Massimo Mucchetti, la Lettura (Corriere della Sera) 20/05/2012, 20 maggio 2012
I MERCATI? PER CAFFE’ IN MANO A «PRATICONI» E «INCAPPUCCIATI»
I MERCATI? PER CAFFE’ IN MANO A «PRATICONI» E «INCAPPUCCIATI» - Chissà che cosa direbbe il Maestro dei suoi due allievi che sono arrivati in cima alla piramide del Potere ai tempi della Grande Crisi? La domanda, diciamolo, non è originale. Ricorre spesso quando il successore gode della stima del predecessore e la ricambia. Tanto più ricorre se, lungi dall’essere afflitto dal complesso di Crono, chi c’era prima aveva allevato con cura specifica chi sarebbe venuto dopo. E tuttavia rispondere oggi a questa domanda poco originale può aprire varchi interessanti tra la fedeltà al Maestro e i libertinaggi innovatori, quando il Maestro sia l’economista Federico Caffè e i libertini (reali? presunti?) rispondano ai nomi di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, e Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Varchi interessanti e potenzialmente originali, perché il tramonto dell’economia del debito rimescola le carte e i ruoli. Chi sarà il libertino erudito che prepara il nuovo Illuminismo: Ignazio, Mario o Federico?
Tra l’inquilino dell’ Eurotower, che dichiara insostenibile il modello sociale europeo in un’intervista al «Wall Street Journal», e il suo antico professore della Sapienza, che pubblica nel 1986 In difesa del welfare state (Rosenberg & Sellier), la differenza è enorme. Eppure, era stato proprio Caffè, keynesiano europeo che scriveva sul «Messaggero» ma anche sul «Manifesto», a mandare a Boston il suo allievo più caro, Mario Draghi, per contaminarsi con il keynesismo americaneggiante di Franco Modigliani, teorico dei fondi pensione privati.
D’altra parte, il pensiero di Caffè non è finito. È solo interrotto, sospeso, da quando, il 15 aprile 1987, l’economista lasciò la sua casa romana di Monte Mario senza che nessuno riuscisse più a trovarne traccia. Se quel testo non è propriamente L’ultima lezione, come Ermanno Rea ha intitolato il suo bel libro sulla scomparsa del professore (Einaudi), esso rimane pur sempre il testamento politico e spirituale. E costituisce il termine di paragone nella giornata in ricordo di Caffè, che si terrà giovedì 24 maggio al dipartimento di Economia e diritto della Sapienza. Un appuntamento che avrà il suo doppio clou nel pomeriggio con gli interventi di Visco e di Draghi.
Riformista radicale, condannato perciò alla solitudine, Federico Caffè considera i mercati finanziari perfettamente oligopolistici. «Una connotazione pittoresca — scrive sul "Manifesto" nel 1981 -— è la considerazione silenziosa della Borsa come espressione tipica di un "mercato" il più vicino possibile all’idea concorrenziale e che, in quanto tale, concorrerebbe alla allocazione efficiente delle risorse finanziarie. La grezza arroganza dei praticoni farà sempre premio sulla finezza dell’analisi, della quale essi sono, del resto, del tutto inconsapevoli». Quante volte abbiamo dovuto ascoltare l’esaltazione della Borsa, tanto dalla destra liberista quanto dalla sinistra blairiana, senza mai un riferimento alla realtà, pur registrata dalle statistiche della Consob, di una Borsa che spreme dividendi e non fa aumenti di capitale. Quanta impotenza abbiamo visto nei banchieri centrali europei e quanta complicità nei loro colleghi anglosassoni, di fronte alla straordinaria concentrazione della finanza derivata nelle mani delle cinque maggiori banche americane più una inglese e una tedesca.
Ma i mercati finanziari sono anche opachi. Li manipolano, dice Caffè, «gli incappucciati: operatori ignoti, che dall’interno o dall’esterno erano in grado di avere un’influenza non chiara e non verificabile su decisioni di rilevante importanza finanziaria o sull’andamento della Borsa». Viene in mente la commissione sugli hedge fund, istituita dal Financial Stability Forum il 14 aprile 1999, all’indomani dal crac del Long Term Capital Management, il fondo dei Nobel che non poteva fallire. Quella commissione non riuscì nemmeno a definire che cosa fossero gli hedge fund a causa dei cavilli del suo stesso presidente Howard Davies, che allora guidava la Fsa, la Consob britannica, preoccupato di dover ricomprendere nella discussa famiglia le banche d’investimento. Si parlò allora di istituzioni fortemente indebitate e si raccomandò alle banche creditrici di vigilare, ancorché proprio da loro promanasse quel sistema bancario ombra, tuttora intoccabile. In quegli stessi anni, l’America clintoniana aboliva il Glass Steagall Act. Una decisione preparata dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale a fine anni Ottanta e dal superamento della banca public utility a favore della banca impresa votata al massimo profitto, e perciò dedita al credito commerciale e all’investimento finanziario, che l’Unione Europea aveva elaborato (e l’Italia recepito nel Testo unico bancario del 1993).
Quella riforma riportava in auge la filosofia dei money trust di Wall Street prima del 1929. «Il nuovo liberismo è vecchio», scrive Caffè nel 1985. E poi allarga il discorso dalla finanza alla previdenza con la parabola della pertica. Che vale la pena di ricordare.
In un Paese africano, vedove e inabili venivano soccorsi suddividendo le risorse della comunità, che aveva perciò bisogno di stabilità demografica. Quando questa rischiava di venir meno, gli inabili venivano portati sulla riva del fiume e spinti verso il gorgo, con lunghe pertiche. Leggendo le analisi del Fondo monetario internazionale sulla spesa pensionistica italiana, Caffè consiglia di non dimenticare l’alternativa delle pertiche. «Essa susciterebbe tuttavia proteste indignate da parte di coloro che affermano di non volere la morte dei vegliardi, bensì che si forniscano di pensioni integrative». Di cui tanti si riempiono la bocca senza analizzare il rischio-rendimento per le persone e il Paese né il rapporto con il reddito disponibile delle persone. Ma che cos’è mai la vita davanti a un’ideologia che, negando di esser tale, esalta se stessa e i più potenti tra gli interessi corporati?
Massimo Mucchetti