Giorgio Fontana, la Lettura (Corriere della Sera) 20/05/2012, 20 maggio 2012
L’IMPORTANTE E’ VINCERE - L’
intervista a Fabiano Caruana comincia già come una piccola partita a scacchi: apertura e difesa. Quando contatto il padre — suo sostegno morale, primo fan da sempre, e curatore delle relazioni con la stampa — vengo informato che Fabiano è al momento impegnato in un torneo, e sarà disponibile solo dopo un paio di settimane: prima non c’è modo, la concentrazione durante l’attività agonistica è fondamentale. Del resto, come mi spiegherà Caruana stesso in seguito, la sua esistenza è scandita da ritmi molto precisi: come la maggioranza dei colleghi, vive di fatto come un atleta. Perché per diventare un campione di scacchi, il binomio genio e sregolatezza non funziona più (se mai ha funzionato): la concorrenza è agguerrita e oggi più che mai il gioco vive di aspetti altamente professionali.
«Il tempo che trascorro a casa è molto poco», ammette, «dato che sono impegnato per oltre centottanta giorni all’anno in tornei ed esercitazioni. Ad esempio: quest’anno, dal primo gennaio a oggi, sono stato a casa solo quaranta giorni — compresi i viaggi per andare e tornare. Quindi ho davvero poco tempo. Ma quando ne ho, lo uso per riposarmi e recuperare le forze. In una giornata tipo, leggo, faccio esercizi in palestra, guardo un film, seguo i tornei di scacchi e mi tengo informato su Internet». E il tempo libero? «Be’, l’unico tempo libero che ho è quando sono in vacanza, ossia dieci o quindici giorni all’anno. E non è nemmeno sempre così: l’anno scorso non ho fatto vacanze. Quest’anno, invece, andrò a trovare mio fratello e la sua famiglia ad agosto».
Ecco Fabiano Caruana: vent’anni non ancora compiuti, capelli ricci, sorriso timido dietro gli occhiali, nato a Miami il 30 luglio 1992 da mamma lucana e padre italoamericano. E al momento, all’ottavo posto nella graduatoria mondiale dei giocatori di scacchi.
Detto in una parola molto semplice, Caruana è un fenomeno. Per precocità e potenzialità, un talento simile ricorda quello di Bobby Fischer, l’eroe americano che sconfisse Spassky nel 1972 in un match che riproduceva in piccolo tutta la tensione della guerra fredda. E proprio come Fischer, Caruana è cresciuto nel quartiere di Park Slope a Brooklyn, dove ha imparato a giocare all’età di quattro anni. Da allora la sua progressione è stata continua e senza soste, supportata da una famiglia che ha sempre creduto in lui. In un’intervista concessa al sito Chessbase.com nel 2003, il padre di Fabiano disse che per consentire al figlio undicenne di studiare gli scacchi aveva pianificato un budget di circa 50 mila dollari all’anno (necessari per pagare i viaggi e soprattutto gli allenatori: in ordine cronologico Bruce Pandolfini, Miron Sher, Boris Zlotnik e Alexander Chernin). Una bella somma, ma a quanto pare Luigi Caruana poteva contare anche sull’aiuto di uno sponsor — che, bisogna ammetterlo, aveva decisamente visto giusto.
A quattordici anni Fabiano è diventato il più giovane in Italia e America a ottenere il titolo di Grande maestro (la massima categoria degli scacchi). In seguito ha ottenuto performance straordinarie al torneo di Corus B del 2009, al campionato italiano del 2010 e a Nuova Delhi nel 2011. Raccogliendo ogni anno un aumento significativo del suo punteggio ELO (il sistema di ranking degli scacchisti, basato sui risultati ottenuti di partita in partita), fino ad arrivare lì, nella top ten. Fra i più forti di tutti. In mezzo, una vita da giramondo — Stati Uniti, Spagna, Ungheria, e infine la Svizzera — e un iter formativo ben poco classico. L’ultimo anno in cui ha frequentato formalmente la scuola è stato il 2004 a Brooklyn, più o meno con il termine delle scuole medie: da allora in poi è stata la madre, insegnante, a occuparsi di lui tramite libri e corsi online.
Ma il caso di Caruana è interessante anche per un altro motivo: fra i due poli della propria identità ha scelto quello che per molti sarebbe il meno prevedibile. Oggi infatti vive a Lugano ma gioca per i nostri colori: fra i tanti cervelli in fuga, è un cervello rientrato. Un cervello di primissima qualità. «Passare alla Federazione italiana è stata per me una decisione del tutto naturale — racconta — sono cittadino italiano per nascita, i miei genitori sono entrambi di discendenza italiana e io vivo in Europa. Inoltre, proprio nel 2005, mi sono reso conto di avere raggiunto un livello in cui potevo dare un contributo reale allo sviluppo degli scacchi nel nostro Paese, anche a livello internazionale. A questo proposito, gli scacchi stanno attraversando una fase di rapida evoluzione in Italia».
Questa la storia. E quello che giace dietro? Caruana è una figura riservata. Le sue risposte sono nitide, ma anche tanto concise da essere sfuggenti: in generale trasmettono un grande pudore. E certo, a vederlo così, sembra la figura ideale per uno sport tutto fondato sulla logica. Il problema è che il gioco cui Fabiano ha dedicato la sua vita non è soltanto questo. E non è soltanto un gioco.
Sì, visto dal di fuori il mondo delle sessantaquattro caselle può sembrare un semplice passatempo da nerd, o un universo di gelidi calcolatori: ma sotto la superficie crepita il magma incandescente. Anzi, mettiamola così: gli scacchi sono (anche) dramma. Sono dramma perché non c’è altra invenzione umana che nasconda così bene la paura e il desiderio sotto i panni di un gioco: la crudeltà di avere regole tanto precise legate a un’immensa quantità di scelte; il silenzio pervaso da un’ansia fragilissima; la terribile arte del calcolo che coincide quasi con il dono di una razionale profezia (immaginare la posizione cinque o sei o dieci mosse in avanti); e soprattutto la distanza minima che separa la più grande creazione artistica dal totale fallimento, il trionfo dal tonfo — una mossa dimenticata nei meandri di una variante, un attimo di distrazione, un fatale, minuscolo errore.
No, non è solo un gioco.
Certo non è il caso di generalizzare. Gli scacchi possono essere anche un normale passatempo, e possiedono senz’altro un valore pedagogico. Stimolano l’attenzione e la concentrazione, e di recente il Parlamento europeo si è proclamato a favore di un programma «Scacchi a scuola», per introdurre il gioco nell’ambito dell’istruzione.
Eppure c’è sempre qualcosa che non torna, un leitmotiv che rimanda più al cuore che all’intelletto. Non è un caso se il rapporto fra letteratura e scacchi sia sempre percorso dal tema della follia, o dell’isolamento: da Nabokov a Maurensig passando per Stefan Zweig, i giocatori sono quasi sempre condannati a una fine terribile. Del resto i casi reali non mancavano: Wilhelm Steinitz, il primo campione del mondo, morì nel 1900 senza un soldo e malato di mente al Manhattan Hospital di New York. Aleksandr Alekhine, il grande campione russo, condusse un’esistenza segnata dall’alcolismo e morì malinconicamente solo, di fianco a una scacchiera. Il geniale Paul Morphy finì i suoi giorni corroso dalla depressione e stroncato da una sincope.
I pericoli dell’astrazione: come per la logica e la matematica, l’inesauribile bellezza degli scacchi è segnata anche dalla loro immensa complessità: il trionfo della mente sulla materia richiede un prezzo da pagare, e non ha nulla di pacatamente razionale. Anzi, è attraversato da una carica fortissima di adrenalina — di desideri, bisogni, dolore e passione.
Ogni giocatore, quando siede di fronte a un avversario, sente almeno in minima parte il desiderio di distruggerlo, come se fossero i soli due uomini rimasti sulla terra e combattessero per rimanere l’ultimo, per una mera questione di principio.
Così una partita incarna la più netta e primitiva delle distinzioni: bianco contro nero, senza sfumature di sorta, nemici assoluti. (Marcel Duchamp, grande giocatore, chiuse la faccenda definendo gli scacchi «lo sport più violento che esista»).
Eppure, proprio per questo, gli scacchi sono anche splendidamente meritocratici. Durante una partita, la fortuna in senso stretto non conta nulla. Così come a nessuno importa chi sei, da dove vieni, come ti chiami. Certo, nel mondo dei professionisti esistono comunque le lobby e le esclusioni, ma di fondo tutto ciò che ti viene richiesto è di dimostrare la tua forza sconfiggendo chi hai davanti. Questa promessa di equità, in un mondo sottoposto al caso e alla prevaricazione, è molto affascinante: anche un ragazzino può battere un grande campione, se si dimostra più bravo di lui. E a volte può accadere davvero che il ragazzino non smetta di vincere e diventi campione a sua volta. Vedi alla voce «Caruana», appunto.
Ecco, questo è forse l’aspetto più interessante della storia di Fabiano: a differenza di altri bambini prodigio non ha mai sciupato il proprio immenso talento, né è stato mai sopraffatto dalla paura — o dalla solitudine — che un dono del genere poteva recare. Si è evoluto, è cresciuto, e ha mantenuto una promessa coltivata nel tempo. In che modo?
A quanto pare, combinando un solido pragmatismo con la limpida percezione delle proprie capacità: «Sì, devo ammettere che la mia crescita è stata impressionante», spiega: «Oggi sono il più giovane nella top ten mondiale. Ma questo non mi spaventa. Non è un risultato ottenuto dal niente. Ho lavorato sodo per arrivare fin qui, dedicando tutte le mie energie a perseguire un unico obiettivo: diventare un giocatore di livello mondiale. A spaventarmi sarebbe invece la mancanza di progressi: sinceramente, non credo che potrei impegnarmi più di così né inventarmi niente di diverso da quello che faccio ogni giorno. Penso che il mio gioco continuerà a migliorare e, quindi, anche la mia posizione in classifica».
La stessa serenità permea il suo rapporto con i maestri del passato: «Ho un grande rispetto verso di loro, e ho studiato i loro scritti e le loro partite. Ma trovo in me stesso la mia personale fonte d’ispirazione», ammette senza falsa modestia. Ma di nuovo, questa constatazione non deve ingannare. Così come non deve ingannare il mondo apparentemente un po’ freddo dello scacchismo professionale, popolato solo a prima vista da ieratici «maestri dell’intelletto». Per raggiungere simili vette ci vuole qualcosa di più che l’allenamento o lo studio, e persino qualcosa di più che una capacità innata: ci vuole devozione.
Scriveva Zweig nella sua celebre Novella degli scacchi: «Non ci si rende già colpevoli di una limitazione offensiva, nel chiamare gli scacchi un gioco? Non è anche una scienza, un’arte, oscillante fra queste due categorie come la bara di Maometto fra cielo e terra, straordinario legame fra tutte le coppie di opposti?».
La domanda va rilanciata: come bilanciare oggi tutte queste esigenze? Come tenere sospesa in aria la «bara di Maometto» di cui parlava Stefan Zweig, rimanendo un professionista del XXI secolo (che deve ottenere risultati per guadagnarsi da vivere), ma anche un artista e forse persino uno scienziato?
La risposta di Caruana può sembrare elementare, ma in realtà lancia un ponte verso il bimbo che voleva diventare campione con tutte le proprie forze, e vendica il più grande dei sogni nel nome della medesima, irredenta passione. Quando si siede alla scacchiera, dice, «il mio obiettivo è vincere a ogni costo, non mi interessa altro. Ma durante una partita non penso al risultato. Mi concentro su quello che accade di fronte a me sulla scacchiera, passo dopo passo: faccio grande affidamento sul mio intuito e mi lascio assorbire completamente dal gioco. Condivido il fatto che gli scacchi siano un’arte, che abbiano importanti risvolti psicologici e che siano una lotta per la vittoria. Da parte mia, cerco di tenere in equilibrio tutti questi aspetti, cercando di trovare il gioco migliore possibile. E il gioco migliore è quello che punta a vincere. È questo che faccio», insiste, con disarmante semplicità. «Gioco per vincere».
Come chiunque, in fondo. Con la stessa determinazione. Perché no, non è solo un gioco: non lo è mai stato.
Giorgio Fontana