Martino Gozzi, Corriere della Sera 21/05/2012, 21 maggio 2012
LA MALEDIZIONE DEL SISMA CHE CONSEGNO’ AL PAPA IL DUCATO DEGLI ESTENSI
Inizia tutto con un boato, simile a quello di una frana. Poi comincia la scossa, una scarica interminabile che scuote la terra, le auto, i muri. Li fa rabbrividire. Nel buio ancora completo delle primissime ore del mattino, la cosa più spaventosa, però, qui a Ferrara è il rumore: martellante, inspiegabile, prolungato. È come se la frana, invisibile, ti stesse venendo addosso.
Non c’è il tempo di riflettere: la scossa continua, insistente, e il rumore è sempre più fragoroso. Chi ha più prontezza di spirito salta giù dal letto, pesta cocci e vetri in frantumi, tenta di accendere la luce. Si precipita in strada, magari saltando i gradini delle scale a due a due. E subito, fuori dalle case, la gente si raccoglie in capannelli: uomini in ciabatte, anziani spaesati, donne in pigiama con una coperta sulle spalle, bambini avvolti nel primo panno capitato in mano.
Passeranno ore prima che decidano di rientrare. Nel frattempo il cielo schiarisce, la luce del giorno infonde un po’ di ottimismo. Il demone che ha scosso la terra dà l’impressione di essersi placato. Le voci si rincorrono — c’è chi controlla i siti dei quotidiani sugli smartphone, chi riceve telefonate da parenti e amici — e la paura è ancora tanta. Lo sconcerto, il disorientamento iniziale, non si attenuano, accrescendo così il senso di impotenza. L’Emilia Romagna non è abituata a eventi sismici di questa portata, nessuno ricorda nulla di simile: nulla, per lo meno, di questa durata, di questa intensità. L’epicentro deve essere vicino, vicinissimo. E così è.
Con il sorgere del giorno, i danni esteriori appaiono subito visibili. Detriti si trovano lungo le strade di tutti i quartieri: appena fuori dal parco Pareschi, un’auto posteggiata è stata distrutta dal crollo del muro di cinta. Di fronte al bellissimo — ed estremamente fragile — Palazzo Massari, sede del Museo d’arte moderna e contemporanea, una cordonatura impedisce a chiunque di avvicinarsi, e la sede stradale è disseminata di frammenti. Tutti luoghi frequentatissimi, di giorno: e per fortuna, viene quasi da dire, che la scossa più forte ha colpito il centro nel cuore della notte.
Non è l’Apocalisse: il paesaggio è in gran parte immutato, ma gli edifici mutilati, accecati, eppure circondati dalla familiare normalità di sempre, sono inquietanti segnali che qualcosa di anomalo è avvenuto. Gli elicotteri dell’esercito sorvolano la zona. Ambulanze e furgoni della Protezione civile percorrono le strade a tutta velocità.
Una torre del Castello è seriamente danneggiata. Di tutti gli edifici del centro storico, tra l’altro, il Castello degli Estensi è forse quello che, nella sua attuale struttura, porta iscritti i segni dell’ultimo, devastante terremoto abbattutosi sulla città. Alle sette di sera del 17 novembre 1570, infatti, si verificò il culmine di uno sciame sismico preceduto da una grave serie di scosse e destinato a concludersi solo alla fine del 1574. Con oltre duemila microeventi, il terremoto di allora sventrò innumerevoli abitazioni, e demolì gran parte del Castello: i coperti, le volte, i ponti, nonché la muraglia dell’ala Ovest e i camerini di Via Coperta. Un terremoto rovinoso, ma troppo lontano nel tempo perché altri ne conservino la memoria.
La sorpresa di allora — in questa città brumosa, placidamente adagiata in mezzo alla pianura — non deve essere stata inferiore a quella di oggi. Le cronache dell’epoca raccontano che Alfonso II d’Este si fece scarrozzare in campagna, mentre il resto della corte si accampò all’aperto. Insofferente nei confronti del proprio feudatario, e della sua eclettica cerchia, il terribile Pio V vide nel focolare sismico un cuneo nel quale insinuarsi per indebolire il Duca.
Ferrara era in ginocchio. Senza dubbio, sulle facce dei popolani raccolti in piazza si doveva leggere lo scoramento di questa mattina, l’incredulità mista a paura. Passato il primo spavento, all’alba di oggi, qualcuno si è rifugiato nei camper, altri in gazebo di fortuna, altri ancora in automobile: le immagini dell’Aquila sono ancora troppo vivide per essere ignorate facilmente. E così, in molti hanno lasciato le abitazioni nel caos, le camere a soqquadro, preferendo aspettare. «Per mettere a posto ci sarà tempo», ha detto qualcuno, in strada. «Aspettiamo che questa furia passi, prima».
Del resto, le risorse di questa città, e di questo territorio, sono sempre emerse nei frangenti più delicati, come ci ricordano gli anniversari delle rotte del Po, delle alluvioni, della Liberazione. Persa la fiducia dei sudditi, Alfonso II — mal sopportato dal clero, e rimbrottato ufficialmente dal Pontefice — non si perse d’animo e decise di seguire le orme del padre, Ercole II, il quale, dopo l’incendio del 1554, aveva avviato grandiosi lavori di restauro del Castello. Esauritosi lo sciame sismico, ebbe così inizio quella sontuosa opera di rifacimento e di ampliamento della sede degli Este, disegnata dal geniale Gerolamo da Carpi, che la trasformò — da fortezza qual era — in una residenza principesca.
Quell’impresa, naturalmente, non bastò al Casato per mantenere il dominio sulla città: Alfonso II morì senza eredi, e Ferrara passò nelle mani dei legati pontifici. Eppure, il Castello, così come emerse da quella ristrutturazione — con le sue balaustre marmoree, le altane sulle torri, le sue ampie sale, le sue gallerie, le sue facciate di un rosso «quasi dolomitico», come ha scritto Giorgio Bassani — domina ancora la città, e tutta la provincia.
Quando a tutte le emergenze sarà stata data un’adeguata risposta, bisognerà intervenire e chiudere anche questa ferita. Bisognerà trovare la determinazione — e i fondi — per ricostruire. Perché non si tratterà semplicemente di ristrutturare un edificio, ma uno dei luoghi più rappresentativi di questa città. Uno dei luoghi più cari a questa comunità.
Martino Gozzi