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 2012  maggio 20 Domenica calendario

Hitler non si suicidò nel bunker, fuggì invece in Sudamerica

«Hitler scappò in Patagonia su un sommergibile: ho visto dove s’era nascosto» - È forse l’unico storico al mon­do ad aver visi­tato e filmato l’Estancia San Ra­mon, una grande fat­toria della Patago­nia argentina, ai pie­di delle Ande, dove Adolf Hitler sarebbe vissuto negli anni Cinquanta. Alessandro De Felice ne è per­suaso: «Il Führer non si suicidò affatto il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria del Reich, a Berlino, insieme a Eva Braun. Riuscì invece a fuggire in Sudamerica. Vis­se con l’amante divenuta moglie in que­sta località impervia, raggiungibile solo in fuoristrada, a una quarantina di chilo­metri da San Carlos de Bariloche, la città soprannominata “la Svizzera argentina” in cui aveva trovato rifugio anche Erich Priebke, il capitano delle Ss condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.Da lì si spostò dopo qualche anno a Villa La Ango­stura, a Inalco, 85 chilometri da Barilo­che. Morì per un’emorragia cerebrale il 13 febbraio 1962 o nel 1959, come sostie­ne il mio amico italo- scozzese Patrick Bur­nside, il maggiore esperto sulla perma­nenza di Hitler in Patagonia dopo il 1945 ». Questo catanese di 47 anni non è uno storico qualsiasi. Il professor Renzo De Fe­lice, considerato il massimo studioso del fascismo, era cugino di suo padre. «Mi considerava un nipote. L’ho frequentato dal 1982 fino alla morte, avvenuta nel 1996. Era in cura da anni per un’epatite C che aveva contratto in Israele. Andavo a trovarlo a Roma, nella sua casa di via Anto­nio Cesari, al Gianicolo, dove viveva con Attila, un boxer al quale era molto affezio­nato. Mi ha guidato nei miei studi». De Felice junior s’è laureato in storia contemporanea alla Cattolica di Milano, «con una tesi sulla scissione del Psi avve­nuta a Palazzo Barberini nel 1947 per ini­ziativa di Giusep­pe Saragat e sul ruolo dei servizi se­greti americani nel finanziare la nascita del Partito socialista dei lavo­ratori italiani, poi divenuto Psdi, che portò all’estro­missione del Pci dal governo e al­l’adesione dell’Ita­lia alla Nato». Era il 1990 e De Felice sognava una catte­dra universitaria. Ma già l’anno se­guente capì che non avrebbe mai potuto aspirare al­la stessa carriera accademica del­l’illustre parente: «Mi misi in contat­to col professor Mauro Canali, al­lievo di Renzo De Felice e docente al­l’U­niversità di Ca­merino. Stava in­dagando sul vero motivo che portò all’uccisione di Giacomo Matteotti. Il deputato socialista aveva scoperto le prove dello scandalo Sin­clair oil, una storiaccia di tangenti che coinvolgeva il fascismo e Casa Savoia. Io sono amico del barone Marco Carnazza, nipote di Gabriello Carnazza, originario di Catania, che fu ministro dei Lavori pub­blici dal 1922 al 1924 nel primo governo Mussolini. Fornii a Canali i documenti conservati nell’archivio del politico et­neo. Carnazza era infatti un imprenditore legatissimo alla holding statunitense Roc­kefeller- Morgan, collegata alla Sinclair oil. Nel giugno 1925, un anno dopo il delit­to Matteotti, la Morgan concesse all’Italia fascista l’apertura di una linea di credito da 50 milioni di dollari che fu fondamenta­le per la stabilizzazione della lira. Ebbene, consegnai al professor Canali il fascicolo originale dei Carnazza sull’affare Matteot­ti, pregandolo solo di citarmi. Ma lui nel vo­lume edito dal Mulino si guardò bene dal farlo. Lì tutto mi fu chiaro. Come ci si fa stra­da negli atenei, intendo. Quando ambivo al dottorato di ricerca,mi fu obiettato: “Lei legge troppi libri”.In Italia non hanno mai indagato sulla tangentopoli della cultura, su come si assegnano le cattedre». Per campare, De Felice ha conseguito nel 2008 all’Università di Siena una secon­da laurea, in medicina, ed è diventato un imprenditore nel ramo sanitario. Un vero peccato, perché il gene di famiglia per gli studi storici l’ha ereditato tutto intero,uni­tamente a una spiccata propensione inve­stigativa. «Quando studiavo alla Cattolica a Milano, frequentavo la biblioteca della Fondazione Feltrinelli, dove spesso in­contravo il senatore a vita Leo Valiani. Un giorno non resi­stetti, mi avvici­nai e gli chiesi a bruciapelo: mi perdoni, lei che è stato nel Comita­to di liberazione nazionale Alta Ita­lia, mi sa dire co­me fu ucciso il Du­ce? Valiani mi scrutò e poi rispo­se: “La morte di Mussolini è un se­greto che è meglio lasciar stare”. Sic­come insistevo per saperne di più, aggiunse una frase lapidaria: “Gli inglesi han­no s­uonato la mu­sica e il Pci è anda­to a tempo”, con ciò confermando implicitamente che nella fucila­zione del dittato­re a Dongo giocò un ruolo fonda­mentale la preoc­cupazi­one britan­nica di non far tra­pelare nulla circa il famoso carteggio Churchill-Mussolini, che il capo del fascismo portava con sé quando fu catturato dai partigiani e che sparì senza lasciare traccia.Valiani mi rac­comandò: “ Se lo tenga per sé”.Alla prima occasione lo riferii invece a Renzo De Feli­ce, che scosse la testa: “Non posso scriver­lo, perché non mi crederebbe nessuno”. Ma io non mi sono arreso e sono partito da lì per un’indagine sul carteggio Churchill-Mussolini che getta nuova luce anche sul­la famosa querela­sporta da Alcide De Ga­speri contro Giovannino Guareschi, diret­tore del Candido , quella costata all’inven­tore di don Camillo e Peppone 409 giorni di prigione. Ci lavoro da otto anni, presto pubblicherò un libro di 600 pagine». Che cosa le fa credere che Hitler sia scappato in Patagonia? «Io non delineo certezze. Pongo dubbi, che sono terreno fertile per coltivare il pen­siero. Prima di andare a San Carlos de Bari­loche, ero scettico sull’ipotesi della fuga del dittatore e di Eva Braun, sebbene il li­bro di sir Hugh Trevor-Roper, Gli ultimi giorni di Hitler , non mi avesse affatto con­vinto. È questo testo il piedistallo storio­grafico su cui è stata fondata la tesi del du­plice suicidio nel bunker di Berlino. Tre­vor- Roper lavorava per il Military Intelli­gence britannico e prendeva ordini dal primo ministro Winston Churchill,che vo­leva­dare a tutti i costi all’opinione pubbli­ca mondiale il cadavere del mostro. Per di­re della sua attendibilità, è lo stesso stori­co che nel 1983 autenticò i falsi diari attri­buiti al Führer e pubblicati dal settimana­le Stern . Trevor-Roper all’epoca dirigeva la casa editrice del Times di Londra». Il cadavere non era di Hitler? «Improbabile.La perizia necroscopica,ef­fettuata dai medici sovietici tra l’8 e l’11 maggio 1945 nella clinica di Buch, alla pe­riferia di Berlino, è un colossale falso stori­co- scientifico. Nella relazione finale il te­nente colonnello Faust Chkaravski e i suoi tre assistenti annotarono, di proposito, al­cuni errori grossolani, forse per salvarsi la faccia davanti alla storia. Due le particola­rità anatomiche del tutto fasulle attribuite alla salma del dittatore: un dente in so­vrannumero e un testicolo mancante». Soffriva di monorchidismo? «Questo hanno voluto far credere. Ma i re­ferti di tre medici tedeschi che avevano vi­sitato Hitler completamente nudo negli ultimi 12 anni attestavano che i suoi orga­ni genitali erano normali. Quanto alla pre­sen­za di un quindicesimo dente nella ma­scella inferiore, essa contrasta con la pre­cisa testimonianza del dentista persona­le del Führer, il dottor Hugo Blaschke, ar­restato dagli americani il 28 maggio 1945. E non poteva trattarsi di un errore di tradu­zione, perché il numero 15 figurava in ca­ratteri latini». Come si arrivò a quella che lei ritiene una messinscena? «Non solo io. Il 15 giugno 1945 il generale Dwight Eisenhower, nel corso di una con­ferenza stampa presso l’hotel Raphael a Parigi, dichiarò: “Le ricerche sovietiche non hanno trovato tracce di resti di Hitler, né la prova positiva della sua morte”. Quando alla Conferenza di Potsdam, sempre nel 1945, il presidente americano Harry Truman chiese a Stalin se Hitler fos­se morto, il dittatore sovietico rispose sen­za mezzi termini: “No”. E aggiunse che i gerarchi nazisti erano fuggiti in sommer­gibile in Spagna o in Argentina. Il segreta­rio di Stato, James Byrnes, per accertarsi che Truman non avesse capito male, do­po il brindisi ufficiale prese in disparte Sta­lin, il quale gli confermò la risposta. La cir­costanza venne riferita da Truman in una lettera alla moglie e da Byrnes nel suo li­bro di memorie Speaking Frankly . Anche il capo del collegio difensivo degli Stati Uniti al processo di Norimberga, Thomas Dodd,ammise: “Nessuno può dire che Hi­tler sia morto”». Diamo per scontata la messinscena. «Fra i cadaveri trovati nella Cancelleria del Reich i medici russi scelsero i due più carbonizzati, li contrassegnarono con i numeri 12 e 13 e dissero che erano quelli di Hitler e della Braun. Il primo misurava 1,65 metri e il secondo 1,50. Ma Hitler da vivo era alto 1,73 e la sua amante 1,63. Dif­ficile ipotizzare che il fuoco li avesse ac­corciati in modo così considerevole. Inol­tre le radiografie eseguite su Hitler nel 1944 dal dottor Erwin Giesing non colli­mano con le immagini ai raggi X mostrate dai sovietici. Non basta: i cadaveri, pur rin­venuti nello stesso luogo, risultavano bru­ciati in modo estremamente diverso e ac­canto a essi c’erano le carcasse di due ca­ni che però avevano conservato integra la loro pelliccia. Com’è possibile?». Tutte qui le prove del falso storico? «I testimoni tede­schi presenti nel bunker furono trattenuti chi per 10 anni, chi per 15 anni e in questo lasso di tempo fu­rono ripetutamen­te interrogati. Per­ché? Se la tesi di Trevor-Roper fos­se stata vera, i rus­si non avrebbero continuato a cer­care prove sulla morte di Hitler». Che fine fecero i cadaveri dopo l’autopsia? «Cremati. Le cene­ri furono disper­se, come riportato a Mosca il 3 giu­gno 1945 da un rapporto del con­tro­spionaggio del­l’Armata rossa. Re­sta una porzione di calotta cranica attribuita a Hitler e conservata pres­so l’Archiv­io di Sta­to della Federazio­ne russa. L’analisi effettuata dal professor Nick Bellantoni, archeologo dell’Università del Connecti­cut specializzato in ossa umane, ha dimo­strato con l’esame del Dna come il reper­to appartenga in realtà a un cranio femmi­nile, che però non c’entra nulla neppure con Eva Braun. Rimarrebbe la dentatura, custodita nell’archivio della Lubianka. Ma le autorità russe hanno posto il veto sull’analisi genetica. Il mio amico Patrick Burnside, invitato a Mosca due anni orso­no, chiese in diretta tv di poter confronta­re il Dna mitocondriale della presunta mandibola di Hitler col Dna dei resti di Paula Hitler, sorella di Adolf, morta il 1˚ giugno 1960 e sepolta a Berchtesgaden, e di Klara Pölzl, la madre del dittatore, dece­duta a Linz il 21 dicembre 1907. Burnside si disse pronto a pagare lui stesso il test per l’analisi comparativa dei vari Dna. Il governo russo non gli ha mai risposto». Mi parli di questo Burnside e di come siete diventati amici. «È un imprenditore e un saggista investi­gativo, nato nel 1948 a Genova, che da gio­vane ha vissuto nel Sud Tirolo. Oggi abita a San Carlos de Bariloche, dove c’è anco­ra il Club Andino, un ritrovo di tedeschi. L’ho conosciuto durante il mio viaggio in Argenti­na. A presentar­melo è stato Jörg­ Dieter Priebke, proprietario di una clinica veteri­naria ». Parente del no­vantottenne Erich, agli arre­sti domiciliari a Roma per il massacro delle Ardeatine? «Figlio. Ma io col padre ho avuto so­lo un contatto te­lefonico piutto­sto freddo». Continui. «Burnside in Alto Adige conobbe padre Cornelius Sicher, fino al 1970 parroco di Monclassico, vici­no al Passo della Mendola. Duran­te la prima guerra mondiale, questo prete aveva stret­to amicizia con l’ammiraglio Wilhelm Canaris,allora co­mandante di un sommergibile U-boot di stanza a Cattaro, provincia dalmata del­l’Impero austro-ungarico. Canaris, che aveva salvato la vita a padre Sicher, con l’avvento del nazismo era stato nominato capo dell’Abwehr,il servizio segreto mili­tare tedesco. Fu strangolato dalla Gesta­po­per il suo coinvolgimento nel fallito at­tentato del 1944 a Hitler. I due continuaro­no a vedersi fino al 1943. E durante uno dei loro incontri Canaris confidò al sacer­dote: “ Mi ero preparato una via di fuga ver­so la Patagonia. Ma penso che ne usufrui­rà qualcun altro”. Si riferiva a Hitler». Che ne sapeva Canaris della Patago­nia? «Nel 1914 aveva combattuto nella batta­glia delle Falkland contro la Royal Navy britannica. Catturato dagli inglesi, era riu­scito a evadere da un campo di prigionia in Cile e aveva attraversato a piedi le An­de, raggiungendo l’Argentina, da dove s’imbarcò per tornare in Germania. Fu durante quella fuga che s’imbatté nel­l’Estancia San Ramon, di proprietà del ba­rone tedesco Ludwig von Bülow. E decise che poteva diventare il covo ideale in cui sparire dal mon­do ». Lei l’ha visitata. «Sì, spacciando­mi per un agente immobiliare. È un’oasi solitaria, ancora gestita da una fondazione svizzero-tedesca con gli stessi crite­ri autarchici degli anni Venti, quan­do Chr­istian Lahu­sen ne fece una fio­rente azienda per la produzione di lana, pellami, frut­ta, legname, cere­ali e tannino». Erich Priebke sapeva che il Führer aveva trovato rifugio a una quaranti­na di chilome­tri da San Car­los de Barilo­che? «Secondo me, no. E neppure Adolf Eichmann lo sape­va. Ogni crimina­le nazista poteva contare su coperture a compartimenti sta­gni. Il figlio di Priebke mi ha raccontato d’aver lavorato alla Mercedes Benz di Bue­nos Aires, dove aveva come capo proprio Eichmann.Ma lui scoprì la sua vera identi­tà solo dop­o che gli agenti del Mossad rapi­rono l’ex comandante delle Ss, trasferen­dolo in Israele, dove fu processato e impic­cato. Senz’altro erano a conoscenza della presenza di Hitler a Bariloche altri due cri­minali nazisti fuggiti dal bunker berlinese e cioè Heinrich Müller, comandante del­la Gestapo, e Martin Bormann, segretario personale del Führer, il quale, stando a un rapporto della Cia, era diventato fin dal 1943 una spia del Kgb sovietico». Addirittura. «Ha mai sentito parlare dell’Operazione James Bond?». Vagamente. «Fu un commando dell’intelligence nava­le britannica agli ordini di Ian Fleming, che nel 1952 diventerà famoso come auto­re dei romanzi dell’agente 007, a trarre in salvo Bormann dalle macerie fumanti di Berlino. L’operazione venne alla luce so­lo nel 1996 e finora nessuna autorità del Regno Unito l’ha mai smentita.Bormann sarebbe stato pro­tet­to in quanto de­tentore dei conti bancari cifrati del­le vittime del nazi­smo in Europa nonché delle in­formazioni sul­l’avanzatissima tecnologia missili­stica del Terzo Rei­ch. I rapporti di Cia e Fbi in mio possesso dimo­strano che John Edgar Hoover, il potente capo del Federal bureau of investigation, sguinzagliò i suoi agenti in Sudame­rica perché non aveva creduto al­la farsa del suici­dio di Hitler e del falò wagneriano della salma nel cortile della Can­celleria ». (Mi mo­stra un’informati­va dell’Fbi, data­ta 21 settembre 1945, che parla dell’aiuto fornito da funzionari argentini a Hitler, sbarcato da un sottomarino e nascostosi ai piedi del­le Ande). «In una nota “secret classifica­tion” della Cia, inviata dalla Colombia il 3 ottobre 1955, un agente scriveva: “Al­doph Hitler is still alive”, è ancora vivo». Hitler arrivò fin laggiù in aereo? «No. E posso dirlo perché il mio amico Burnside è figlio di uno degli ufficiali pilo­ti inglobati nella Luftwaffe che dal 28 al 30 aprile 1945 assicurarono un corridoio ae­reo libero fra Berlino e la Danimarca per la fuga di Hitler. Il 28 aprile 1945 non vi fu alcun matrimonio nel bunker tra Adolf ed Eva, bensì la partenza su uno Junkers Ju 52, oppure un Arado 234 B, dalla pista di Hohenzollerndamm, con atterraggio nel­la German imperial Zeppelin base di Tønder, in territorio danese. Da quel pun­to in avanti si fanno due ipotesi: la parten­za in sommergibile verso il Sudamerica oppure un volo verso Reus, base militare spagnola nei pressi di Barcellona, e poi da Reus alla volta delle Isole Canarie, con so­sta a Morón de la Frontera, vicino a Sivi­glia, per rifornirsi di carburante. È il 29 aprile 1945. Con Hitler vi sono la sua amante e il cognato Hermann Fegelein, che aveva sposato Gretl Braun, sorella di Eva, sebbene la storiografia ufficiale lo dia per fucilato su ordine del Führer. E per­sino la fedele cagna Blondi. All’arrivo nel­la base nazista di Villa Winter, a Fuerte­ventura, vi era ad attenderli un U-boot per il trasferimento in Patagonia. Il som­mergibile, anzi l’elettrosommergibile, su cui si sarebbe imbarcato Hitler apparte­neva alla classe XXI, dotato di attrezzatu­re straordinarie. La presenza in Sudame­rica di almeno tre sommergibili tedeschi è avvalorata dal fatto che il 10 luglio 1945 un sommergibile U-530 si consegnò in una base navale di Mar del Plata». Ma quali prove ha per supportare que­sta rocambolesca ricostruzione? «Le mie fonti sono varie. Tra esse vi è Jeff Kristenssen, alias capitano Manuel Mo­nasterio, che cita Heinrich Bethe, alias Pa­blo Glocknick, alias Juan Paulovsky, un uf­ficiale dell’intelligence tedesca di stanza in Argentina sin dal 1939, il quale insieme col medico personale del Führer, il dottor Otto Lehmann, fu accanto al dittatore fi­no all’ultimo. Secondo Bethe, Hitler sa­rebbe morto alle ore 15 del 13 febbraio 1962 in una località imprecisata della Pa­tagonia argentina. Era entrato in coma tre ore prima. Burnside non è di questo avvi­so. A Bariloche ho interrogato anche Abel Basti, giornalista-investigativo, il quale mi ha confermato che nel 1945, tra luglio e agosto, Hitler, accompagnato da non più di sette persone, inclusa Eva Braun, giunse a bordo di un sommergibile tede­sco, scortato da altri due, nella baia di Ca­leta de Los Loros. Infine Burnside mi ha ri­velato che a Bu­enos Aires riuscì ad avvici­nare il portavoce di Goebbels nel periodo d’oro del Terzo Reich,Wilfred von Owen, deceduto nella capitale argentina a 96 an­ni, nel 2008,il quale gli confermò l’appro­do in-Argentina di cinque sommergibili te­deschi dopo la fine della guerra». Del matrimonio di Hitler che si sa? «Hitler ed Eva Braun si sarebbero sposati con rito cattolico nella cappella del­l’Estancia San Ramon dopo l’agosto del 1945. Il matrimonio nel bunker di Berli­no, avvenuto il 29 aprile 1945, avrebbe in­vece riguardato i sosia di Hitler e della Braun: Gustav Weber, una delle due con­trofigure delle quali il dittatore dispone­va, e una donna sconosciuta». Il Führer ebbe figli? «Il primo fu Helmut,nato nel 1935,ufficial­mente da Joseph Goebbels e Magda Riet­schel, moglie del ministro della Propagan­da nazista. In realtà Helmut sarebbe stato il frutto di un tradimento coniugale consu­mato da Magda con Hitler durante una va­canza sul Baltico. Prima di suicidar­si, i coniugi Goeb­bels lo avvelenaro­no insieme con le sorelline Helga, 12 anni, Hilde, 11, Holde, 8, Hedde, 6, e Heidi, 4. Poi ci sarebbe Gisela Hoser, o Heuser, nata nel 1937 dal­l’a­tleta tedesca Ot­tilie Fleischer, det­ta Tilly: Hitler mi­se incinta la Flei­scher dopo le Olimpiadi berline­si del 1936. La fon­te di questa noti­zia è Bethe. Il ditta­tore avrebbe avu­to anche una se­conda figlia, Ursu­la, detta Uschi, na­ta ufficialmente a Capodanno del 1939 in Italia, a Sanremo, da Eva Braun. La gravi­danza fu occulta­ta­perché Hitler ri­teneva che il suo ascendente sul po­polo tedesco sarebbe scemato qualora non si fosse mostrato totalmente dedito ai destini della Germania. Uschi arrivò al­l’Estancia San Ramon nel settembre 1945, proveniente dalla Spagna, via Bue­nos Aires, tramite Hermann Fegelein. Una terza figlia di Hitler e della Braun sa­rebbe nata morta nel 1943. August Schull­ten, ginecologo di Monaco di Baviera che aveva seguito la gravidanza, perì in un in­cidente d’auto quello stesso anno. Nel marzo 1945 l’amante di Hitler concepì un altro figlio. Era già incinta durante la fuga verso la Patagonia. Burnside mi ha confer­mato che in Argentina sarebbero vissute due figlie di Hitler. Una di loro durante gli anni della dittatura del generale Jorge Vi­dela si presentò al consolato tedesco di Buenos Aires per chiedere d’essere aiuta­ta a espatriare in Sudafrica. Al funziona­rio che le aveva spiegato di non poter fare nulla per lei, disse: “Ma io sono la figlia di Hitler”». Eva Braun che fine fece? «Dalla fine degli anni Sessanta se ne per­dono le tracce». Perché i suoi studi si sono concentrati proprio sulla figura del Führer? «Perché la ritengo centrale nella geopoliti­ca mondiale. La Germania aveva una vi­sione di grande respiro, basta visitare Ber­lino per rendersene conto. Il lascito peg­giore della Resistenza è stato quello d’aver irrimediabilmente condannato l’Italia a una dimensione provinciale del­la storia. Siamo ancora fermi alle catego­rie fascismo e antifascismo, mentre nella seconda guerra mondiale erano in gioco interessi che travalicavano l’aspetto ideo­logico. Crediamo che la Gran Bretagna sia intervenuta nel conflitto per ridare la liber­tà all’Europa, senza renderci conto che per tre secoli l’unica preoccupazione del Regno Unito è stata la salvaguardia delle rotte marittime verso le colonie da cui im­portava le merci che venivano rivendute al mondo intero a prezzi quadruplicati». Ma lei è un nostalgico? «No. Destra e sinistra dal mio punto di vi­sta non hanno alcun significato, le consi­dero categorie vuote. Per me il fascismo fu un fenomeno di sinistra, totalitario, un’eresia comunista. L’unico Pci che ab­biamo avuto in Italia è stato il Partito fasci­sta repubblicano durante la Rsi. Vedo un filo rosso che lega il giacobinismo della ri­voluzione francese sia al comunismo che al fascismo e al nazionalsocialismo». Allora come si definirebbe? «Uno studioso solitario chiuso nella sua utopia incomunicabile. Dal greco ou tópos , nonluogo. Quindi uno storico fuori luogo». Da dove parte uno storico? «Dai documenti. Che però, da soli, non parlano mai. Bisogna essere ca­paci di farli parla­re. E dalle testimo­nianze orali. Io so­no andato a cer­carle a spese mie. La rivoluzione cul­turale in Italia co­mincerà quando i professori univer­sitari apriranno una partita Iva per rilasciare le fatture e i loro stu­di stori­ci se li pub­blicheranno e se li venderanno da so­li, online o su car­ta, come faccio io. Purtroppo la civil­tà dell’immagine ha affossato la ri­cerca delle fonti: tu puoi scrivere chilometri di fatti, come accadde du­rante la prima guerra del Golfo, poi arriva il filmato di un cormorano inca­tr­amato di petrolio e li spazza via in un ba­leno. La Tv è una gomma: cancella tutto. Stimola l’emotività, non la razionalità». Ma che importanza ha stabilire se Hit­ler si suicidò oppure no? A quest’ora è comunque morto. «Non saprei. Però attesterebbe ciò che è sotto gli occhi di tutti, credo: sulla secon­da guerra mondiale, più andiamo avanti e meno ne sappiamo».