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 2012  maggio 18 Venerdì calendario

La lezione Brasiliana – Mentre negli Stati Uniti e in Europa la crisi economica peggiora e le diseguaglianze aumentano, il Brasile sta costruendo un modello di sviluppo più solido e una società più giusta

La lezione Brasiliana – Mentre negli Stati Uniti e in Europa la crisi economica peggiora e le diseguaglianze aumentano, il Brasile sta costruendo un modello di sviluppo più solido e una società più giusta. Nonostante la corruzione e la criminalità (Da SISTEMARE E EVENTUALMENTE TAGLIARE ALLA GRANDE) Verso la ine dei Viaggi di Gulliver, Lemuel Gulliver trascorre piacevolmente un paio d’anni tra gli Houyhnhnm prima di tornare in Inghilterra. Gli Houyhnhnm sono sostanzialmente dei cavalli, serviti da creature simili agli umani chiamate Yahoo. Gulliver descrive al suo incredulo ospite come stanno le cose nel suo paese, dove gli Yahoo governano sugli Houyhnhnm. Com’è possibile, gli viene chiesto, se gli Yahoo barcollano sulle loro due gambe invece di camminare saldamente su quattro? Se hanno gli occhi davanti e non possono guardare ai lati senza girare la testa? Se devono coprirsi perché i loro piedi non sopportano i terreni accidentati e la loro pelle non tiene caldo? Chi arriva in Brasile dagli Stati Uniti o dall’Europa occidentale si sente un po’ come uno Yahoo nella terra degli Houyhnhnm. Fino a poco tempo fa, il Brasile era uno dei paesi con il tasso di istruzione più basso e le diseguaglianze economiche più forti del mondo. Ora la sua economia, che non è stata travolta dalla crisi, sta crescendo più rapidamente di quella statunitense. Lo scarto tra ricchi e poveri negli Stati Uniti si sta allargando in modo preoccupante, in Brasile comincia a ridursi. Nell’ultimo decennio ventotto milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà estrema, mentre negli Stati Uniti il tasso di povertà ha raggiunto nuovi record. Il Brasile è in pace. Ha rinunciato alle armi nucleari. Ha un bilancio in pareggio e un debito pubblico sotto controllo. È un paese caoticamente democratico, dove la stampa è libera. Il Brasile ha anche un quarto delle terre arabili del mondo. E cinque anni fa sono stati scoperti al largo delle sue coste quelli che potrebbero essere tra i più grandi giacimenti petroliferi ofshore del pianeta. I brasiliani sono spesso in cima alle classiiche internazionali sull’ottimismo dei cittadini rispetto al futuro. Sostegno all’industria Secondo le inviolabili leggi che statunitensi ed europei hanno stabilito dopo il crollo del comunismo, tutto questo non dovrebbe succedere. E non solo perché il Brasile è governato da impenitenti ex rivoluzionari che spesso hanno passato anni in carcere con l’accusa di terrorismo. Il Brasile procede in modi che – così ci viene detto – sono incompatibili con una società libera e sviluppata. Proprio come gli Houyhnhnm governavano gli Yahoo, in Brasile lo stato governa il mercato. Nessun brasiliano deinirebbe la libe- ra iniziativa in campo economico il valore più sacro della società. Il potere centrale è molto più forte e presente di quello statunitense. Il governo stanzia enormi risorse per un popolarissimo programma di sussidi ai poveri. Ma è anche molto corrotto. In Brasile c’è molta criminalità, il sistema scolastico è carente, le strade sono dissestate, i porti funzionano male. Eppure quella che è considerata una delle maggiori potenze economiche mondiali ha raggiunto un raro triplice traguardo: crescita economica (a diferenza degli Stati Uniti e dell’Europa), libertà politica (a diferenza della Cina) e riduzione delle ineguaglianze (a diferenza di quasi tutto il pianeta). Qual è il suo segreto? Brasilia, dove sono andato nell’estate del 2011, ha due palazzi presidenziali, entrambi realizzati dal grande architetto modernista brasiliano Oscar Niemeyer. La presidente brasiliana Dilma Roussef vive con la madre e la zia nel palácio da Alvorada, in riva a un lago, e lavora al Planalto, sulla praça dos Três poderes. Il Planalto è un ediicio magniico, con grandi uici e ampi spazi interni dai lucidi pavimenti in pietra. Roussef è una donna che sprigiona energia. Come gran parte dei leader politici del paese, è cresciuta durante la dittatura militare cominciata nel 1964 e finita nel 1985. Militante dell’Avanguardia armata rivoluzionaria-Palmares, Roussef è stata incarcerata e torturata per anni. Ha elaborato un modo eicace per parlare del passato: è sincera, senza rimorsi, ma rimane vaga sui particolari. All’inizio del mio viaggio, Roussef ha lanciato uicialmente la sua seconda grande iniziativa come presidente. La prima, Brasil sem miséria, presentata a giugno del 2011, era un vasto programma di lotta alla povertà. Roussef ha stabilito, come succede negli Stati Uniti, un criterio federale per deinire la linea della povertà, promettendo che entro la ine del suo primo mandato, nel 2014, tutti quelli che si trovano al di sotto (16 milioni di persone) ne usciranno. Un obiettivo di gran lunga più ambizioso della guerra alla povertà dichiarata nel 1964 da Lyndon Johnson e ormai considerata da molti politici statunitensi una falsa promessa. Sotto Roussef, lo scopo principale del governo è diventato quello di ridurre la povertà. E promuovere il benessere economico generale è un mezzo per raggiungere quel traguardo. Come mi ha spiegato in un’email rispondendo a una serie di domande che avevo inviato al suo staff, “l’obiettivo principale dello sviluppo economico deve sempre essere il miglioramento delle condizioni di vita. I due concetti non possono essere separati. La creazione e la distribuzione di ricchezza alza il tenore di vita delle persone; allo stesso modo, l’aumento del tenore di vita porta al benessere economico”. La sua seconda iniziativa riguarda la politica industriale: il governo ha dettato le linee guida dell’economia in un modo che Washington, anche nel momento più disperato della crisi inanziaria, non avrebbe mai preso in considerazione. L’eredità di Lula Nella parte più spaziosa del Planalto era stato allestito una specie di auditorium, con un palco e delle sedie pieghevoli che si sono riempite di giornalisti, esponenti del congresso e ministri di secondo piano. Dopo qualche minuto Rousseff è scesa da una rampa a spirale di pietra bianca che collega quello spazio al piano superiore. Era seguita dai ministri più importanti e da decine di grandi imprenditori brasiliani, tutti in afari con il governo. La giornalista seduta accanto a me, Angela Pimenta, mi ha dato un colpetto col gomito sussurrando: “Quelli li chiamiamo ‘la banda del pil’”. I papaveri hanno preso posto e l’evento è cominciato, con la proiezione di un allegro video sull’impegno del Brasile per la crescita e l’innovazione. Una silza di ministri è intervenuta esponendo un programma apertamente protezionista: dazi sulle importazioni, sussidi alle esportazioni, aiuti speciali del governo alle principali industrie nazionali. Regale e impassibile nel suo tailleur blu, la presidente Roussef ha ascoltato gli interventi, poi si è alzata e ha preso la parola, con voce grave e stentorea. Quando aveva vent’anni ed era ricercata, Roussef era raigurata sui manifesti con degli occhiali spessi e una nuvola di ricci bruni. Oggi è una donna austera che cattura l’attenzione, ma non ha la capacità, innata nei politici, di cogliere l’umore del pubblico. “La fase in cui ci troviamo richiede coraggio e audacia”, ha detto. “Dobbiamo proteggere la nostra economia, i consumi, il lavoro. Dobbiamo proteggere l’industria brasiliana dalla concorrenza sleale della guerra del cambio. Le nostre industrie possono contare su questo governo: siamo dalla loro parte. Proprio come non concepiamo lo sviluppo senza inclusione sociale, così non lo concepiamo senza un’industria forte, innovatrice e competitiva”. Il timore principale di Rousseff è che l’economia smetta di crescere e l’inlazione aumenti. Gli Stati Uniti sono un pensiero isso, sia come esempio negativo di gestione della crisi inanziaria sia come concorrenti pronti a lasciar svalutare il dollaro per poter sommergere il Brasile di beni a basso costo. Le nuove scelte di politica economica servono quindi a evitare gli efetti a lungo termine della crisi e a dimostrare che il Brasile è immune ai capricci della più grande potenza mondiale. Roussef ha concluso il suo intervento citando un noto economista brasiliano: “La nostra economia non è più guidata dall’esterno ma dall’interno. Abbiamo in mano gli strumenti di autodeterminazione che in passato erano solo in mano ai ricchi”. Accompagnata da un’educata ovazione, ha lasciato il palco. In Brasile la vita politica ruota intorno a una igura molto importante, e non è Dilma Roussef. È il suo predecessore, Luis Inácio Lula da Silva, noto in Brasile e nel resto del mondo semplicemente come Lula. Quando ha lasciato la carica di presidente, nel gennaio del 2011, Lula aveva un indice di popolarità dell’80 per cento. Durante gli ultimi cinque anni della presidenza Lula, Roussef è stata alla guida della Casa civil: un ruolo simile a quello di un primo ministro responsabile di tutte le competenze interne del governo, cui riferiscono gli altri membri del gabinetto. Nel 2010, un anno dopo aver sconitto un linfoma, Roussef è stata scelta dal Partito dei lavoratori per succedere a Lula, che l’ha sostenuta nella campagna elettorale. Roussef non si era mai candidata per una carica pubblica. Se oggi è presidente, è perché Lula ha voluto che lo diventasse. È dovuta passare per il ballottaggio, perché al primo turno non ha ottenuto il 50 per cento dei voti, e se ha vinto è grazie allo schiacciante sostegno di quella parte del paese dove Lula è quasi una divinità: il nordest povero e abitato soprattutto da afrobrasiliani. Nel sud, dove ha trascorso gran parte della sua vita, Roussef ha perso. Nelle sue memorie, Fernando Enrique Cardoso, che è stato presidente del Brasile dal 1995 al 2003, scrive che parlare con Lula è praticamente impossibile perché è sempre in giro. Per quanto ne so io, Lula è raggiungibile attraverso i suoi assistenti, ma rimane sfuggente. Lo incontro in un tardo pomeriggio di inizio agosto, in un nuovo Soitel di São Paulo, una delle tante tracce della prosperità portata da Lula. Mi accoglie in una delle migliori suite dell’albergo insieme a due collaboratori. Lula è un uomo basso e tarchiato con la barba e i folti capelli grigi. Indossa un abito gessato grigio sopra una maglietta di seta nera. I suoi assistenti mi spiegano che questa è la prima lunga intervista che rilascia da quando non è più presidente. Ci sediamo intorno a un non parla inglese, perciò ho chiesto a un’interprete, Elizabeth Bastos, di accompagnarmi. Bastos ci dà gli auricolari per la traduzione simultanea. Poco dopo, però, Lula comincia ad agitarsi e si toglie l’auricolare. Avvicina la sua sedia alla mia, quasi ino a siorare le mie ginocchia, e fa cenno a Bastos di sedersi appena dietro di lui. Come molti grandi politici, Lula ama stabilire un contatto isico quando è faccia a faccia con qualcuno. Spinge verso di me il suo viso largo e triangolare, dai tratti forti. Parlando sgrana gli occhi marroni, muove le sopracciglia, agita le gambe e mi tocca il ginocchio con l’indice. Lula mi spiega che quando era presidente non è riuscito a seguire la prassi costituzionale che regola i rapporti tra potere esecutivo, partiti e congresso. “Qui è tutto più complicato”, dice. “Io la chiamo democrazia diretta. Sono andato incontro alla società civile in modo che la società civile potesse produrre le politiche pubbliche che interessavano al mio governo. Tutti i grandi temi sono stati discussi a livello locale, regionale e nazionale. Pochi governi al mondo praticano la democrazia come facciamo noi. Al culmine della crisi, nel 2008, abbiamo consultato sia gli imprenditori sia i lavoratori”, dice lasciando intendere che in occidente questo non succede. Chiedo a Lula se la presidenza ha cambiato le sue posizioni politiche, soprattutto sulla gestione dell’economia. “Penso di sì”, risponde. “Le mie posizioni sono cambiate perché essere presidente è un po’ come essere padre. Quando sei iglio, sei convinto che tuo padre abbia valanghe di soldi da darti. Quando sei un leader dell’opposizione o di un sindacato, sei convinto che il governo abbia valanghe di soldi. Quando ti ritrovi al governo, scopri che tutti quei soldi non ci sono, e che devi pagare dei conti venti volte superiori alle tue inanze. Insomma, ho scoperto che l’economia non è semplice come credevo quand’ero nel sindacato, ma neanche complessa come sostengono alcuni politici. Per crescere, dobbiamo distribuire la ricchezza. È un punto che ha sempre messo in diicoltà gli economisti. Noi abbiamo dimostrato che è possibile crescere, distribuire il reddito, e farlo favorendo l’inclusione sociale ed evitando l’inlazione”. Sul piano internazionale “ho scoperto una cosa: i politici sono incredibilmente gelosi”, dice scrollando la testa con aria triste e pensosa. “Chi ha già un posto al banchetto non vuole che gli altri partecipino”. Poco dopo il suo insediamento, Lula è andato nel sud del Brasile, dove ha fatto un discorso sulla povertà, e poi a Davos, per il vertice annuale dei padroni dell’economia globale. “Ho fatto lo stesso identico intervento”, ricorda. “Probabilmente sono l’unico politico ad aver lanciato lo stesso messaggio in un forum sociale e al Forum economico mondiale. A Davos ho incontrato molte persone, e una volta tornato in Brasile ho detto al ministro degli esteri che dovevamo darci da fare per cambiare la geograia commerciale e politica del mondo. Abbiamo deciso di raforzare i nostri rapporti con il Medio Oriente, la Cina, l’India e l’Africa, senza per questo rovinare i rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa. Volevamo diversiicare il più possibile i nostri partner, fare affari con molti paesi”. Side sportive Nei prossimi anni, il Brasile avrà più di un’occasione per mettersi in mostra o fare una pessima igura. Tra il 20 e il 22 giugno si terrà il vertice Rio+20 sullo sviluppo sostenibile, vent’anni dopo la prima conferenza di Rio. Poi ci saranno i Mondiali di calcio nel 2014 e le Olimpiadi nel 2016, che si svolgeranno in gran parte a Rio de Janeiro. Le bellezze della città sono note, così come i suoi punti deboli: aeroporti inadeguati, traico spaventoso, forte povertà e criminalità nelle favelas che coprono le colline della città. Non esistono treni passeggeri tra Rio e São Paulo, che sono due tra le più grandi metropoli del mondo. Una decina di stadi e vari musei – progetti che valgono miliardi di dollari – dovrebbero essere completati in teoria prima di questi eventi. Il governatore dello stato di Rio de Janeiro è Sérgio Cabral, spesso indicato come possibile futuro presidente del Brasile. Cabral governa da un grande comprensorio circondato da mura. Il giorno del nostro appuntamento è in ritardo: ha partecipato con Lula a una cerimonia pubblica, poi ha accompagnato l’ex presidente con l’elicottero di stato a un altro appuntamento. Figlio di un giornalista imprigionato durante la dittatura, Cabral è un politico nato. Mentre Lula ha uno stile conidenziale, Cabral è un tipo esuberante. È un uomo afascinante e dinamico, con i capelli folti e scuri e un’aria baldanzosa. Dovremmo parlare dei piani che lui e Dilma Rousseff hanno messo a punto per migliorare Rio (Cabral parla inglese con molto entusiasmo e un po’ meno accuratezza), ma l’euforia per l’incontro con Lula lo distrae. “Il presidente è un uomo eccezionale”, esclama. Come gran parte dei politici brasiliani che ho incontrato, Cabral tende a esaltare il modello economico del suo paese: “È molto importante non avere problemi con il debito pubblico, come sta succedendo ora a Obama”, spiega. “L’opposizione repubblicana è diversa dall’opposizione in Brasile. Credo che l’ostilità verso un nero non dovrebbe poter mettere un paese in diicoltà. Non rispettano Obama perché è nero, e questo è grave non solo per Obama, ma per il paese. In Brasile l’opposizione ha tentato qualche colpo basso contro Lula, ma i cittadini lo hanno sostenuto. Gli impiegati, i neri, gli operai, le donne. Il mondo sta cambiando, per fortuna”. Mentre parliamo, una grande tv appesa al muro riporta una dichiarazione appena rilasciata da Lula alla stampa, la stessa che aveva fatto a me in precedenza: se mai Roussef non dovesse ricandidarsi nel 2014 sarà solo perché non vorrà farlo. Mi era sembrata una frase un po’ sibillina, ma Cabral mi assicura che è un messaggio di sostegno di Lula alla sua delina. Poi, prima di uscire, si gira un’ultima volta ed esclama: “Lula è il nostro leader. Lula è il mio leader”. Cambio di rotta La tappa successiva è la favela di Santa Marta, diventata famosa in tutto il mondo dopo che Spike Lee ci ha girato il video della canzone di Michael Jackson They don’t care about us nel 1996. Per arrivare a Santa Marta bisogna prendere una funivia a due piani che sale su una collina molto ripida. In cima c’è un commissariato di polizia con una targa in onore di Cabral e dei suoi colleghi. L’ediicio in origine doveva essere un asilo nido, ma i rischi legati alla criminalità erano così alti che i genitori non avevano il coraggio di portarci i igli. Nel 2008 il governo ha deciso di applicare a Santa Marta la sua nuova politica di lotta alla criminalità. Centinaia di poliziotti hanno occupato la favela e hanno “riportato la pace”. I muri della stazione di polizia sono ancora crivellati di fori di proiettile, un ricordo delle sparatorie tra gli agenti e la gang che comandava nella favela. Con il tempo la situazione si è stabilizzata e la banda di narcotraicanti si è dileguata. L’occupazione si è trasformata in un complesso esperimento di community policing (polizia di comunità). Nel quartiere, che conta circa diecimila persone, ci sono oltre un centinaio di agenti in servizio permanente. In tutta la favela si stanno installando cavi elettrici e telefonici e realizzando costruzioni di cemento. In giro si vedono locali adibiti a chiese, centri di assistenza sociale, poliziotti che fanno le ronde, baretti, ristoranti e altre attività, e tutto questo grazie ai sussidi pubblici. Oggi ci sono venticinque unità di polizia simili nelle favelas di Rio. Il governo spera di portarle a quaranta entro il 2014. La più grande favela di Rio, Rocinha, è stata occupata da tremila poliziotti nel novembre del 2011. Questo piano è un esempio impressionante dell’ambizione e del potere del governo brasiliano, deciso a ripulire l’immagine del paese in vista dei Mondiali e delle Olimpiadi. Ma rivela anche il suo enorme bisogno di risorse, indispensabili se vorrà davvero fare un passo avanti nel programma di sviluppo nazionale. Dilma Roussef, che oggi ha 64 anni, è iglia di Pétar Russév, un ex comunista bulgaro che in seconde nozze sposò una brasiliana molto più giovane di lui. Fuggito in Brasile negli anni trenta, Russév cambiò il suo nome in Pedro Roussef, diventò un imprenditore di successo e fece crescere i tre igli in un ambiente colto e benestante. Quando ci fu il golpe militare in Brasile, nel 1964, Roussef era una studentessa universitaria. Ben presto il suo impegno politico si radicalizzò. Nel 1967 sposò un altro militante, Cláudio Galeno Linhares. Vivevano in clandestinità, trasportando e immagazzinando scorte di pistole, bombe e soldi rubati, progettando ed eseguendo “azioni”. Dopo qualche anno Galeno si trasferì a Porto Alegre e Roussef rimase a Rio, dove conobbe Carlos Araújo, l’uomo con cui è rimasta per venticinque anni. Nel 1994, quando Roussef scoprì che Araújo aveva avuto un iglio da un’altra donna, la loro unione di fatto inì. Oggi i due sono legati da un rapporto di amicizia. A quanto pare progettarono insieme l’azione inanziariamente più riuscita del loro movimento: il furto, nel 1969, di 2,5 milioni di dollari da una cassaforte in casa dell’amante dell’ex governatore di São Paulo. All’inizio del 1970 i militari riuscirono ad arrestarla. Roussef passò tre anni in carcere, dove fu bastonata e torturata con scariche elettriche e altri strumenti. Una volta liberata, e dopo essersi ristabilita, Roussef si laureò in economia e fu assunta da un centro studi. Si iscrisse a un partito afermato, il Partido democrático trabalhista (Pdt), e cominciò a lavorare per il governo a Porto Alegre, dove oggi vive sua iglia. Fece carriera fino a diventare segretario per l’energia dello stato di Rio Grande do Sul. In quel periodo ha conosciuto Lula, che fu così colpito da Roussef da decidere di nominarla ministro dell’energia nel suo governo. Dopo essere stata eletta presidente, Roussef ha preso le distanze dalle scelte più estreme di Lula in politica estera. Avendo subìto la tortura, ha criticato i governi che ne fanno ricorso, aggiungendo che i rapporti diplomatici con l’Iran sarebbero cambiati. Ha ordinato il ritiro delle truppe brasiliane da Haiti. Non è l’umiltà a dettare la sua politica estera, ma la ricerca di più efficienza e meno stravaganza. Con la sua grande determinazione, Roussef sembra voler raforzare l’importanza del Brasile e, in generale, dell’ideologia secondo cui la società è più importante del mercato. Per la sua prima visita importante da presidente è andata in Cina, non negli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama è andato in visita a Brasilia prima che Roussef andasse a Washington. L’occasione era un po’ delicata. Obama e la Nato avevano appena deciso di bombardare la Libia, una mossa che il Brasile non appoggiava. Durante l’incontro con Roussef e con il ministro degli esteri Antonio Patriota, Obama si è scusato e per mezz’ora si è dovuto occupare della questione libica. Il senso della visita, comunque, era chiaro. Lula è andato al potere in un paese di poveri che Cardoso aveva preparato al progresso. Rousseff governa un paese il cui centro di gravità si è spostato verso quella che i brasiliani chiamano “la classe C” – la classe medio-bassa – grazie alla crescita economica e al successo di programmi sociali come Bolsa família. Il Brasile ha 190 milioni di abitanti. Dieci anni fa, circa quaranta milioni di persone facevano parte della classe media o lavoratrice: oggi sono centocinque milioni. Il sistema politico-economico del Brasile è costruito in modo da favorire i più poveri e le grandi imprese legate al governo. Meno del dieci per cento della popolazione paga l’imposta sul reddito. La maggior parte riceve una qualche forma di sussidio dallo stato. La banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale (Bndes) è la principale fonte nazionale di prestiti agevolati alle imprese. In un paese dominato dalla classe media, i cittadini non chiedono al governo solo di essere protetti dalla povertà, dalla fame, dalla criminalità e dalle malattie. Vogliono scuole moderne, infrastrutture, un’economia più sviluppata, stipendi più alti e politici più onesti. Il primo obiettivo annunciato da Roussef è stata la lotta alla povertà, ma il suo vero compito, come presidente, è cominciare a costruire un governo per un paese con una classe media sempre più importante. Questo signiica impostare una politica di austerità iscale, continuare a sostenere le imprese e soddisfare le attese della classe media sugli sprechi del governo. Le critiche di Cardoso Dilma Roussef ha riabilitato Cardoso, che durante la presidenza di Lula non era ben visto a Brasilia. Nel marzo del 2011, in occasione della visita di Obama, Rousseff ha invitato Cardoso al pranzo uiciale. Quando Lula ha saputo la cosa, si è improvvisamente accorto di avere già un impegno per quel giorno. A giugno, quando Cardoso ha compiuto ottant’anni, Rousseff ha reso pubblica la calorosa lettera di auguri che gli aveva scritto. Rendendo omaggio a Cardoso, ha mandato un messaggio importante al mondo delle banche e delle aziende brasiliane, dove l’ex presidente è molto stimato. Cardoso vive in un appartamento moderno in un quartiere ricco di São Paulo: più che un ex capo di stato, sembra un docente universitario in pensione. Il giorno del nostro incontro è appena tornato da un lungo viaggio in Europa. Sotto i folti capelli bianchi porta un paio di occhiali dalla montatura sottile. Indossa una giacca di tweed, pantaloni e mocassini di pelle. Ci sediamo a chiacchierare nel suo salotto. Cardoso, che parla varie lingue, tra cui un ottimo inglese, ha passato la vita ad analizzare la società brasiliana. Ha la capacità, rara per un politico, di mantenere un certo distacco dalle questioni in gioco. Nelle sue memorie racconta di aver scoperto la povertà leggendo Furore di John Steinbeck, quando era ancora un ragazzino in un paese spaventosamente povero. Ma distacco non vuol dire impassibilità. Un giorno George W. Bush gli chiese: “Ci sono neri in Brasile?”. Cardoso rimase sconvolto: circa metà della popolazione brasiliana ha origini africane. L’ex presidente tiene molto alla salute del sistema politico brasiliano. “Non avrei mai pensato di essere così deluso da Lula”, ha scritto. Secondo lui, Lula ha gestito il governo come fosse un distributore di soldi, senza far nulla per raforzare le basi dell’economia. Ho chiesto a Cardoso di descrivere l’attuale modello politico e di governo del suo paese. “Non saprei”, risponde. “Non sappiamo ancora quanto sia sviluppato il capitalismo basato sulla concorrenza e quanto ancora resista il vecchio modello del capitalismo burocratico. Il nostro è un intreccio dei due sistemi. Un modello forte come quello cinese è basato sul controllo dell’economia, e così molte persone in Brasile giustiicano questo tipo di controllo. Ma nel nostro caso è come se tornassimo indietro verso un maggiore controllo dell’economia e della società da parte dello stato. D’altra parte il Brasile farebbe fatica ad abbracciare il modello statunitense. L’dea che l’individuo sia l’essenza della società è più radicata negli Stati Uniti che non qui da noi. Noi siamo più collettivisti. Crediamo nell’importanza dello stato. E non so neanche ino a che punto il modello statunitense sia rimasto quello che era. Oggi negli Stati Uniti ci sono due prospettive diverse. La società probabilmente non è così divisa dai tempi di Roosevelt”. Un pomeriggio al Planalto, in una pausa tra due appuntamenti, il ministro della comunicazione sociale Helena Chagas – che per settimane ha risposto con amabile evasività alle mie richieste di incontrare la presidente – arriva di corsa dicendo che Roussef vuole vedermi. La seguo ino a un grande uicio sorvegliato da un militare. Rousseff mi accoglie sulla porta con un’energica stretta di mano e mi fa cenno di entrare. Ci accomodiamo, lei da un lato e alcuni assistenti, la mia interprete Hilda Lemos e io dall’altro, prendendo posto su sedie e poltrone. Faccio le domande in inglese e Rousseff, dopo aver annuito, risponde in portoghese. È una donna alta, con una fronte ampia e grandi occhi luminosi. Quando parla sembra sempre che stia davanti a un pubblico: muove le mani e si guarda intorno per assicurarsi che le sue parole rimangano bene impresse. Comincia parlando dell’economia del Brasile. “Ci troviamo in una situazione diversa da quella degli Stati Uniti e dell’Unione europea”, dice. “Nel 2008 avete avuto una crisi nel cuore stesso della vostra economia. Per come la vediamo noi, non siete riusciti a superare le cause di questa crisi. Una delle cose che più ci colpisce è come mai l’economia statunitense non riesca a riprendersi, visto il suo ruolo sul piano internazionale”. Fa una pausa per permettere al piccolo pubblico di rilettere, poi ci dà la risposta: “I beneici sembrano essere andati a chi ha provocato la crisi, soprattutto le grandi banche, mentre i consumatori hanno dovuto pagare il prezzo della bolla dei subprime pur di tenere la casa e ritrovare la loro capacità di consumo. La reazione degli Stati Uniti e dell’Unione europea è stata quella di esportare la crisi. Hanno sommerso il mercato di eccessiva liquidità”. Roussef allude, in parte, alla politica dell’alleggerimento quantitativo promossa dalla Federal reserve (la banca centrale statunitense), una politica che a Roussef non piace perché raforza il real rispetto al dollaro e danneggia le aziende brasiliane che vogliono esportare e competere con i prodotti statunitensi sul mercato interno (a gennaio la produzione industriale brasiliana è diminuita del 3,4 per cento rispetto all’anno precedente). “Certo, questo favorisce le esportazioni statunitensi, ma è anche vero che in paesi come il Brasile provoca uno squilibrio. E non perché questi paesi siano meno competitivi. Ma perché il sistema crea incentivi in modo artiiciale”. Roussef sa che il protezionismo ha una brutta fama, soprattutto negli Stati Uniti. “Non abbiamo intenzione di tornare al favoritismo dell’ottocento e del novecento”, aferma. “Non ha funzionato. Dobbiamo usare il meccanismo che abbiamo a disposizione. I nostri prodotti sono economici, ma dobbiamo fare i conti con un tasso di cambio sproporzionato. Se vogliamo portare avanti la nostra politica di distribuzione del reddito, dobbiamo fare in modo che l’economia continui a crescere senza inlazione e continui a creare reddito. Abbiamo sollevato milioni di brasiliani ino alla classe media. Abbiamo creato il nostro mercato, con molti sforzi. Non sarebbe mai cresciuto se non avessimo ridotto le diseguaglianze”. In queste parole c’è il bisogno di difendersi, la voglia di afermarsi e la convinzione che il Brasile abbia capito meglio degli Stati Uniti come gestire l’economia del ventunesimo secolo. “Abbiamo sempre difeso il mercato regolamentato. È importante per la ripresa degli Stati Uniti e dell’Europa. Ogni giorno mi auguro che l’occupazione aumenti negli Stati Uniti. Non concepiamo il Brasile come un paese isolato”. Le chiedo se il suo lontano passato da militante conta qualcosa nella sua esperienza da presidente. Senza esitare risponde di sì. “Non smettiamo mai di cambiare. Acquisiamo più esperienza. Le esperienze del passato mi hanno arricchita molto. Senza, non sarei arrivata in qui. Mi hanno resa generosa, spingendomi a volere un paese che cambia, un paese sovrano”.