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 2012  maggio 18 Venerdì calendario

RIVERA: «QUANTO MANCA UN PARON»


Il nostro calcio ha avuto diversi padroni e padroncini, ma un so­lo grande Paròn, Nereo Rocco. Il 20 maggio ricorre il centenario del­la nascita di questo triestino del pal­lone, letterario e poetico quanto i suoi illustri concittadini Umberto Saba e Italo Svevo. Nella città atta a­gli eroi e ai suicidi - come vuole Giampiero Mughini -, Trieste, Roc­co venne al mondo sotto l’impero austriaco («Mi son de Fran­cesco Giuseppe», si vantava), ma la sua unica bandiera fu quella del «triestìn». Un trie­stino sanguigno, un “manso” figlio di macellai che con in­gegno tritò tutti gli stilemi del metodo Chapman, per idea­re l’italica e rocchiana “difesa a quattro”. Con quella roc­caforte, invalicabile, fece par­lare delle sue creature, Triestina e Pa­dova. Poi con un capitano di genio come Gianni Rivera, portò il Milan sul tetto d’Europa e alla conquista del mondo. «Mejo de lu go’ visto so­lo Meazza», disse entusiasta dinan­zi al 16enne Rivera. Rocco e Rivera, un dualismo irripe­tibile nella storia del nostro calcio. «Rivera sta a Nereo come la callida volpe sta al toro manso. Ma bello è poterlo sentire figlio, alzare la voce e proteggerlo, lui toro, manso tutto de fora, estroverso, goliardo invecchia­to, e torvo solo per gioco, l’altro tut­to introverso, compito, abatin», scri­veva Gianni Brera in morte (il 20 feb­braio del 1979) del suo grande ami­co Rocco.

Un’amicizia “simbiotica” che a un certo punto si interruppe: pare per via delle critiche eccessive di Brera proprio a lei Rivera.
«Una delle tante leggende che circo­lano su Rocco. Come quella che in­ventò il “catenaccio”, quando invece al Milan si giocava con il 4-2-4 e se aveva cinque attaccanti li faceva gio­care anche tutti assieme. E poi le pre­sunte invidie o le schermaglie con Helenio Herrera... E anche questa storia, che lui e Brera avessero rotto a un certo punto e addirittura per colpa mia... Non esiste, su».
Ma a forza di attaccare l’amato “a­batino” pare che Rocco sbottò con­tro il gran Giuàn.
«Al gioco della critica, en­trambi eravamo ben allenati a sopportare. Rocco e Brera discutevano spesso, anche di me, ma non penso che io pos­sa essere stato un problema per la loro amicizia che si fon­dava su passioni comuni, a cominciare dalla buona tavo­la ».
Rivera infatti era l’unico calciatore ammesso alla tavola del club “Gli a­mici del giovedì”.
«Anche qui, non ero l’unico gioca­tore del Milan ammesso al club del giovedì. Sarò stato invitato due o tre volte, anche perché non è che po­tessi tirare a notte fonda e mangiare e bere a crepapelle tutte le settima­ne. Il giorno dopo ci si allenava per la partita della domenica e la nostra era una squadra che lottava per lo scudetto e la Coppa dei Campioni».
Ma il Paròn dicono che chiudesse un occhio, anche se il suo Gianni non rientrava in difesa...
«Ma quando mai... Se non davo una mano anche alla difesa dubito che mi avrebbe fatto giocare così tante partite. Io ero il suo pupillo, è vero, ma Rocco non faceva sconti a nes­suno. Pretendeva il massimo e non lo facevi fesso. Se non ti impegnavi e non davi tutto si infuriava».
E con il suo “goldenboy” quante vol­te si è infuriato?
«Non abbiamo mai litigato. Bastava un’occhiata tra di noi, forse perché capiva che sapevo abbastanza bene come prenderlo e non c’era bisogno né di alzare la voce né di scornarci».
Se le ricordo un suo “Mi te digo cos­sa far, ma in campo te va ti”, cosa le viene in mente?
«Tante partite vinte, con lui che dal­la panchina aveva “italianizzato” il triestino per renderlo comprensibi­le a tutti. Mi divertivo a sentirlo par­lare in dialetto e credo che ogni in­dicazione tecnica o qualsiasi consi­glio di vita non sarebbe stato così ef­ficace se non l’avesse espresso nella sua lingua madre».
Cosa pensava Rocco dei ritiri?
«Non li amava molto neanche lui, ma lo considerava comunque un modo saggio per tenere unito il grup­po e per poterci sfidare a carte».
Briscola e scopone scientifico?
«Ciapanò, il tressette a rovescio, in coppia con il suo vice Marino Ber­gamasco e a turno contro noi della squadra. Se perdeva, qualche “trie­stinata” per la stanza volava di sicu­ro ».
Un pregio e un difetto del Paròn.
«La sua scorza burbera e un po’ du­ra veniva vista come un difetto, ma era da quella che poi affiorava la sua grande umanità e la ricerca dell’in­contro aperto e generoso con gli al­tri ».
Come reagiva alla sconfitta?
«Non l’ho mai visto piangere per u­na partita... La sua forza era quella di non esaltarsi mai neppure davanti a una grande vittoria e allo stesso tem­po non si deprimeva nei periodi in cui i risultati non arrivavano».
Era un uomo di fede?
«Aveva una sua spiritualità. Come me, si confidava con padre Eligio che era stato chiamato dalla società per spiegare ai giovani di Milanello che “il mondo non finisce con il gioco del calcio”. Un messaggio che Rocco laicamente aveva già trasmesso alla squadra. Oggi non so se il concetto è così chiaro a tutti...».
E del concetto di “stress” del calcio odierno, cosa direbbe il Paròn?
«È una parola che non rientrava nel suo vocabolario, perciò a questi al­lenatori e calciatori che si lamenta­no di essere “stressati” immagino che li liquiderebbe con un serafico ma non fare il “mona”...».
Cosa le manca di Rocco?
«La sua fisicità. L’assenza di quella sua fortissima presenza è una sensa­zione che mi porto dietro dal giorno che se ne è andato via per sempre».
Qual è l’insegnamento che le ha la­sciato?
«Essere sempre se stessi, non spe­culare e non approfittare mai della si­tuazione, ma guadagnarsi da vivere e il rispetto degli altri attraverso il sa­crificio e il lavoro, serio e onesto, di tutti i giorni».