Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 16/5/2012, 16 maggio 2012
La pagella di Monti sei mesi dopo – A sei mesi dal suo insediamento, avevo stilato una lettera aperta a Mario Monti, una specie di check-up giornalistico sul modello organizzativo-manageriale del suo governo, ora frenata la mia supponenza, mi limito a riassumerne gli appunti
La pagella di Monti sei mesi dopo – A sei mesi dal suo insediamento, avevo stilato una lettera aperta a Mario Monti, una specie di check-up giornalistico sul modello organizzativo-manageriale del suo governo, ora frenata la mia supponenza, mi limito a riassumerne gli appunti. Da cittadino gli avevo dato un voto di periodo (6-), poi ho letto un retroscena (serio) che, oltre a rendermelo anche simpatico, ha portato il voto a 7-. Nel retroscena, tre confessioni: le sue notti passate a immaginare una soluzione ai debiti commerciali della pubblica amministrazione, l’avvertimento che la madre gli aveva dato «Fai tutto quello che puoi, che vuoi, ma non andare a Roma, non ti mischiare con la politica»; il rifiuto ad accettare il linguaggio di politici, sindacalisti, giornalisti, soprattutto gli insulti personali, dopo una vita passata a ricevere solo elogi (meritati). Analizzando i vari modelli per gestire una grande organizzazione umana, ne sintetizzo tre (politico-intellettuale-manageriale), a seconda dei profili professionali del leader. Dei «politici» sappiamo tutto, degli intellettuali al potere (Monti) siamo nella fase dell’apprendimento, sia sua che nostra, del modello manageriale che mi è caro pure. Ho la sensazione che Monti non si sia ancora reso conto della drammaticità della crisi ma anche dell’enorme potere manageriale di cui dispone. Rifletta su come ci è arrivato: immaginando che l’Italia sia un’Azienda, il Presidente del C.d.A. (Napolitano) accetta le dimissioni del precedente Amministratore Delegato (Silvio Berlusconi), avvalendosi di tutti i suoi poteri, spendendosi con generosità, spandendo moral suasion, impone un nuovo AD (Monti), i Consiglieri, delegati dal popolo (senatori-deputati), ob torto collo lo votano. Col passare del tempo, costoro cominciano a lamentarsi, prima innocue frecciate, poi valutazioni, anche personali, sempre più pesanti, il nuovo AD, non attrezzato alla bisogna, somatizza stanchezza, amarezza, tristezza. È il momento in cui l’intellettuale deve trasformarsi in manager, capendo gli oggettivi problemi dei Consiglieri. Costoro facendo critiche pesanti all’AD dimostrano di esistere, cercano di ricuperare credibilità, si «riposizionano» per le elezioni del 2013: ne hanno diritto. Cosa deve fare l’AD? Decidere in solitudine però tacere, mai aprire tavoli di confronto, mai talk-show, mai interviste, mai andare in Parlamento, mai disegni di legge (solo secchi decreti), però mostrare grande rispetto formale verso i Consiglieri. A questo punto i ruoli sono chiari, uno osserva dall’alto, uno comanda, gli altri si agitano ma votano: l’azienda funziona, il successo (o l’insuccesso) dipende solo dall’AD. Il suo successo sarà il nostro, questa esperienza straordinaria farà di lui un uomo diverso, certo dovrà pagare un prezzo: per il resto della sua vita sarà sempre a disagio, sia con i suoi ex colleghi eurocrati e accademici, sia con chi pensa, dice, addirittura scrive (!) «d’accordo, Monti non è Ciampi» (il più bel complimento che potesse ricevere). Fra tre mesi un altro check-up giornalistico, di routine.