Roberto Mania, Affari e finanza 21/5/2012, 21 maggio 2012
Il ministero delle riforme dimezzate al Welfare riesce solo il super Inps– Roma Carlo Donat Cattin non aveva dubbi: se avesse dovuto scegliere egli sarebbe stato il «ministro dei lavoratori» e non quello delle imprese
Il ministero delle riforme dimezzate al Welfare riesce solo il super Inps– Roma Carlo Donat Cattin non aveva dubbi: se avesse dovuto scegliere egli sarebbe stato il «ministro dei lavoratori» e non quello delle imprese. Elsa Fornero, ministro del Lavoro del gabinetto tecnico guidato da Mario Monti, non potrebbe nemmeno trovarsi di fronte a quel dilemma: quasi mezzo secolo dopo, i lavoratori non sono una identità netta, una classe distinta dal resto, portatrice di interessi omogenei e di una cultura comune. I lavoratori si sono (o sono stati) frastagliati in mille diverse tipologie e “classificazioni”. Nel mondo del lavoro si consumano conflitti sotterranei, alcuni globalizzati, altri fortemente interni: conflitti generazionali, conflitti di genere, conflitti territoriali. Lo scontro classico padrone-lavoratore può ancora oggi esplodere clamorosamente, inaspettatamente e pure violentemente (la strage alla Thyssen, per esempio; ma anche, su un terreno assai diverso, quello alla Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne), oppure ripiegare in forme informali di partecipazione, di condivisione, di cooperazione. E le imprese? Le multinazionali, senza radici nei territori, non hanno spesso il volto dell’imprenditore, sostituito dal, o dai, brand; le medie aziende, quelle innovative e internazionalizzate del nostro “quarto capitalismo” non fanno sistema; e le piccole sono ai margini del processo mondiale di redistribuzione della produzione e del lavoro. Insomma, è davvero molto più complesso il compito che spetta oggi all’economista piemontese prestata al governo. Di certo, però, c’è un - interessante - punto in comune tra il politico democristiano Donat Cattin e la tecnica Fornero: il ministero del Lavoro fu allora ed è oggi vero crocevia per la definizione del patto sociale. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta, un patto costruito sulle conquiste della classe operaia (lo Statuto, la formazione, la pensione come risarcimento della fatica del lavoro, il diritto alla casa, ecc), nel secondo decennio del nuovo secolo, senza più i riferimenti ideologici novecenteschi, un patto dai tratti difensivi, ancorato alla flessibilità dei lavori, al protagonismo degli individui più che dei gruppi di interesse, e alleggerito dal ritiro dello Stato incurvato, a sua volta, dalla massa del debito pubblico, mentre le diseguaglianze e le fratture sociali si accentuano un passo dopo l’altro. Questa è la missione (quasi impossibile) affidata al ministero del Lavoro. Che, non a caso, però, ha riconquistato la responsabilità principale delle riforme. Perché negli anni Novanta gli interventi sulle pensioni sono stati decisi e realizzati al ministero del Tesoro o direttamente a Palazzo Chigi (Lamberto Dini, Romano Prodi, Giulio Tremonti). La Fornero si è intestata la riforma della previdenza come quella del lavoro. Anche per dire, ben sapendo quanto fosse «impopolare», che avrebbe intanto risolto il problema dei 65 mila esodati grazie ai 5 miliardi stanziati nel decreto “Salva Italia”, e poi quello (in realtà lasciandolo in eredità al prossimo esecutivo) dei molti di più (oltre 200 mila) esodandi. Finendo per ammettere l’errore politico di aver sottovalutato tutti gli effetti sociali della sua riforma pensionistica. Ed è la riforma pensionistica l’asse sul quale (sotto la spinta dell’emergenza finanziaria) si è provato a disegnare il patto del futuro. È finora l’unica strutturale riforma varata dal governo. La riforma che, ormai mesi fa, ha permesso - ma solo per un po’ - che scendesse lo spread con i Bund tedeschi e che l’Italia riguadagnasse affidabilità sui mercati internazionali. E anche l’unica misura che ha recuperate risorse significative dal lato della spesa e non da quello delle entrate: 3,4 miliardi di risparmi nel 2012, 6,6 nel 2013, 9,2 nel 2014. Riforma che avrebbe dovuto coniugarsi con quella del mercato del lavoro, ma che così non è sostanzialmente stato. La riforma - ancora all’esame del Parlamento - è nata monca, priva dei raccordi indispensabili con la nuova previdenza fondata sul metodo contributivo: un sistema di ammortizzatori sociali davvero universale (secondo le stime della Cgil solo il 10 per cento dei precari riceverà la futura Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego) con annesso anche quel reddito minimo garantito, sul quale la Fornero, per quanto a titolo personale, si è sempre detta favorevole. Ma senza soldi non si può. Disse la Fornero davanti alla Commissione Lavoro della Camera all’inizio di dicembre del 2011 illustrando la sua legge sulle pensioni: «Questa riforma punta tutto, e in caso contrario fallirà, su un aspetto che la riforma stessa non contempla e cioè su un mercato del lavoro che funziona a dovere e dà lavoro al maggior numero possibile di persone, giovani, donne e anziani. Si tratta di un capovolgimento di ottica». E ancora: «La riforma del lavoro è il pezzo mancante, il pezzo che sorregge tutto questo impianto ». Quel pezzo difficilmente sarà in grado di reggere l’edificio. Ci vorrà quasi certamente un’altra riforma, interventi correttivi, toppe. Sperando che non esploda il sommerso, tornato a crescere anche per colpa della recessione. Il nuovo mercato del lavoro, dunque, nascerà piuttosto rachitico. D’altra parte lo stesso Fondo Monetario Internazionale, al termine della sua ultima missione in Italia, considera non sanato il dualismo nel nostro mercato del lavoro. E l’accordo sottoscritto tra il ministro della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi, e i sindacati crea un altro dualismo (pubblico- privato) sul fronte dei licenziamenti. Chiuso il cantiere della previdenza, quello del lavoro resterà aperto ancora per molto tempo. E non va dimenticato che i costi della riforma del lavoro ricadranno in buona parte sull’Inps e l’Inail che dal 2013 dovranno tagliare le spese di funzionamento di 90 milioni di euro l’anno, così ripartite: 72 milioni l’ente previdenziale, 18 quello assicurativo. Il cui presidente, Massimo De Felice, è stato nominato dal governo, con la Commissione parlamentare che ha deciso di non esprimere polemicamente il suo parere per i potenziali conflitti di interesse del neo-presidente legato, nel passato, da rapporti professionali con diverse compagnie di assicurazioni, da Intesa Vita, del gruppo IntesaSanpaolo, ad Alleanza assicurazioni. E ancora sotto la spinta dell’emergenza, la Fornero è riuscita a costituire il Super-Inps, facendo confluire nell’Inps, sia l’Inpdap (i dipendenti pubblici) sia l’Enpals (lavoratori dello spettacolo e dello sport). Un’operazione tentata dall’ultimo governo Prodi nel 2007 con l’obiettivo di ricavarne ben 3,4 miliardi di risparmi con i quali finanziare la grande riforma degli ammortizzatori sociali. Prodi si fermò davanti all’opposizione delle burocrazie interne, Fornero ha avuto la strada sgombra davanti al rischio del baratro finanziario. È nato (o meglio, arriverà entro novembre) un gigante della previdenza: 35 mila dipendenti, 21 milioni di assicurati, 1,5 milioni di aziende, 23 milioni di pensionati, oltre 700 miliardi di euro amministrati, con un costo di 4,6 miliardi per le spese di funzionamento, e un patrimonio immobiliare spaventoso da 2,3 miliardi. Un colosso con un solo uomo al comando, però: Antonio Mastrapasqua, confermato presidente dell’Inps fino al 31 dicembre del 2014. Potere monocratico (controllato dal Civ, dove tra i 24 membri siedono sindacati e rappresenti delle imprese) dopo il superamento (deciso dal predecessore della Fornero, Maurizio Sacconi) del Consiglio di amministrazione degli enti, luogo di classiche scorribande per i professionisti della lottizzazione. I cda non ci sono più e, infatti, la politica protesta. L’8 maggio scorso la Camera ha approvato una mozione molto bipartisan (è stata firmata, tra gli altri, da Silvano Moffa, Giuliano Cazzola e Cesare Damiano) per ripristinare i cda per quanto «riducendo il costo complessivo per i compensi degli appartenenti agli organi amministrativi». Resta il fatto che proprio l’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals nell’Inps viene considerato un modello ai fini della spending review. Si legge nel Rapporto Giarda: «Il percorso deve conseguire risparmi strutturali attraverso la riduzione delle spese complessive di funzionamento». Per eliminare gli sprechi, ridurre le inefficienze e il miglioramento dei servizi. Tagli, tagli e ancora tagli. Ma è sicuro che sia solo questa la strada per il nuovo patto sociale nell’epoca dei lavori? Una manifestazione di lavoratori in favore dell’occupazione e di misure in grado di alleviare il disagio economico delle famiglie coinvolte da crisi e ristrutturazioni industriali