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 2012  maggio 20 Domenica calendario

I PROFESSIONISTI DELLA CRISI - I

l momento è arrivato un pomeriggio a Villa d’Este, mentre ascoltavo una conferenza stampa di Nouriel Roubini. Roubini lo conosciamo tutti. È l’economista che nel 2006 ebbe il coraggio di salire su un palco all’assemblea del Fondo monetario internazionale e dire che gli Stati Uniti sarebbero finiti come un Paese sudamericano.
Troppi debiti, era la sua tesi. Allora sembrava impensabile, ma agli incontri dell’Fmi a Washington il professore di origine iraniana fece una tirata di mezz’ora, un elenco di sventure offerte alla platea in un tono piatto, come una preghiera ripetuta già mille volte. Al termine, mentre Roubini tornava al suo posto, il moderatore notò che «qui abbiamo bisogno di bere qualcosa di forte» e il pubblico rise. Due anni dopo, molti in quella sala di banchieri e dignitari avrebbero avuto bisogno di bere qualcosa di forte.
È questo il coraggio che ha fatto di Nouriel Roubini una rockstar. Probabilmente la prima nel mondo degli economisti. Ma quel pomeriggio a Villa d’Este, la grande crisi esplosa da tempo e Roubini ormai mutato in un marchio di successo dall’industria globale dei media, è accaduto qualcosa di diverso. È lì che finalmente ho capito. Bisognava sentirlo parlare. La ripresa? «Quando l’aereo rallenta cade». Le Borse che recuperano? «Il rimbalzo di un gatto morto». Come vede il dollaro? «La camicia meno sudicia». L’oro è un bene rifugio? «A quel punto di paranoia sullo squagliamento del sistema, meglio allora cibo in scatola, armi, munizioni e chiudersi in casa».
Veniva voglia di avere Umberto Eco fra i cronisti per fare un esame organolettico del linguaggio. Roubini non stava svolgendo un’analisi, o semplicemente un discorso. Stava twittando. Non che avesse un computer o uno smartphone nelle mani. Ma non pronunciava nessun concetto che non potesse rientrare in un tweet, 140 caratteri su un social network. Tutto ciò che diceva poteva essere espresso visivamente non in un grafico, ascisse e ordinate, ma in un cartone animato. «Non sparate al messaggero». «Smettete di usare chewing gum e fil di ferro da polli in Spagna».
Tornai al giornale convinto che fosse un caso personale di mutazione antropologica indotta dal successo. Quando parla Roubini, Bloomberg Tv online registra un picco di contatti. Gli «speaking bureau», agenzie fornitrici di oratori per eventi, lo piazzano anche a 50 mila dollari a discorso. Ma i mesi seguenti hanno dimostrato che Roubini non è solo. Era una mosca bianca nel 2006, oggi è la punta avanzata di un nuovo conformismo. Con la metamorfosi continua di questa catastrofe del debito in sempre nuove forme, anche il linguaggio per parlarne ha subito un’alterazione. È nato un genere letterario o una scuola di retorica, quella del guru estremista.

Cosa stia succedendo al nostro modo di raccontare la terra incognita nella quale siamo entrati non è difficile da capire. Basta guardarsi intorno. Bisogna essere taglienti, figurativi, preferibilmente molto partigiani. Stein Ringen, un sociologo norvegese di Oxford, ha scritto quanto segue a proposito di Paul Krugman, premio Nobel per l’economia ed editorialista del «New York Times»: «Ha rovesciato disprezzo sui politici europei, collettivamente, in una maniera che, l’avesse fatto per esempio con i neri, sarebbe finito sotto accusa per incitamento all’odio razziale». Possibile? I leader europei sono «malati di mente» («insane»), ha scritto ultimamente Krugman. «Invece di ammettere che si sono sbagliati, sembrano determinati a buttare la loro economia (e la loro società) giù da un burrone». Poi? «Apparentemente sono decisi a commettere il suicidio dell’intero continente nel suo complesso». Anche per Krugman non mancano le metafore: «I medici credevano che cavare il sangue purgasse il corpo degli umori maligni, molti responsabili di politica economica ci credono ancora». La metafora molto visiva, a costo di trascurare una descrizione accurata della realtà, è del resto un tratto della retorica sulla crisi e sui suoi (presunti) antidoti. Quasi sempre il conio viene da chi si considera a distanza di sicurezza dal sisma. «In Europa serve un bazooka» (copyright, premier inglese David Cameron); no, meglio un «muro tagliafuoco» o più esattamente «una potenza di fuoco» per fermare il «contagio».
«Bacchetta magica» non è entrato ancora in uso. Ma lo slittamento continuo nella figura, adorato da noi media, aiuta sempre a economizzare sull’analisi di processi molto complicati e di portata storica. «L’amato modello sociale dei francesi è stato costruito su un’insostenibile montagna di debiti», ha scritto di recente Gideon Rachman del «Financial Times» di Londra. Una verità così ovvia che non ha bisogno di prove, sennonché Erik Nielsen di Unicredit è andato a controllare i numeri e ha trovato che la «montagna di debiti» britannica è più alta e il modello sociale, be’, è più basso che in Francia. Di Jim O’Neill di Goldman Sachs è celebre la stima che all’Italia sarebbero rimasti solo «il calcio e il cibo» (per ora resta il terzo Paese manifatturiero d’Europa e quinto al mondo). E persino il Nobel Amartya Sen sente l’aria del tempo: a Berlino il mese scorso ha spiegato che l’Italia con il governo tecnico non è più una democrazia, come se il premier a Roma non fosse sempre incaricato dal Quirinale e votato dal Parlamento.
Ma davvero è tutto odio razziale degli «anglo» verso noi vecchi europei? Contro questa ipotesi milita il fatto che Krugman, per esempio, riservi le stesse asserzioni a chiunque, basta non sia d’accordo con lui. I repubblicani in America perseguono «una combinazione tossica di irresponsabilità, lotta di classe e ipocrisia». Accusare l’amministrazione per il rincaro della benzina (in effetti, un errore) «non è solo folle; è tre volte una pazzia: una menzogna avvolta in un’assurdità fasciata nella paranoia». L’esagerazione è una tecnica, prima che un segno di appartenenza tribale. E come tutto ciò che viene dagli Stati Uniti, alla fine approda in Italia. All’ultimo Salone del libro di Torino, Elido Fazi, autore-editore di una serie di saggi di successo sulla crisi intitolati alla «terza guerra mondiale», ha spiegato che il recente buco di Jp Morgan «è peggio di quello di Aig» (in realtà, è di 57 volte più piccolo).

Chi resta fuori dall’ingranaggio lo osserva con interesse. Qualche tempo fa Raghuram Rajan, un economista indiano dell’Università di Chicago, ha pubblicato un articolo su «Foreign Affairs». Anche Rajan appartiene alla cerchia ristretta di coloro che avevano visto prima. Nel 2005, con dati e argomenti, avvertì una conferenza di banchieri centrali nel Wyoming del rischio che correvano le banche americane. Fu insolentito in pubblico da Larry Summers, futuro superconsigliere della Casa Bianca di Obama. Ma Rajan da allora è rimasto al suo mestiere ed evita di scivolare in polemiche da metafore e tweet. Il suo libro Terremoti finanziari e il saggio Le vere lezioni della recessione restano fra gli sforzi più attenti di capire e descrivere ciò che sta accadendo. Di recente gli ho chiesto perché mai, secondo lui, tanti suoi colleghi ormai preferiscano una dialettica estrema. «Non voglio far finta di avere una risposta — ha osservato Rajan — ma ho il privilegio di essere vicino al centro. Dunque sono scettico sulle soluzioni estreme e semplici. Quello che dico non è facile da vendere, perché chi va sulle estreme ha una narrativa più immediata. Ma mi permette di esplorare con maggiore libertà».
È il punto sul quale lavora da decenni Philip Tetlock, uno psicologo della Wharton School. Tetlock è affascinato dalla proliferazione di guru, esperti e maghi delle previsioni nel nostro tempo. I canali all news 24 ore su 24, da Al Jazeera, a Fox News, dalla Cnn a Sky Tg 24 o Rai News in Italia, creano un’enorme domanda per queste figure. E lo stesso declino di Cnn di fronte a Fox dimostra che più ci si allontana dall’equilibrio che la complessità dei fatti richiede, più funziona. L’attenzione del pubblico, almeno nell’immediato, è catturata. È un fenomeno non molto diverso dall’ascesa dei populismi in politica. Beppe Grillo che vuole uscire dall’euro o il partito greco Syriza che rifiuta i sacrifici parlano più forte e più chiaro.
Nel mondo dei guru mediatici, osserva Tetlock, l’estremismo delle opinioni produce prominenza ma toglie libertà: la volta dopo per lui (o più di rado per lei) diventa più difficile correggersi. Tetlock mostra come gente considerata esperta di crescita, mercati, transizione alla democrazia, proliferazione nucleare, a volte sorprenda. Sulla base di migliaia di casi, le previsioni dei guru non risultano più precise (in media) di quelle di una scimmia o di un algoritmo. Al contrario: dati alla mano, più un «esperto» è celebre e meno risulta accurato. Nel 2002-2003 centinaia di strateghi e studiosi asserivano in tivù che l’Iraq disponeva di armi di distruzione di massa. Più lo dicevano, più era probabile che il pubblico si sintonizzasse su quel canale e che l’esperto fosse invitato la volta dopo. Ma un ospite fisso di Cnn, o Fox News, o Bloomberg Tv è a un passo dal potersi lanciare nell’industria dei discorsi a pagamento remunerati almeno a cinque cifre. In una spirale del genere, tutti parlano come se sapessero. Fino al giorno in cui ciò che dicono diventa «verità» senza bisogno di prove, sul modello delle «montagne di debito» francesi.
È a questo punto che l’estremismo dei guru più che una descrizione diventa un agente della realtà. Quando, sulle riforme dell’area euro, Martin Wolf del «Financial Times» spiega che «non puoi accomodare un aereo mentre precipita», per un po’ influenza gli investitori. E in fondo l’ascesa del radicalismo retorico probabilmente si spiega proprio così: come il populismo dei politici, è ormai una misura dello smarrimento di tutti di fronte a una crisi che non dà punti di riferimento.
Antonio Foglia, un grande investitore di Londra, ammette che i discorsi radicali dei guru lo aiutano. Gli danno uno spunto, una provocazione per affrontare la giornata sui mercati «perché in una situazione del genere i ragionamenti sui fondamentali e il medio termine non hanno alcun senso — osserva —. Questi guru esprimono la frustrazione di chi sa di non poter fare ragionamenti ponderati». Eppure il saggio di Rajan su Foreign Affairs era proprio così. Profondo, pacato, senza slittamenti di linguaggio né di senso. Quell’intervento ha dato luogo a un dibattito fra economisti e anche Paul Krugman è intervenuto. Ha definito il testo di Foreign Affairs «un controsenso sui trampoli». Ho provato a chiedere a Rajan cosa pensasse di commenti del genere: «Aiutano, immagino. Uno impara a selezionare a chi dare ascolto».
Federico Fubini