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 2012  maggio 20 Domenica calendario

QUANT’ERI BELLA ROMA

Sotto una volta delle terme di Caracalla, A.L.R. Ducros e G. Volpato hanno raffigurato, in un acquerello su delineato, donne che raccolgono erbe e i loro uomini che battono il suolo con bastoni. Di fronte a loro si erge una serpe: latet anguis in herba. È un’immagine adatta per cominciare. Le rovine stanno lì, naturalmente come rocce, e all’ombra della fabbrica romana si svolge la vita.
Scarsa è l’attenzione per l’antico: è il grado zero dell’archeologia. Ma i morti sono lì sotto e si vendicano, irritati per tanta distrazione, inviando il loro Genius, la loro energia vitale concentrata in quel luogo, che freme ancora nel rettile eretto. Al passato mai si sfugge del tutto e già compare una lastra di marmo: un’iscrizione? Il nostro Atlante di Roma antica, che qui presentiamo, è il rovescio di questa immagine lontana, che ancora ammalia.
Seguono rovine, ora divorate dalla vegetazione, con capre e figurine umane che danno la misura alle cose, e ora vivisezionate da un abile maestro costruttore, con piante, sezioni e lettere per identificare i muri. Rovine, ora isolate e ora incastonate nella città brulicante, contornate da palazzetti, casupole e baracche di varia età. Rovine, ora anatomizzate nei dettagli – come tre gradini si sovrappongono l’uno all’altro – e ora inventate, come sostruzioni potenti rivelate nelle parti interrate mai viste, ma inventate con precisione. Rovine popolate da paesani e visitatori stupefatti che le esplorano tra carri e scale.
A volte i ruderi spiccano e a volte giacciono ancora sprofondati nella terra, riusati come rifugi, depositi... Spuntano botti nei colombari, vino fra ceneri. A volte ecco un reticolato, un laterizio, un selciato, un ipocausto, fino a oggetti singoli alla rinfusa: anfore, capitelli, rilievi e iscrizioni. A volte formano un cumulo dismesso e vitale e, altre volte, interi panorami sfracellati. I ruderi sono riattati, rafforzati, completati nel riuso, invasi da costruzioni di nani, che ora si introducono e ora si appoggiano alle gigantesche fabbriche che il tempo divora.
Esplorare, scoprire, bramosi e sorpresi, entro visioni senza precedenti. Nessuna gerarchia fra gli oggetti e tanta antiquaria... Gli archeologi sono ancora lontani. È il mondo di Piranesi. Rovine al naturale, come belle addormentate nel bosco. Il tempo ha mescolato a caso antico e moderno, colonne si alternano ad alberi e il monumento si affianca alla stamberga, e così i pastori ai dilettanti del passato. Anche la morte è in vita, anche la rovina è rigogliosa di uomini e verzure. Nessuna separazione o specializzazione: solo un’arte che scopre, usando particolari e fantasia, senza preoccupazioni estetiche, salvo l’abilità dell’incisore nel ritrarre crolli non ancora isolati.
Se confrontiamo questi lacerti antichi, ancora abbarbicati alla città che si muove, con quanto oggi rimane delle rovine romane vi è da vergognarsi. Il palazzo e il monumento romano, divenuti tutt’uno, come al Teatro di Marcello, sono ora distinti, con il teatro svuotato sotto e il palazzo sopra, come incongruo cappello. Monumenti antichi laccati, integrati, liberati e separati dalla vita da grate: cadaveri spolpati, esposti come mummie in museo. Cosa abbiamo fatto, noi archeologi, creando buchi in città per scoprire caviglie banali di colonne, rompendo la splendida continuità mescolata, il fascinoso intrico di un tempo. Sì, abbiamo ancora il Teatro di Marcello e anche il vicino Portico di Ottavia, ma l’incanto è perduto.
Eppure nella meravigliosa e miserevole confusione di un tempo era impossibile capire alcunché dei Romani. Tutto era frainteso, integrato con fantasia per dare un significato malcompreso, un’apparenza scientifica che mascherava l’ignoranza, e tanti nomi a vanvera. La rovina viveva, non era ancora cadavere, ma era poco più di un’ombra rivissuta, non ancora riconosciuta. Tutto era fuso nell’eterno presente, ma l’antichità nei fatti scompariva, fragile e maestosa quinta della capitale dei papi. La Roma degli imperatori, dei consoli e dei re rimaneva in un al di là, se non del rappresentabile almeno dello storico, in un mescolamento casuale di luoghi e secoli. Il cammino delle generazioni rimaneva celato.
Se dividere mettendo in relazione, misurare, classificare per tipi, distinguere per strati, comporre i monumenti in ordinata topografia hanno rotto la magica visione, è però cominciata, finalmente, la ricostruzione storica dell’antichità materiale: è l’archeologia. Fra infinite e produttive diatribe, ci si è avvicinati per meticolosi passi all’antico, considerato anche di per sé, seppure siamo noi con menti attuali a cercarlo, integrarlo e ricomporlo. Perse sono oramai le vedute di Piranesi, scomparso nel 1778, ma si è guadagnata, grado a grado, la Roma antica nei suoi spazi e tempi. Svanita è l’antichità degli antiquari in favore di quella degli archeologi. Una stessa tensione unisce, tuttavia, l’antiquario settecentesco all’archeologo contemporaneo, a partire dall’Ottocento. È la passione per il reale inteso come totalità più che come qualità singole, come sistema più che come preciso valore formale, che distingue entrambe queste figure di studiosi da quella dello storico dell’arte, che esiste solo se seleziona la qualità della forma per raccontarne la traiettoria. Il cumulo delle rovine e il loro disordine che ammalia si perdono, se poniamo le cose in ordine, nello spazio e nel tempo. Eppure soltanto questa anatomia dissacratrice è in grado di tradurre quella monumentale immondezza permeata di umano nel racconto di come la città è stata, luogo per luogo, e insieme si è trasformata, momento per momento. Tipologia, stratigrafia, topografia e iconografia sono nemiche di acanti e signorini in tricorno, ma non vi è accesso verosimile all’antico se non tramite quei metodi analitici, lo scavo e la ricomposizione scientifica. Piranesi ha inciso il suo stupore davanti alla magnificenza antica. A noi è dato varcare le soglie di ogni tempo, smontare anni e angoli per ritrovare la vita intera grazie allo studio, alle procedure, alla tecnologia e alla nostra mente di uomini della civiltà post-industriale. Eppure i nostri grafici, più convincenti di tante artistiche visioni, appaiono miserie rispetto al fasto delle mille stampe piranesiane. E il nostro Colosseo sfigura, privato delle stazioni della via Crucis, troppo ripulito e gremito di turisti. Ma è ora possibile scrivere la biografia dell’antica città e perfino delinearne i ritratti.
Roma di Piranesi rappresenta la mente del Settecento. Al contrario, la nostra Roma è erede della metafora di Freud, che descrive la mente consapevole di oggi grazie alla conformazione straordinaria della città dei re, dei consoli, degli imperatori e dei papi: «Facciamo l’ipotesi fantastica, che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe che... nel posto occupato da palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio debba essere demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recente..., ma in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche... A evocare l’una o l’altra veduta basterebbe forse soltanto un cambiamento di direzione dello sguardo o del punto di vista dell’osservatore...» (Il disagio della civiltà).
Ecco in poche frasi la possibilità e il compito. Se nella vita della psiche la conservazione del passato è la regola, possiamo trarne ispirazione e tentare di analizzare e ricostruire il passato di Roma, soddisfacendo i bisogni di memoria della nostra mente, nonostante distruzioni e ricostruzioni infinite. Perché di tutto qualcosa si conserva, e grazie a questi indizi nel suolo, che non mancano mai e che l’archeologo professionista è in grado di cogliere, possiamo ritrovare l’intero, provando, errando, migliorando... Trasformare questa città in una psiche consapevole, anche degli aspetti più oscuri e apparentemente secondari, in una colossale memoria, è il sogno che Freud ci ha donato e che possiamo tentare di realizzare; impossibile fino a due o tre lustri fa. Invece dei cambiamenti di sguardo o di punto di vista, escogitati dall’inventore della psicanalisi per vedere ogni spazio e tempo dell’abitato-memoria, possiamo oggi avvalerci dell’informatica e della cartografia e grafica digitali adattate finalmente all’archeologia.
La città ci appare allora come un gigante straordinariamente longevo, come una psiche viva nei millenni. Perché allora non cominciare a scrivere e illustrare, come in museo senza materia, la storia visiva di questa Roma che pare sempiterna? Il sogno è quello di girare per Roma antica, come possiamo farlo per quella moderna, seppure solamente per immagini.