Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 18/05/2012, 18 maggio 2012
«ORLANDO», L’ITALIANO IN CANTIERE
Italo Calvino invitava ad accostarsi all’Orlando furioso senza tanti preamboli, perché «è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi». È vero, al punto che viaggiando dentro questo fantastico «poema del movimento« rischiò di perdersi per primo il suo stesso autore. La storia editoriale del capolavoro di Ludovico Ariosto è infatti una delle più tormentate che si conoscano: l’opera nasce nei primissimi anni del Cinquecento, quando il poeta non è ancora trentenne. Nel gennaio 1507, a Mantova, Ariosto legge a Isabella d’Este Gonzaga qualche brano del nuovo testo, che ha già cominciato a incuriosire la corte. Solo nel 1516, a Ferrara viene licenziata la prima edizione (A) di quaranta canti, ma nel giro di tre anni l’autore avvia la revisione e sempre a Ferrara nel 1521 consegna alle stampe una seconda edizione (B).
L’anno chiave per Ariosto, e non solo per lui, è il 1525, quando escono le Prose della volgar lingua, il trattato con cui l’amico Pietro Bembo «fonda» lo stile e la grammatica della lingua letteraria sulla base dei maggiori scrittori trecenteschi. Ariosto ne rimane sconvolto, al punto da essere indotto a rimettere mano al suo poema per uniformarlo al toscano letterario ripulendolo della veste regionale primitiva. Dopo una lunga rielaborazione, nell’ottobre 1532, pochi mesi prima della morte, il poeta pubblica la terza e definitiva edizione (C) dell’Orlando furioso, ampliato di sei canti.
Il lavoro di una vita dell’Ariosto è anche il lavoro della vita di Cesare Segre, il filologo che più di tutti ha studiato il poeta emiliano, sin da quando, giovanissimo, era assistente del filologo Santorre Debenedetti, suo prozio: è infatti con il binomio Debenedetti-Segre che uscirà, nel ’60, l’edizione critica del poema. Ma oltre che all’opera maggiore, Segre si è dedicato, con studi e edizioni critiche, anche alle minori (a un volume Ricciardi del ’54 seguono quelli dei Classici Mondadori). L’impresa più lunga e difficile arriva però adesso, con il Rimario diacronico del Furioso. «Disporre di tutto l’insieme delle rime e del lessico, parola per parola, nel loro svolgimento da una redazione all’altra permette di verificare il sistema linguistico dell’Ariosto in movimento», osserva Segre.
Un primo progetto fu avviato nel ’65 con l’Olivetti, allora all’avanguardia nell’elettronica. La chiusura dell’attività olivettiana nel settore dei computer impose una sospensione. Se ne riparlò anni dopo con l’Accademia della Crusca: «Dato che l’Ariosto fu lo scrittore che più di tutti ha contribuito all’affermazione del toscano letterario come lingua nazionale, una concordanza diacronica avrebbe permesso di seguire le fasi di questa impresa». L’impresa richiede necessariamente una cooperazione tra informatici e filologi: con l’apporto tecnico di Antonio Zampolli e in seguito di Eugenio Picchi, con il lavoro filologico di Luigina Morini e di Clelia Martignoni, con il contributo informatico di Manuela Sassi, nel ’74 la conclusione sembra vicina, ma non è così. Gli oltre trent’anni che seguono sono una specie di romanzo, con complicati passaggi da un software all’altro, e persino con pacchi di carta che spariscono e costringono a rifare una parte del lavoro. Solo con il sostegno dello Iuss (l’Istituto pavese di studi superiori, diretto da Roberto Schmid) si va verso il lieto fine.
Ed eccolo qui, infatti, il Rimario, su carta (e su dvd): un monumento in due volumi, diretto da Segre, che solo ad apertura di pagina rivela la complessità e la bellezza tipografica, tra varietà di corpi, caratteri, segni e nuove simbologie. L’obiettivo è quello di registrare, sulla base di C, le varianti delle edizioni precedenti A e B in tutte le possibili situazioni testuali. Ci sono casi molto semplici, per esempio la sostituzione quasi sistematica di una parola con un sinonimo (come i cavalli che diventano destrieri o gli amatori che diventano amanti). Ci sono casi in cui il cambio di una sola parola in rima (la caduta di certi latinismi o di forme dialettali) genera conseguenze a cascata: vedi l’eliminazione quasi sistematica dell’avverbio presto (sostituito in C da soluzioni varie tra cui il sinonimo tosto) o l’esigenza di cassare tutte le sdrucciole in rima (scompaiono, tra l’altro, opera, povero e povera); ci sono le ottave inserite solo nella B e nella C, per non dire dei sei canti inventati ex novo nel ’32. Il Rimario (unico esempio, finora, di rimario «diacronico», che registra cioè le varianti d’autore) dà conto, ovviamente del contesto.
Segre accenna al «progressivo depurarsi linguistico del poema». L’antecedente più vicino ad Ariosto era l’Orlando innamorato, dove però viene utilizzata una lingua ben diversa: «Al Nord la lingua corrente era un toscano mescolato con il dialetto, come dimostra il Boiardo: Ariosto sulle prime ne segue l’esempio, ma nelle due redazioni successive ripulisce la lingua fino ad arrivare a un toscano puro, tanto che il Furioso verrà assunto come un modello linguistico anche dal Dizionario della Crusca. Quello di Ariosto è un lavoro attentissimo, parola per parola, che ora riusciamo a seguire nel suo insieme: è significativo che quando decide di cambiare un termine o una forma fonetica, lo faccia anche a costo di mandare all’aria tutte le rime dell’ottava».
Un lavorìo ben diverso dal risciacquo manzoniano in Arno, perché mentre Ariosto tiene conto, quasi da storico della lingua, delle stratificazioni letterarie, l’ideale di Manzoni è opposto: «La lingua de I promessi sposi è il fiorentino vivo, che invecchia subito, perché soggetto a trasformarsi col tempo: Manzoni, riproducendo il parlato contemporaneo, fa una scelta utopica contro la storia della lingua; Ariosto invece ha un’idea evolutiva, fa i conti con i tre secoli precedenti, con Dante e Petrarca. Nell’ultima redazione, poi, acquisisce una dimensione meno umanistica e più rinascimentale». Magari sacrificando qualcosa al colore e alla brillantezza a favore dell’euritmia e della simmetria classica: «Qualcuno — ricorda Segre — preferisce la prima redazione. Per me è una scelta difficile: l’eccesso di equilibrio e di classicità dell’ultima edizione può anche dar fastidio rispetto alla freschezza precedente, dove si prende anche la libertà di parteggiare per gli Estensi e i francesi loro alleati, mentre nella C celebra senza calore l’imperialismo di Carlo V. Ma d’altra parte nell’edizione ’32, che può apparire più ingessata, Ariosto inserisce episodi stupendi, come quello di Olimpia». Anche con i contemporanei si propongono problemi analoghi: «In effetti, non sempre l’ultima volontà dell’autore è la migliore. Le Cinque storie ferraresi di Bassani sono molto più scorrevoli e stilisticamente ricche nella prima edizione, poi con il lavoro successivo vengono rese più pesanti e aggrovigliate. Anche la Gerusalemme conquistata è più brutta della Liberata: per fortuna, come posteri abbiamo la possibilità di scegliere. Per Ariosto scegliere è difficile».
Come si vive in compagnia di Ariosto per più di cinquant’anni? «Il Furioso è un’opera divertente, rasserenante, solare, un’opera di straordinaria libertà, non per niente piacque a Voltaire e a Calvino. Basti pensare a come affronta l’aldilà: a così poca distanza dal Medioevo doveva risultare strabiliante. È un libro non antireligioso, ma a-religioso, senza tutte le manie del Tasso, per il quale non ho mai avuto una gran simpatia. Certo, è molto lungo, 38.736 versi, il triplo della Divina Commedia, che al confronto sembra un libriccino». Eredi? «Il testimone, quando la fortuna dell’Ariosto va declinando, passa direttamente a Cervantes».
Paolo Di Stefano