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 2012  maggio 22 Martedì calendario

FALLISCE IL PATTO DEMOCRATICI-INDUSTRIALI. A 5 STELLE L’AIUTO DI INDIGNATI E «VENDICATORI»

«Si è trattato di un voto contro i poteri forti». A rilasciare a caldo questo commento ai microfoni di Tv Parma è stato Costantino Monteverdi, uno degli uomini vicini agli ex sindaci di centrodestra Elvio Ubaldi e Pietro Vignali. Ed è sicuramente una battuta saporita che colpisce nel segno perché a uscire con le ossa rotte dal pronunciamento delle urne è stata prima di tutto l’alleanza sotterranea conclusa a ridosso della campagna elettorale tra il Pd e l’Unione Industriali. Con il maxi-debito di 600 milioni che pende come una spada di Damocle sui contribuenti parmigiani la sinistra e l’imprenditoria-che-conta avevano pensato che fosse necessario un atterraggio morbido garantito da tre condizioni: a) un personale politico collaudato, b) una stampa cittadina vigile, c) un atteggiamento benevolo delle banche disposte a negoziare l’allungamento dei termini di pagamento.
I risultati del primo turno con il candidato del Pd, Vincenzo Bernazzoli al 39% e il centrodestra in rotta, sembravano aver dato ragione agli strateghi del «compromesso del mattone», il governatore Vasco Errani e il piacentino Pierluigi Bersani. La nuova giunta avrebbe garantito la conclusione dei lavori dell’inceneritore per i rifiuti (che i parmigiani però chiamano con un certo disprezzo «forno»), avrebbe evitato di aggiungere nuove tasse locali e avrebbe però rivisto tutti gli scellerati piani urbanistici concepiti dall’ex sindaco Pietro Vignali e a suo tempo accolti con scroscianti applausi dagli industriali. Gli elettori però sono stati di avviso contrario, il tema dell’atterraggio morbido non fa parte del loro immaginario e hanno preferito gonfiare le vele di Federico Pizzarotti fino ad eleggerlo nuovo sindaco di Parma. Chi nella società civile e magari anche a sinistra aveva animato il movimento degli indignados, che un anno fa aveva assediato la giunta Vignali, non ha creduto alla bontà dell’usato sicuro (alias Bernazzoli) e ha pensato di aver diritto alla palingenesi. Meglio quindi votare per una persona disinformata dei fatti che per un presidente della Provincia in carica — come è il candidato del Pd —, che però dal suo scranno (dal quale non si è mai dimesso) non si era certo caratterizzato come martire della lotta contro il sacco di Parma.
I voti degli indignados e dei parmigiani anti-forno non spiegano però tutto. Facciamo qualche conto. Visto che l’affluenza alle urne al ballottaggio è stata di tre punti più bassa che al primo turno (61,2% contro 64,5%) è facile arguire che Bernazzoli ha sostanzialmente conservato i suoi voti senza riuscirne a guadagnare nemmeno uno. Anzi. Il suo avversario Pizzarotti invece è salito dal 19% del primo turno al 60% del ballottaggio. Ora è vero, come ha dichiarato il neosindaco, che gli elettori votano con la loro testa e non con le indicazioni di partito ma dove sono finiti i consensi dei parmigiani di centrodestra che al primo turno si erano suddivisi masochisticamente tra ben tre candidati (Buzzi, Ghiretti e Ubaldi) e che complessivamente rappresentavano il 31% dei voti espressi? A guardare i numeri sembra che siano finiti tutti ai grillini. E allora il quesito successivo è un altro: che cosa è scattato nella testa dell’elettorato moderato parmigiano al punto da convincerlo a votare in massa Pizzarotti?
In primo luogo ha contato sicuramente qualche suggestione di carattere nazionale. Sia Silvio Berlusconi sia la sua stratega elettorale Alessandra Ghisleri hanno più volte fatto capire nei giorni scorsi di considerare il movimento 5 Stelle come un esempio (un manager userebbe la parola «benchmark») da tener presente per una possibile rifondazione di Forza Italia e questi input possono aver avuto il loro peso nella città ducale. Ma ciò che ha contato di più è stato un ragionamento della serie «muoia Sansone con tutti i filistei». Se infatti si fosse chiusa vittoriosamente un’alleanza politica tra il Pd e gli industriali, per i politici e i manager che avevano guidato Parma per tre lustri — e per il blocco urbano che aveva scommesso su di loro e sul mattone — il futuro avrebbe preso le sembianze di una panchina al parco. Si sarebbe saldato un nuovo asse di potere benedetto da Errani a Bologna e coperto da Bersani a Roma. Meglio, dunque, un voto scassaquindici che porta sulla poltrona di sindaco un outsider ma che lascia liquidi i rapporti di potere nella sfera economica locale. Meglio dunque puntare sui grillini, aspettare di vederli all’opera e magari sperare in un rapido insuccesso amministrativo piuttosto che rassegnarsi al pensionamento politico.
I guai in cui si è cacciato il Pd sono almeno di tre tipi. Accettare il compromesso con gli industriali, non capire che questa scelta l’avrebbe messo in contrasto con la società civile indignata e sottovalutare la capacità del centrodestra di vendicarsi. Se al ballottaggio fosse arrivato Ubaldi come si pensava, per Bernazzoli sarebbe stato facile accusarlo dello sfascio della finanza locale e vincere a mani basse, mentre contro Pizzarotti il candidato della sinistra non ha trovato argomenti altrettanto convincenti. L’usato sicuro non si è rivelata un’offerta persuasiva e il Pd si è visto mettere in minoranza dal movimento Cinquestelle che ha sommato incredibilmente i voti degli indignados anti-Vignali, quelli degli ambientalisti contrari al «forno» e infine quelli del blocco moderato legato al mattone e in cerca di vendette. Il Pd alla prova finale è apparso come un’offerta oligarchica contrapposta a una ventata universalistica, società chiusa contro società aperta. Ma gli altri grandi sconfitti del sorprendente voto di Parma sono gli industriali. Hanno prima permesso che la città fosse sventrata, hanno sostenuto un personale politico di dubbio valore tranne rinnegarlo dopo l’intervento della magistratura e quando hanno cercato di disegnare un atterraggio morbido hanno finito per azzoppare pure il Pd. L’ultima domanda che vale la pena fare e che sorge spontanea può essere sintetizzata così: ma Parma con il peso del suo Pil, con l’immagine internazionale di cui gode, con la forza della sua food valley non merita forse una borghesia migliore?
Dario Di Vico