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 2012  maggio 18 Venerdì calendario

Timoshenko non si arrende – (Tagliare e sistemare) Avrebbe potuto evitare tutto questo, avrebbe potuto essere conciliante o semplicemente sarebbe potuta rimanere in silenzio

Timoshenko non si arrende – (Tagliare e sistemare) Avrebbe potuto evitare tutto questo, avrebbe potuto essere conciliante o semplicemente sarebbe potuta rimanere in silenzio. Avrebbe potuto anche pagare. Lei, che ha sempre guardato all’occidente, da quattro mesi è rinchiusa nella colonia penale femminile numero 54 di Charkiv, la più sovietica di tutte le città ucraine. Qui il suo nome suscita disprezzo. Nella sua cella la luce rimane accesa ventiquattr’ore su ventiquattro, sul suo letto è puntata una videocamera. Nella sua mente ci sono pensieri d’odio. Sui giornali c’è scritto che nessuno scende in piazza per difenderla. In televisione il procuratore generale la accusa di omicidio. Lei sa che in questa prigione rischia di sparire per sempre. Ma Julia Timošenko ha sempre dato il meglio di sé quando si è trovata sull’orlo del baratro. E inora non ha ancora perso una battaglia. In questi giorni su internet girano le foto dei lividi sul corpo della ex premier, che sarebbero stati provocati dalle percosse dei secondini. “Ho pensato che fossero gli ultimi minuti della mia vita”, ha scritto in una lettera dal carcere. Giorno dopo giorno è sempre più debole: l’ernia del disco le dà fastidio, ha dolori cronici alla schiena e riesce a vestirsi solo con l’aiuto di altre persone. Non ha più nemmeno la treccia che è sempre stata il suo segno di riconoscimento. Eppure il 20 aprile Julia Timošenko ha deciso di alzare la posta in gioco. Il grande conto alla rovescia digitale sul boulevard Khreščatyk di Kiev segnava 48 giorni e 20 ore all’inizio degli Europei di calcio quando l’ex premier ha annunciato di aver cominciato lo sciopero della fame. “Voglio che il mondo democratico si renda conto di quello che succede nel bel mezzo dell’Europa”, ha scritto Timošenko. “Chiedo al mondo democratico e alle forze sane dell’Ucraina di fare immediatamente qualcosa per annientare questa minaccia che incombe su tutto il continente. Ho scelto di proposito il termine ‘annientare’ perché ormai non è più possibile essere diplomatici”. Per tutta risposta il presidente tedesco Joachim Gauck ha annullato immediatamente la sua visita in Ucraina. E i leader del continente si sono chiesti se sia il caso di boicottare gli Europei. Anche se si trova isolata nell’angolo più sperduto del paese, malata e rinchiusa tra quattro mura, Timošenko è riuscita nuovamente a occupare le prime pagine della stampa mondiale. Tra l’ex premier e il suo nemico giurato, il presidente ucraino Viktor Janukovič, è in corso una partita pericolosa. Lui si gioca il futuro politico. Lei la vita. Folla arancione Sono passati quasi otto anni da quando a maidan Nezaležnosti, la piazza dell’indipendenza nel centro di Kiev, Julia Timošenko invocò la rivoluzione di fronte a una folla arancione che pendeva dalle sue labbra, accusando Janukovič di aver falsato l’esito delle elezioni. Janukovič, un rozzo ucraino dell’est, rappresenta tutto quello che Timošenko disprezza. Non a caso lei lo chiama “il bandito di Donetsk”. Nel dicembre del 2004 gli ha inlitto la peggior umiliazione della sua vita: l’ha costretto ad abbandonare la presidenza nonostante Vladimir Putin, il suo primo alleato, lo avesse già salutato come il nuovo capo di stato ucraino. Per quasi due anni Janukovič è rimasto nell’ombra, dopo che Timošenko aveva dichiarato guerra a lui e ai suoi alleati. Da allora si dice che Janukovič tema visceralmente questa minuta signora bionda, il cui nome non si azzarda nemmeno a pronunciare. Lei, nel frattempo, era diventata un’icona pop, beniamina dei giornali occidentali. Poi le cose sono cambiate. Eletto presidente nel 2010, Janukovič non si è limitato ad abolire la festa in ricordo della rivoluzione arancione. Nell’agosto del 2011 ha fatto condannare la sua avversaria a sette anni di carcere per abuso d’ufficio. Timošenko dovrà pagare 142 milioni di euro di risarcimento ed è stata interdetta dai pubblici uici. È stata una vendetta, dicono alcuni. O una resa dei conti. Nel 2009 – così ha stabilito un tribunale di Kiev – Julia Timošenko, allora premier ucraina, ha siglato con il primo ministro russo Vladimir Putin un accordo sul gas a condizioni sfavorevoli per Kiev. Secondo l’intesa, l’Ucraina avrebbe pagato il gas russo 450 dollari per migliaio di metri cubi, una cifra superiore a quella che sborsa la Germania. Il Comitato Helsinki per i diritti umani ha analizzato il caso e ha concluso che la premier non aveva commesso atti illeciti: aveva semplicemente preso una decisione politica. L’Unione europea, gli Stati Uniti e la Russia hanno criticato la sentenza, parlando di un chiaro abuso commesso per motivi politici. I sostenitori di Timošenko hanno proposto di assegnarle il premio Nobel per la pace. La sottosegretaria di stato statunitense Hillary Clinton le ha scritto una lettera personale. Intanto più di venti tra ministri e funzionari del vecchio governo ucraino sono in prigione: l’ex ministro dell’ambiente, l’ex viceministro della giustizia, l’ex ministro della difesa e l’ex ministro dell’interno, Juri Lutsenko, che nel famigerato carcere di Lukianivska di Kiev, costruito all’epoca degli zar, ha contratto l’epatite B e ha perso 35 chili. Lutsenko è stato condannato a quattro anni per aver fatto avere al suo autista una pensione troppo vantaggiosa e aver esagerato con le spese per la celebrazione di una festa della polizia. Cosa sta succedendo nel paese che ospiterà gli Europei di calcio a luglio e che aspira a entrare nell’Unione europea? “Ho paura che mia madre possa essere uccisa”, dice Evgenija Timošenko. È l’inizio di aprile, e all’aeroporto di Kiev sta per imbarcarsi su un volo della Ukrainian Airlines VINCENT MUNdy (PANOS/LUzPHOTO) Julia Timošenko a Kiev, aprile 2011 48 Internazionale 949 | 18 maggio 2012 Ucraina diretto a Charkiv. Ha 32 anni ma ne dimostra di meno. Ha trascorso quasi metà della sua vita in Inghilterra, dove ha studiato prima in un college, poi alla London school of economics. È cresciuta su aerei privati, circondata da guardie del corpo. Oggi va a fare visita alla madre in carcere ogni due settimane. Evgenija porta i capelli biondi sciolti, gli occhi arrabbiati nascosti dietro grossi occhiali da sole. È avvolta in una soice pelliccia sintetica. Aveva 15 anni quando sua madre è diventata la più ricca oligarca del paese. E 16 quando è stata interrogata per la prima volta dai servizi segreti. Aveva vent’anni quando sua madre, suo padre e suo nonno sono stati sbattuti in carcere. Oggi si guarda continuamente intorno, con fare nervoso. Sa di essere pedinata, sa che il suo telefono è controllato, sa che qualcuno legge le sue email. “Mamma, lascia perdere la politica, ci distruggerà”, dice alla madre ogni volta che si vedono. Ma sua madre le risponde sempre: “È la mia vita. Devo farlo per l’Ucraina”. Per anni Evgenija ha cercato di allontanarsi dal mondo della madre. Si è sposata con un musicista rock di Leeds e ha preso il suo cognome, Carr. Un anno fa ha aperto un centro benessere a Kiev. Oggi va in tv per invocare il boicottaggio degli Europei di calcio e chiede direttamente aiuto a Barack Obama. Al parlamento europeo ha tenuto un discorso molto eicace sulle condizioni dei detenuti in Ucraina. È lei l’arma più importante nella battaglia combattuta dalla madre. Dopo la sentenza dello scorso autunno, Evgenija ha cominciato a girare il mondo senza sosta per far conoscere la storia della madre. Sa che è ora il momento di agire. Con gli Europei alle porte il mondo ha gli occhi puntati sull’Ucraina. Dopo potrebbe essere troppo tardi: Julia Timošenko potrebbe fare la ine dell’oligarca russo Michail Khodorkovskij, un prigioniero politico che il mondo si è ormai rassegnato a vedere in carcere. “A gennaio mia madre ha perso i sensi per due ore”, dice Evgenija a voce bassa. “Nonostante sia tenuta costantemente sotto sorveglianza video, l’hanno soccorsa solo dopo venti minuti”. Non riesce a idarsi dei medici del carcere: “All’inizio dicevano che si sarebbe ristabilita nel giro di un mese, poi, improvvisamente, hanno cambiato la prognosi”. A metà febbraio l’ex premier è stata visitata da Karl Max Einhäupl e Norbert Haas, due medici dell’ospedale Charité di Berlino. I due hanno certiicato che sofre di dolori cronici e che non riesce quasi più a muoversi. “Per molto tempo non ha ricevuto le cure necessarie”, si legge nel rapporto dei medici, e quindi è diicile prevedere “la piena guarigione dei nervi danneggiati”. La paziente sofre anche di una dolorosa borsite all’anca, “un’altra conseguenza delle cure inadeguate”. Evgenija scuote la testa: “Hanno un solo obiettivo: distruggerla”. La limousine nera che la aspetta all’aeroporto di Charkiv avanza lentamente su una strada piena di buche, tra ediici squadrati ed ex fabbriche militari con le inestre sbarrate. “Creating history together”, insieme facciamo la storia, si legge sui cartelloni che annunciano gli Europei di calcio. Il 13 giugno la nazionale tedesca giocherà contro l’Olanda a soli tre chilometri dalla prigione dov’è rinchiusa Julia Timošenko. E in quel momento magari l’ex premier si troverà, stesa su una barella, in un tribunale di Charkiv. Contro di lei, infatti, è stato aperto un nuovo procedimento giudiziario per evasione fiscale e malversazione, accuse che si riferiscono a reati compiuti in teoria negli anni novanta e dalle quali è già stata assolta nel 2005. Gli atti sono raccolti in 71 fascicoli, spiega Evgenija, ma il suo avvocato, dopo una modiica delle procedure, ha avuto solo otto settimane per leggerli. Sedici metri quadrati Secondo Evgenija, sua madre è spiata quasi ogni giorno nella sua cella ed è stordita dagli antidoloriici. Ogni quattro ore un medico deve dichiararla in buona salute, per fare in modo che possa afrontare le udienze. La delegata per i diritti umani del governo ucraino, iscritta al partito del presidente Janukovič, ha deinito questo metodo, comunissimo nelle carceri ucraine, una “forma di tortura”. Subito dopo è stata costretta a dimettersi. “Infrangono continuamente la legge”, dice Evgenija, che ogni giorno fa richiesta di stampelle e di una sedia a rotelle per la madre. Tutto inutile. Di recente l’avvocato ha cercato di visitare la sua assistita. “Non è possibile, oggi è giorno di pulizie”, gli è stato risposto. Nella colonia penale numero 54 scontano la pena circa 1.200 donne. Quando Evgenija attraversa frettolosamente l’ingresso del carcere un gruppetto di manifestanti scandisce le parole: “Julia, siamo con te! Julia, tieni duro”. Julia, urlano. Come se fosse Evita, come se fosse Madonna. Donne avvolte in pellicce logore, pensionate con le buste della spesa e uomini con i berretti abbassati sugli occhi. Sventolano bandiere: Julia con la sua corona di capelli biondi, Julia che brandisce un fascio di spighe. “Non dovrebbe esserci lei in prigione, ma Janukovič”, dicono. In una vecchia automobile Lada quattro poliziotti fumano per ingannare il tempo. Un’ora dopo Evgenija esce dal carcere e viene circondata dai giornalisti di varie televisioni. “Le autorità hanno vietato a mia madre il trasferimento in Germania”, dice frettolosamente ai microfoni, senza guardare le telecamere. Una pensionata le mette in mano una cartellina trasparente: all’interno c’è una poesia che ha scritto “per dar coraggio a Julia”. Evgenija sorride timidamente, poi scompare nella limousine. Nell’agosto del 20111 Evgenija è stata accanto a sua madre sul banco degli imputati. E ha osservato la situazione precipitare. Julia Timošenko, in un vestito bianco scintillante e su tacchi di dieci centimetri, si è riiutata di alzarsi davanti alla corte. Si è riiutata di guardare il giudice e di chiamarlo vostro onore. Lo ha chiamato “mostro”, paragonandolo alla “scimmia con una granata in mano” di una vecchia barzelletta. Per il pubblico ministero, invece, ha usato la parola “boia”. Ha chiesto al testimone Mykola Azarov, il primo ministro ucraino in carica, di parlare in ucraino, non in russo. Mentre Azarov parlava, Julia Timošenko scriveva ostinatamente sul suo iPad. “Azarov ha bisogno di un massaggio, di una tazza di tè e di pace”, ha twittato dall’aula. Quando poi il pubblico ministero ha chiesto la custodia cautelare, lei ha aggiunto sarcasticamente: “E magari anche la fucilazione!”. Per tutti i successivi giorni di udienza, ogni mattina l’imputata è stata trasportata in tribunale in una camionetta della polizia. Era già rinchiusa a Lukianivska, in una cella di 16 metri quadrati con altre donne. Dalle registrazioni video del tribunale si può vedere che Evgenija si appoggia a sua madre e sussulta alle parole del pubblico ministero. Julia accarezza continuamente il braccio della figlia. I suoi sostenitori dai banchi del pubblico le incitano: “A testa alta, non abbiate paura!”. Come una rockstar Timošenko fa un cenno alla folla. Anche dopo la condanna, continua ad aggiornare quotidianamente il suo sito web. “Sono viva in questa tomba. Sono più viva degli uomini che mi hanno sbattuta in prigione”, ha scritto a Natale dalla cella. E il 15 aprile: “A Pasqua festeggiamo la vittoria della vita sulla morte, la vittoria della libertà sulla schiavitù, la vittoria del bene sul male”. Ora tocca a Evgenija tenere unita la famiglia Timošenko. Va a Dnipropetrovsk a fare visita alla nonna, che non può andare a trovare la iglia in carcere, e va dal padre, un uomo d’afari molto riservato che ama dipingere, a cui è stato da poco concesso asilo politico a Praga. Evgenija ha deciso di farsi chiamare con il cognome della madre. Per dare l’esempio. Rambo e Pretty woman Julia Timošenko è cresciuta a Dnipropetrovsk, nell’Ucraina orientale, in uno dei tipici palazzi sovietici a cinque piani costruiti negli anni di Chruščëv. Il padre è scappato subito dopo la sua nascita, e Julia è stata cresciuta dalla madre Ljudmila. La donna di giorno lavorava in fabbrica, di notte nella centrale operativa di una compagnia di taxi. Julia da piccola stava sempre fuori di casa: giocava a calcio e faceva teatro. Faceva gol e si travestiva. Aveva 18 anni quando ha sposato Oleksandr, il iglio di un agiato funzionario di partito. Un anno dopo ha messo al mondo Evgenija. Poi ha lavorato per cinque anni in una fabbrica di armi. Nel 1989 c’è stata la prima svolta: ha cominciato ad aittare delle copie pirata di ilm americani in una piccola videoteca aperta nel cortile di un palazzo. Nel paese c’era la febbre dell’occidente, e tutti cercavano di portarsene a casa un pezzetto: Rambo, Batman, Pretty woman. Mentre l’Unione Sovietica cadeva a pezzi, Timošenko è entrata nel mercato del petrolio. All’apertura della prima borsa di Mosca, ne ha comprato delle azioni per 100mila rubli. Due settimane dopo valevano 4,5 milioni. A quei tempi si poteva diventare straordinariamente ricchi in un attimo. Julia Timošenko faceva parte di quella schiera di oligarchi che si è accaparrata le aziende di stato dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Era l’unica donna del gruppo. Era alta un metro e 55, ma era decisamente all’altezza della situazione. Nel 1995, a 35 anni, ha fondato il consorzio del gas Uesu (Sistemi energetici uniti d’Ucraina). In breve tempo il suo impero si è allargato ad altre venti aziende, per un fatturato complessivo di dieci miliardi di dollari all’anno. Nel portafoglio di Timošenko c’erano fabbriche di tubi, stabilimenti metallurgici, due banche e perino una compagnia aerea. In quegli anni Julia Timošenko indossava vestiti di Dolce & Gabbana. Un’azienda di moda ucraina le ha perino dedicato la collezione “Regina del gas”. Per negoziare con Rem Viakhirev, l’ex presidente russo di Gazprom, un accordo del valore di due miliardi di dollari, si è presentata in minigonna e stivali con tacco a stiletto. Dopo due ore aveva già in borsa il contratto irmato. Alla ine del 1996 Julia Timošenko controllava un quarto dell’economia ucraina. In quell’anno, secondo il Wall Street Journal, il suo consorzio del gas ha pagato solo 11mila dollari di tasse, accumulando su conti ofshore intestati a Pavlo Lazarenko, che nel maggio del 1996 sarebbe diventato premier, oltre 120 milioni di dollari. “Chiunque ha fatto afari in quel periodo in Ucraina oggi potrebbe essere sbattuto in prigione”, avrebbe detto una volta Timošenko. A decretare il successo di un’impresa non era semplicemente il meccanismo della domanda e dell’oferta: servivano gli agganci politici giusti. I pubblici ministeri potevano costruire accuse nel giro di qualche ora e ogni imprenditore doveva avere qualcuno che lo proteggesse nelle istituzioni. Julia Timošenko è stata arrestata per la prima volta nel 1995. Si era fatta dei nemici pericolosi tra i suoi rivali in afari, e il potere del suo protettore, Pavlo Lazarenko, vacillava. Messa alle strette, ha scelto la strada che avrebbero scelto tutti gli oligarchi: si è candidata per la Verchovna Rada, il parlamento ucraino, per garantirsi l’immunità. Ha venduto la Mercedes, ha comprato una più modesta Volga e si è candidata nella circoscrizione di Bobrynets. Ha fatto restaurare chiese e inviato agli abitanti al gelo cinquemila tonnellate di carbone. Al mercato le vecchie signore le si inginocchiavano davanti, mentre gli uomini piangevano. Il risultato è che è stata eletta con il 92,3 per cento dei voti. Agli abitanti del suo collegio elettorale Timošenko ha dato anche altro: ha portato amore e attenzione. Poi si è occupata dell’università della sua città. “Sembrava che si fosse davvero convinta di voler portare la felicità in Ucraina”, ha scritto il giornalista Oleksandr Kočetkov. Quella che doveva essere solo una scappatoia era diventata la sua missione: la donna più ricca dell’Ucraina aveva deciso di combattere il sistema che precedentemente aveva sfruttato e che conosceva alla perfezione. Nel 1999, durante la presidenza di Leonid Kučma, Timošenko è diventata vicepremier con delega al settore energetico. Con l’entusiasmo di un’esordiente, ha cominciato a mettere ordine nel suo campo di competenza. Ha eliminato i monopoli e ha costretto i suoi ex concorrenti a pagare le tasse. Meravigliati dal suo operato, i giornali l’hanno deinita “l’unico vero uomo del governo”. Ma presto Julia Timošenko si è accorta di essere andata troppo oltre: nel 2001 è stata arrestata e le sue aziende sono state smembrate. È rimasta 42 giorni a Lukianivska. Una volta uscita, ha scelto il look che l’avrebbe resa celebre. Si è tinta i capelli di biondo oro e se li è intrecciati in una sorta di corona intorno al capo. Una aureola lucente che è diventata il suo tratto distintivo. Così ha cominciato a costruire il suo mito: a metà tra una grande madre slava e una Barbie. Sui manifesti posava vestita di bluse tradizionali ricamate a mano, in parlamento chiedeva una “rivoluzione morale”. Il suo obiettivo era diventare presidente. Ma sapeva che da sola non ce l’avrebbe mai fatta. Per questo ha deciso di coinvolgere anche Viktor Juščenko, un banchiere di primo piano, serio e stimato anche in occidente. I due avevano gli stessi obiettivi, ma non potevano essere più diversi: titubante e timoroso lui, decisa e battagliera lei. Nel gennaio del 2005, dopo la rivoluzione arancione, Julia Timošenko è diventata la prima donna a guidare il governo dell’Ucraina. Ma mentre lei cercava di trasformare il paese, il presidente Juščenko era più attento a governare senza avere noie. Mentre Timošenko voleva distruggere “il sistema criminale” che regnava nel paese, Juščenko preferiva i compromessi. In quel periodo la premier ha annullato le privatizzazioni fatte dal governo precedente, per esempio la svendita di un’acciaieria per un prezzo pari a un quinto del suo valore reale. Ha cercato di ridiscutere tremila casi simili, ma Juščenko ha permesso che si intervenisse solo su trenta episodi. Per nove lunghi mesi i due hanno convissuto tra mille problemi e incomprensioni, ino a quando il presidente non ha revocato il mandato al governo, nel settembre del 2005. A quella scelta sono seguiti anni di caos, con diversi governi e l’opinione pubblica che abbandonava delusa gli eroi della rivoluzione. Nelle elezioni presidenziali del 2010 Juščenko ha ottenuto solo il 5 per cento dei consensi e Janukovič, il suo vecchio rivale, ha sconfitto Julia Timošenko per pochi voti. Una battaglia sporca È metà aprile del 2012. Evgenija Timošenko entra nei locali della sede di Batkivščina (Patria), il partito della madre. All’ingresso ci sono grandi foto della rivoluzione. Nell’uicio di Julia un televisore gigante a schermo piatto sovrasta alcune sedie in pelle color beige. Sulla scrivania, pesante e antica, ci sono due bottiglie di acqua minerale. Non è cambiato nulla dal suo arresto, come se l’ex premier potesse tornare da un momento all’altro. In un armadio c’è un’immagine della martire santa Barbara, regalata a Timošenko dalla chiesa ucraina: a causa della sua fede, la bella Barbara fu denudata e picchiata in strada. Le bruciarono i capelli, ma lei non rinnegò la sua religione. Fino a quando non fu decapitata dal padre. Per tornare in libertà a Julia Timošenko basterebbe scrivere una lettera: tre semplici righe dirette al presidente ucraino, ha spiegato Renat Kuzmin, il viceprocuratore generale: “Ammetto di essere colpevole e chiedo la grazia”. Se accettasse di fare una cosa del genere, sarebbe di nuovo, e immediatamente, una donna libera. “Ma mia madre non si arrenderà mai”, dice Evgenija con tono preoccupato. “Deve essere operata immediatamente”. Evgenija si batte perché la madre possa essere ricoverata in Germania. Il professor Einhäupl, che l’ha visitata a gennaio, chiede da settimane di poterla curare. Per tutta risposta il governo ucraino ha fatto restaurare il vecchio ospedale delle ferrovie di Charkiv e, per accogliere degnamente l’ex premier, alle inestre di un intero piano dell’ediicio ha fatto montare le inferriate. Da settimane gli europei fanno pressioni a livello diplomatico, ma Janukovič non cambia idea. Molti l’hanno già dimenticato, ma lo scorso dicembre Angela Merkel ha discusso del caso direttamente con il presidente ucraino, definendo poi l’incontro “una delusione”. Quando il Consiglio europeo ha criticato la condanna di Timošenko, dall’Ucraina hanno promesso che il caso sarebbe stato riaperto. Poco dopo, invece, è spuntata anche un’accusa di omicidio. “Janukovič conosce solo il linguaggio della violenza”, dice Evgenija nell’ufficio della madre. Mentre si avvia verso l’aeroporto per andare a Riga a parlare con alcuni parlamentari lettoni, Oleksandr Turčinov, un fedelissimo di Timošenko, incontra i giornalisti in una conferenza stampa a Kiev. I pubblici ministeri hanno annunciato di avere nuove prove a sostegno di un’accusa di omicidio: secondo loro, nel 1996 Timošenko avrebbe ordinato, insieme all’ex premier Lazarenko, l’esecuzione di un uomo d’afari e di sua moglie a Donetsk. I due furono uccisi con una mitragliatrice. Turčinov ha il viso gonio tipico dei pugili, senza collo, poggiato su un corpo enorme. Con i suoi occhi piccoli e vispi squadra tutto ciò che lo circonda. Si piazza dietro il tavolo. “Hanno organizzato un nuovo sistema di persecuzione politica”, dice al microfono, “e ora sono passati ad accuse per crimini sui quali è stata fatta luce da tempo”. Un paio di chilometri più lontano, anche il iglio della coppia assassinata ha convocato una conferenza stampa: da qualche giorno dice che, quando aveva 18 anni, ha ascoltato una conversazione in cui qualcuno avvertiva il padre di stare in guardia perché Timošenko aveva oferto sette milioni di dollari per la sua testa. Il ragazzo si dice convinto della colpevolezza della ex premier. I giornalisti, però, non gli credono: sono convinti che qualcuno lo abbia corrotto. Per anni in tribunale ha detto sotto giuramento di non ricordare niente. Di recente i quotidiani Kyiv Post e Ukrainska Pravda hanno rivelato che il governo aveva incaricato l’agenzia di comunicazione Burson-Marsteller di danneggiare l’immagine di Timošenko in occidente. “Voi credete che i leader dell’opposizione non debbano essere condannati, neanche se hanno commesso un omicidio?”, ha risposto il viceprocuratore Kuzmin in un articolo pubblicato dal Financial Times. È una guerra sporca. Una conferenza stampa tira l’altra, gli interventi in tv si susseguono. A ottobre in Ucraina ci saranno le elezioni parlamentari, e il gradimento del presidente è ai minimi termini. Il governo e l’opposizione lottano disperatamente per fornire le loro interpretazioni del caso Timošenko. Il governo ha fatto sapere che l’ex premier è trattata meglio degli altri detenuti. Il medico del carcere le ha fatto portare in cella il televisore al plasma che aveva nel suo studio. Quando la iglia Evgenija si è lamentata delle condizioni in cui si trova sua madre, le autorità hanno mostrato ilmati della detenuta in una cella di lusso, con bagno privato e aria condizionata. Le prime volte che il suo avvocato ha chiesto il ricovero in ospedale, il ministero della salute ha fatto sapere che la detenuta riiutava ogni trattamento. Quando i medici tedeschi hanno certiicato la sua ernia del disco, il viceprocuratore generale Kuzmin ha ribattuto che si trattava di un semplice mal di schiena. Nulla di tutto questo è veriicabile, poiché né i giornalisti né i politici europei possono incontrare Timošenko di persona. Il soldato Kuzmin Nell’intervista concessa alla Zeit, Renat Kuzmin avvia la conversazione con una domanda: “Cosa volete in realtà? Che problemi hanno i nostri amici tedeschi?”. Kuzmin siede nel suo uicio alla procura generale di Kiev. Tende spesse e tappeti attutiscono i rumori. Sul muro sono appese delle mappe dell’Ucraina, mentre nella stanza ronza un climatizzatore e sulla scrivania ci sono degli occhiali da sole da pilota. “Timošenko”, dice Kuzmin, “ha avuto il processo più equo del mondo, le migliori cure d’Europa, in cella non lavora neanche, può scrivere tutte le lettere di protesta che vuole, non deve nemmeno portare la divisa del carcere. Insomma, infrange tutte le regole del penitenziario e non è stata punita nemmeno una volta”. Kuzmin si alza in piedi, va dietro la bandiera ucraina. Ha la barba di tre giorni ed è di cattivo umore. “Ormai non riesco più a immaginare la mia vita senza Timošenko”, dice ad alta voce in russo. Per colpa della ex premier, è costretto ad andare costantemente a Bruxelles e a Strasburgo per incontrare i deputati europei che si interessano al caso. Burocrati che lo tormentano in inglese, gli fanno ramanzine e si intromettono negli afari ucraini. “Tutti parlano di dittatura”, sbotta, “ma quello che ha fatto davvero Julia Timošenko non interessa a nessuno”. Ci sono seimila documenti che giustiicano il procedimento, sostiene. “In queste pagine si può leggere come Timošenko abbia ucciso, come abbia imbrogliato gli ucraini. Ai nostri amici tedeschi interessa il fatto che sia un’assassina?”. Kuzmin usa questo termine anche se il processo per omicidio non è ancora cominciato e, per ora, contro l’ex premier non ci sono prove. Kuzmin viene da Donetsk, una città di minatori, dove non è raro inire in carcere per qualche problema con la giustizia. Dopo esser stato per due anni nell’Armata Rossa negli anni ottanta, ha studiato giurisprudenza all’università di Charkiv. Quando si sposta per un appuntamento è accompagnato da una colonna di auto e guardie del corpo. “Mi può far capire cosa vogliono i tedeschi da questa storia?”, chiede Kuzmin. Poi spiega la sua versione: “I tedeschi vogliono il rilascio di Timošenko, ma soprattutto vogliono far cadere il nostro presidente. E per riuscirci sono pronti a tutto”. Secondo Kuzmin, a Kiev ci sono giornalisti pagati per parlare male del governo ucraino. Anche la rivoluzione arancione, spiega, è stata innescata dall’occidente: “L’Ucraina è stata vittima di un attacco dei mezzi d’informazione occidentali”. Kuzmin non parla da giurista, ma come un soldato obbediente. Come ha fatto il procuratore generale (e suo superiore) Viktor Pšonka quando è entrato in carica, anche Kuzmin ha dichiarato che il suo compito “è rispettare la volontà del presidente”. Pšonka è il padrino del iglio del presidente. Come tutti i principali membri del governo, anche lui è di Donetsk, la città natale di Janukovič. Anche il presidente Janukovič ha avuto problemi con la giustizia: a 17 anni è stato condannato per rapina. Oggi, con l’Ucraina sull’orlo della bancarotta, si sta facendo costruire un palazzo in Crimea. Il suo capo dei servizi segreti controlla le principali reti televisive, i giornalisti scomodi iniscono in ospedale e gli ucraini si sono abituati al fatto che la forbice tra ricchi e poveri è sempre più ampia: il costo del latte è raddoppiato, ma davanti al parlamento sono parcheggiate Bentley, Rolls-Royce e Lamborghini. I cittadini non credono più a nessuno, né a Janukovič né a Timošenko. Ma tra il presidente e la ex premier esiste qualche diferenza? “Entrambi sono corrotti”, dice Mustafa Najem, uno dei giornalisti più noti del paese. “Ma Timošenko si è occupata dei cittadini, mentre a Janukovič interessano solo il potere e il denaro. Non gli importa cosa pensano di lui gli ucraini né gli altri europei”. Quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto al governo ucraino di scarcerare Timošenko per permetterle di essere curata da medici indipendenti, Janukovič ha fatto sapere che per lui la richiesta era un semplice consiglio. Una diagnosi fondamentale È venerdì 13 aprile quando l’aereo dell’Austrian Airlines con a bordo il professor Karl Max Einhäupl atterra in Ucraina. Sulla pista di atterraggio il medico si afretta verso la macchina del console tedesco che lo attende. È lui l’ultima speranza di Timošenko: la visiterà e dovrà valutare il nuovo ambulatorio allestito a Charkiv per curarla. Einhäupl, un neurologo di fama che non disdegna le apparizioni in tv, ha visitato i leader politici di tutto il mondo. Ma oggi si ritrova nel bel mezzo di una complessa partita diplomatica in cui è chiamato a fare da arbitro. Ogni parola sulla salute della paziente sarà esaminata e analizzata con grande attenzione. Il destino dell’ex premier dipende dal responso di Einhäupl. Quando, all’inizio dell’anno, l’ha visitata per la prima volta in carcere, il medico tedesco conosceva il caso Timošenko solo attraverso le notizie che aveva letto o sentito. “La considero una paziente, non una leader politica”, ha detto. Eppure per il governo tedesco Einhäupl non è più un semplice medico: la sua diagnosi potrebbe contribuire a costruire un ponte diplomatico con gli ucraini, convincedoli a lasciar partire Timošenko verso la Germania per ragioni umanitarie. È l’ultima possibilità per risolvere il caso prima dell’inizio degli Europei di calcio. Appena Einhäupl mette piede fuori dall’ediicio dell’aeroporto, è raggiunto da una decina di telecamere, dal sostituto procuratore locale e da rappresentanti del ministero della salute e del carcere. In un corteo di auto scortate dalla polizia, il gruppo avanza nel traico ino all’ospedale delle ferrovie, in cui dovrà essere trasferita Timošenko. Accompagnato da un interprete, Einhäupl si inila nell’ediicio, dove si sente ancora l’odore di vernice fresca. All’interno ci sono letti di fabbricazione tedesca, un lettino nuovo di zecca per i massaggi, apparecchi radiologici e perino un macchinario per la risonanza magnetica. Poco dopo, in carcere, davanti a una schiera di microfoni, Einhäupl, che di solito si esprime in maniera molto chiara, sembra prendere tempo. I giornalisti vogliono sapere se la clinica allestita per Timošenko è adeguata. Einhäupl rimanda la risposta a un comunicato stampa. È certo, però, che “la paziente non è in grado di essere sottoposta a processo. Né ora né tra sei mesi”. Il viceministro della salute, seduto accanto a lui, gli chiede perché non può ancora esprimere un parere. “Lei non sta parlando da medico, ma da politico”, gli dice. Più tardi, nella sua stanza d’albergo, Einhäupl si stropiccia gli occhi. È stato in giro per 18 ore. “Non è corretto chiedersi se quell’ambulatorio sia stato allestito in maniera adeguata”, dice. “La domanda giusta da farsi è se in quel luogo Timošenko possa guarire. E la risposta è no”. Einhäupl è rimasto turbato dalle condizioni della paziente. A febbraio l’energia dell’ex premier lo aveva sorpreso. Le aveva chiesto se sofrisse di depressione, e lei gli aveva risposto di no ridendo. Ora, però, nei suoi occhi c’è la paura. “Teme di essere distrutta a livello psicologico”, spiega Einhäupl. “Non si farebbe mai prelevare il sangue dai medici ucraini, non si ida di loro”. Del resto l’ex presidente Juščenko è stato avvelenato e il suo ministro dell’interno, Juri Lutsenko, ha contratto l’epatite durante un prelievo. Secondo Einhäupl, Timošenko riceve solo un terzo degli analgesici di cui ha bisogno. Riesce ancora a stare sdraiata, ma dorme poco. “Mi tiri fuori da qui”, lo ha pregato lei, disperata. Quando si sono separati, Timošenko lo ha abbracciato. Verso il boicottaggio Sono le 16 del 14 aprile. Einhäupl sta attivando l’irrigatore nel giardino della sua casa nel quartiere di Charlottenburg, a Berlino, quando suona alla porta Evgenija Timošenko. Ha appena partecipato a un congresso sui diritti umani. “Com’è andata?”, gli chiede. “La nuova struttura può essere pesantemente criticata”, risponde lui. Il volto di Evgenija si rabbuia. “Come sta mia madre?”, chiede. “Deve essere curata d’urgenza”, dice Einhäupl, con lo sguardo rivolto a terra. “Sono sicuro che il governo tedesco farà tutto il possibile per portarla qui”. Il medico ha appena informato la cancelliera Merkel con un sms e ha parlato con i suoi consiglieri. Sembra che ci siano delle speranze. Venerdì 20 aprile. A Julia Timošenko succede qualcosa che lei descrive in una dettagliata lettera di quattro pagine come un’esperienza scioccante: tre uomini sono entrati nella sua cella, le hanno gettato una coperta addosso e l’hanno colpita con calci e pugni. Timošenko dice di aver chiesto aiuto e poi di aver perso conoscenza. Quando si è risvegliata, era nell’ospedale delle ferrovie di Charkiv. Nella sede del governo tedesco il consigliere di Merkel per la politica estera è seduto alla sua scrivania e aspetta inutilmente la chiamata dall’Ucraina che gli era stata annunciata. Julia Timošenko è in sciopero della fame. Il 27 aprile nella sua Dnipropetrovsk alcune esplosioni provocano circa trenta feriti. Mancano cinque settimane all’inizio degli Europei di calcio in Polonia e Ucraina. Angela Merkel sta pensando a un boicottaggio, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha fatto sapere che non andrà a Kiev. Per sicurezza Viktor Janukovič ha già invitato il presidente dell’Indonesia.