Sono gli unici in grado di colmare un vuoto politico che è sempre rischioso. Se loro non ci riescono, verranno sostituiti da qualche altra forza organizzata. E non voglio neppure immaginare quale potrebbe essere.

Giampaolo Pansa