Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 20 Domenica calendario

OPERA BUFFA IN ARGENTINA

Tornando al Rosenkavalier fiorentino, par singolare che molti spettatori anziani dicessero di sentirlo per la prima volta. Mentre alla Scala e in varie grandi città finisce per risultare una cara consuetudine. Benissimo ha dunque fatto Zubin Mehta a proporlo come nuovo, interamente crepuscolare e soft. Tutta un’epoca, come si suole ripetere, finisce così non con una grande guerra, ma con alcuni fascinosi valzer. Anche in smoking. Tipicamente, nei saloni del Titanic, oltre che in casa Faninal?
Già. Lo squisito e cosmopolita Conte Harry Kessler, consigliere e collaboratore di Hofmannsthal per il libretto del Rosenkavalier, e ritratto come lindo omarino da Edvard Munch anche su questo programma di sala, non soltanto apriva a Weimar il primo Bauhaus, e acquistava Maillol e Rodin e Seurat a Parigi. A Londra, durante la dichiarazione della Grande Guerra, invitava Lady Cunard e Lady Churchill a colazione, cenava con Diaghilev, e nel pomeriggio andava a un garden party dal premier Lord Asquith, nonché a una mostra con Lady Ottoline Morrell, patronessa di Bloomsbury. Poi raggiungeva il suo reggimento tedesco sul fronte orientale, mentre le banche inglesi sequestravano il suo patrimonio giacché nemico. Poi divenne «il Conte Rosso» (benché conte solo nello staterello di Reuss), scrisse una biografia del ministro Rathenau assassinato, i nazisti gli sequestrarono il resto, e si ritirò povero a Maiorca.
***
Al Comunale fiorentino, insomma, difettavano i termini di confronto con altre rappresentazioni di quest’opera di Richard Strauss. Nel già stravisto movimento di specchiere colossali sopra cuscini economici, manca proprio lo specchietto manuale ove la Marescialla si contempla riflettendo sugli anni che passano inesorabili. Col risultato che senza il controllo sulle prime rughine, alla toilette, ogni considerazione sul Tempo diventa metafisica, o generica. Nel terzo atto, poi, la confusa baruffa nell’osteria sembra più popolosa e affollata di quella che nei Maestri Cantori coinvolge tutta Norimberga. Buoni cantanti in media, benché, malvestiti. Ma resta nella memoria più di un Barone Ochs che reggeva il finale del second’atto da solo, unicamente col gesto largo del bicchiere, e un paio di «mit mir» (con me) sempre più cavernosi e gravi, nel calar delle luci.
***
Siccome questo Maggio Musicale andrà in tournée in Sudamerica, nei programmi concertistici appaiono composizioni di Alberto Ginastera, antica gloria locale. Mi capitò di vedere il Coliseum londinese, una quarantina d’anni fa, la sua opera Bomarzo, un dramma decadente e diligente sulle magie alchemiche nel Parco dei Mostri, presso Viterbo: allora celebre perché Salvador Dalì vi si faceva fotografare in pose curiose. «Porno in Belcanto», si affermava in proposito; e infatti, ecco una concentrazione di incubi erotici forse etruschi, tra statue e ninfe e satiri che si rimescolavano con Vicino Orsini e Giulia Farnese...
Anni dopo, nel fatiscente Teatro Colón di Buenos Aires, in un’allucinazione surrealistica tipo Classe morta di Tadeusz Kantor — decine di simil-Borges in occhiali neri e completini chiari, con bastoncini d’appoggio e accompagnatrici di sostegno – ecco una leggendaria Fata Confetto! Ricoperta di paillettes turchine, e festeggiata dai finti Borges, la violoncellista ormai vedova di Ginastera suona Schumann come a un cocktail con l’orchestra. Nei corridoi, tributi memoriali per Adelina Agostinelli, nata a Bergamo, debuttante a Treviglio, vedova dei tenori Quiroli e Tabanelli, nonché grande Marescialla approvata da Richard Strauss alla «prima» del Rosenkavalier alla Scala, nel 1911. Qui, poi, impresaria di successo.
***
Alla Fenice veneziana, anche senza preliminari, subito si capì che la Messa in si minore di Bach è un Kolossal fondamentale, monumentale. Qui appare giusta l’ormai logora immagine o metafora della Cattedrale. Senza imbarazzanti aggettivi. Ma l’esecuzione parve invero eccellente.
Gran merito di Riccardo Chailly che l’ha preparata, o di Stefano Montanari che la dirige? E sarà una nostra abitudine acquisita a Santa Cecilia, se là (pur di evitare messinscene balorde) ci si è adattati ad esecuzioni di opere anche lunghe in forma di concerto, nonostante l’assenza di scale mobili come nelle multisale per ragazzini, e lo strazio di decine di gradini per accedere a doppie file — cassa e banco — per un sorso alla buona in squallidissimi «luoghi di socializzazione».
Va qui naturalmente evitata ogni congettura sul perfezionismo dell’immane struttura musicale, e le indecifrabili autocoscienze di quell’enigmatico Autore (Kantor!) lipsiense: C’è soprattutto da elogiare il mirabile coro del maestro Moretti, e i quattro cantanti magnifici: Miah Persson, Sara Mingardo, Mark Madmore, Michele Pertusi. Resta altresì da congetturare quali peccati si potrebbero spifferare, per una gentilezza al «Confiteor», quali cortesi utenti e credenti ormai nella terza o quarta età.
Atti impuri sempre più monotoni, giacché ripetitivi? False testimonianze tipo calunnie e gossip? Parolacce disonorevoli per padri e madri defunti da decenni? Tornano ovviamente alla memoria le solite vecchine delle prime messe d’una volta, dopo ogni notte nel loro abbaino, col latte e il gatto. «Per mia grandissima colpa» ovviamente rimane una megalomania gratuita: ma se può far piacere, non la si contesta a nessuno, e meno che meno alla «vanitas» delle vecchiette immodeste. Si sarà posto il problema, Bach, in territori così luterani.
***
Nelle nostre scuole, invece si doveva leggere e commentare la Divina Commedia. Mentre in tutte le chiese molte pale d’altare erano pieni di flagellazioni, di supplizi, di martiri. E lì si ritrovavano i gironi dell’Inferno dantesco: «A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta... Di qua, di là, su per lo sasso tetro, vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro»...
Ma la flagellazione dei peccatori non era poi la stessa dei santi e dei martiri destinati a un Paradiso di arpe e liuti e angioletti? Certo, le belle frustate possono dare sia dolore sia piacere, come ripete la solita retorica del trash sadomaso. E per la Marescialla del Rosenkavalier; sarà strano il Tempo, ma anche il corpo umano non scherza... E l’animo? Meglio lasciar perdere?
***
A Santa Cecilia, in margine all’eccellente concerto pianistico di Grigory Sokolov — intimissimo e narcisissimo — nel programma dovuto a Piero Rattalino, a proposito di un brano di Jean-Philippe Rameau, «Les Niais de Sologne», si cita come tradizionale equivalente «I dritti di Voghera». Una espressione che ci giunge nuova, dopo una rapida inchiesta fra alcuni vecchi vogheresi viventi. E siccome i «niais» sarebbero dei coglioni, l’equivalente risulterebbe ironico?
Fra i vogheresi più storici, il marchese di Voghera Amedeo dal Pozzo (essendo cugino di Cassiano dal Pozzo), acquistò i due famosi «Poussin di Voghera», oggi separati a Londra e a Melbourne. Mentre Augusto dal Pozzo, morto a Bruxelles nel Settecento, ha un importante monumento funebre nella posa della Melanconia, alla chiesa del Sablon.
Più recentemente, Maria Angiolillo e il sarto Valentino sono piuttosto creatori di grandi stili. E se la Sologne, regione pianeggiante nella Francia centrale, davvero è proverbiale patria di grulli e babbei, come mai non cambiò pseudonimo Madeleine Sologne, rinomata diva francese negli anni Quaranta, e protagonista fra l’altro di L’eternel retour, su scenario di Jean Cocteau?
Alberto Arbasino