Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 22/05/2012, 22 maggio 2012
«BIG» E MATRICOLE, I SALDI DELLA BORSA CHE NESSUNO (PER ORA) VUOLE COMPRARE
La Borsa italiana è di nuovo in ginocchio. Al di là delle fluttuazioni dell’indice e dei rimbalzi di alcuni titoli, annuncia un’Italia in saldo. La maggior parte delle quotate è di nuovo vicina ai minimi, mentre lo spread tra i Btp decennali e il Bund, tornato ben sopra i 400 punti, riapre gli interrogativi di fine anno sulla tenuta di banche, assicurazioni e grandi gruppi industriali a forte esposizione debitoria. E’ ripreso il deflusso di capitali verso l’estero, in particolare verso la Germania, che nel 2011, secondo Matt King di Citigroup, era stato di ben 160 miliardi, il 10% del Pil. I titoli di stato italiani in mano estera sono scesi da 828 a 730 miliardi. D’altra parte, grandi gruppi multinazionali come le Generali richiamano in patria i Btp sottoscritti dalle loro filiali estere perché questa parte dell’attivo sarebbe meglio protetta qui, in caso di tempesta. Nota l’Economist che i depositi bancari esteri presso istituti nazionali italiani sono calati del 34% e parla di mercati finanziari che si ritirano dentro i propri confini nazionali.
Questa nazionalizzazione figlia della paura dischiude orizzonti paradossali e, talvolta, inquietanti. L’intero settore assicurativo italiano, che muove qualcosa come 500 miliardi di euro, vale in Borsa più o meno 17 miliardi. Mediobanca, il santuario dell’alta finanza, è precipitata a 2,6 miliardi, meno di Ferragamo e poco di più di Tod’s. Prima della Grande Crisi, sarebbe stato impensabile. Unicredit viaggia sui 15 miliardi, dopo aver fatto aumenti di capitale per 13,5 miliardi in tre anni. Intesa Sanpaolo sta appena sopra i 16 miliardi, dopo un aumento di capitale di 5. Ci fossero capitali arditi su piazza sarebbero i bersagli perfetti per una scalata e poi per la rivendita a pezzi. Se un Abramovich o un emiro del Golfo volessero aggiungere al Chelsea Football Club o al Paris Saint-Germain una grande casa editrice italiana, non si dovrebbe certo svenare, dato che l’intero settore editoriale capitalizza 1,3 miliardi. La partecipazione di Fininvest in Mediaset vale in Borsa 650 milioni, sei volte meno del 2006. Insomma, a questi prezzi sembrerebbe esserci un’intera Italia da comprare. Sembrerebbe, eppure nessuno si fa avanti.
Le ragioni sono più d’una: a) la legge sulla golden share sconsiglia offerte pubbliche d’acquisto ostili su imprese che possano essere ritenute strategiche; b) gran parte delle società ha un azionista di maggioranza assoluta ovvero un gruppo egemone di azionisti legati fra loro da patti di sindacato; c) gli investitori professionali non sono tanto diversi dal parco buoi che compra quando le quotazioni vanno al rialzo e vende durante i ribassi: basti pensare ai soci eccellenti di Telecom Italia, che entrarono nel 2007 pagando un grosso premio e ora sognano di uscire con il titolo che vale poco più di un terzo (andando come i loro titoli o anche meglio) pur di realizzare un po’ di liquidità; d) quando il Credit Suisse intravede il rischio di credit crunch per interi settori come l’automotive e consiglia di tenere in cascina tutto il fieno possibile, l’estero percepisce un rischio Italia che sconsiglia operazioni meramente finanziarie.
Non c’è rischio Italia che tenga, invece, davanti alle vere opportunità industriali. Non a caso, Parmalat e Bulgari vanno ai francesi di Lactalis e Lvmh, Ducati alla tedesca Audi e magari, domani, Ansaldo andrà alla giapponese Hitachi. Non a caso, Ferragamo e Tod’s, ma anche Luxottica e Pirelli e perfino la Fiat (che nel 2001 capitalizzava meno della Bipop-Carire) sono sugli scudi o quantomeno resistono. Questa crisi, in fondo, rilancia la tanto bistrattata manifattura in cima alla classifica del valore.
Massimo Mucchetti