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 2012  maggio 17 Giovedì calendario

"Sono un giocatore classico e moderno. Chi sia il più grande nella storia del tennis non so". Incontro con Roger Federer, a Roma per gli Internazionali – Direte, è facile sfiorare la perfezione o simularla quando ti chiami Roger Federer

"Sono un giocatore classico e moderno. Chi sia il più grande nella storia del tennis non so". Incontro con Roger Federer, a Roma per gli Internazionali – Direte, è facile sfiorare la perfezione o simularla quando ti chiami Roger Federer. Quando sei bello, ancora giovane, famoso e guadagni sessanta milioni di dollari l´anno, meglio di te solo Tiger Woods. Quando sei svizzero tedesco, e qualcosa vorrà ben dire anche se per fortuna non sei appassionato di orologi a cucù, hai giocato più di mille partite in ogni angolo della terra e sei stato per 237 settimane consecutive il numero uno della classifica mondiale. Quando possiedi un rovescio da Cappella Sistina e hai una moglie che custodisce i tuoi misteri assieme alle tue finanze e due gemelline che hai chiamato Charlene Riva e Myla Rose che sono una gioia e non patiranno certo un futuro da precarie. Puoi permetterti di essere amabile nei confronti del circo, anzi, hai il dovere di esserlo, sfoggiando con chiunque la stessa naturale noncurante precisione con la quale la prima cosa che fai dopo la doccia postallenamento è infilare al polso sinistro il Rolex, come da contratto con il tuo principale e storico sponsor. Ma poi ci sono particolari da cui si giudica un giocatore. E, forse, anche l´uomo. Mentre attendiamo che Roger indossi i pantaloni blu della tuta e una t-shirt amaranto e si presenti al rendez-vous con la sua faccia sempre perfettamente rasata, il fotografo Gianni Caccia che frequenta il circuito da trent´anni mi racconta di quella volta a Miami: «Ero piegato in due dal dolore alla schiena. Incrocio Federer, si ferma e mi domanda: che t´è successo? Gli spiego: una maledetta vertebra. Ti mando Pavel, il mio osteopata, mi fa, e gli dico di stare con te finché non ti rimette dritto. Due anni dopo ci incontriamo di nuovo agli Us Open e la prima cosa che mi dice è: ehi, Gianni! Come sta la tua vertebra? Lui è così: vede gli altri, non dimentica, è generoso. Averne, qui in mezzo... ». E scuote la testa. In una saletta del Foro Italico Federer ci aspetta in piedi, si siede solo dopo i saluti e soltanto dopo di noi, mi dice che è andato a vedere il Colosseo e San Pietro, che un´anca gli duole, quale lingua prediligo per la nostra conversazione - francese, inglese, tedesco, un po´ di italiano? - e che lui, se voglio, è pronto. Sorride e gli si formano le rughe sulla fronte, non ha più la faccia tonda e un po´ paffuta del ragazzino da latte che nel 2001 sconfisse Sampras in cinque set a Wimbledon ponendo fine alla striscia di trentuno vittorie consecutive dell´americano sull´erba del tempio del tennis. Il tempo lo ha asciugato, scucendogli di dosso la verginità di una adolescenza ritardata e ignara di sé. L´8 agosto compirà 31 anni. Rod Laver ha smesso a trentasei, come Agassi, McEnroe e Sampras a trentatré, Borg a ventisette. Ha detto Martina Navratilova qualche mese fa: «Roger ha un palmarès da record, potrebbe passare il resto della vita a sorseggiare margarita». Oppure skiwasser nel giardino dei Finzi-Contini. Ci sta pensando? «Oh, certo! Ma è più giusto che le risponda al passato: ci ho pensato. Ho preso delle decisioni e ho messo la questione da parte. Come sono convinto che se desideri troppo intensamente una cosa non l´avrai mai, allo stesso modo credo che se pensassi troppo al mio ritiro la mia carriera finirebbe molto prima del previsto. Non mi nascondo la realtà. Ho alle spalle più strada di quanta me ne resti da percorrere, so che il tennis si fermerà molto presto». Quali decisioni ha preso? «Giocare ancora quattro, forse cinque anni. Sto bene e mi auguro che il fisico non mi tradisca». Ho letto da qualche parte che vuole vincere le Olimpiadi a Londra e ancora una volta Wimbledon. È vero? «Nel cuore ci sono molte cose. Nella testa so che voglio tornare a essere il numero uno». Ha scritto André Agassi: "Odio il tennis eppure continuo a giocare perché non posso fare altrimenti. Ho 36 anni, ma al risveglio me ne sento 96. Dopo trent´anni di scatti, di arresti improvvisi, balzi e atterraggi il corpo non sembra più il mio, neanche la mente". Le è mai successo? Ride. «Devo confessarle una cosa. Ho il libro di André. Ne ho letto solo venti pagine. Non so perché, forse per la semplice ragione che non ho molta confidenza con i libri. Dieci, quindici anni di tennis sono pesanti e quando invecchi ogni anno ti sembra doppio. Spesso il mattino è il presentimento del nostro destino, conosco bene i dolori di cui parla Agassi. La spalla, la schiena... Ho bisogno di essere curato, di dormire bene, di mangiare sano. Sa, ho pianto molto in tutti questi anni, ma non ho mai sofferto di depressione. Mai finito in un buco, dentro un pozzo. I match che ricordo più volentieri sono quelli che stavo perdendo e sono stato capace di ribaltare». Lei dà l´impressione di camminare senza scarpe, come se i suoi piedi non toccassero terra. Ion Tiriac ha usato questo paragone per spiegare quanto poco sforzo lei faccia in campo: "Nadal suona la batteria, Federer suona il pianoforte". È d´accordo? «Sono stato fortunato e ho avuto buoni allenatori. Sono cattolico, devo ringraziare anche Dio per i talenti che mi ha dato». Il tennis è un gioco criminale, molto dipende da spazi e tempi quasi infinitesimali, particolari che possono sembrare trascurabili risultano invece decisivi. Dice Ivan Lendl: "Con l´età i movimenti diventano un po´ più lenti. Non tanto correndo in avanti, quanto nell´invertire la corsa. Quando si cominciano a perdere frazioni di secondo qua e là, alla fine si sommano e fanno male. Ci siamo passati tutti, ci è passato Sampras, ci sono passato io e toccherà anche a Federer". Vede lampeggiare qualche spia di allarme nel circondario? «Le ho viste, soprattutto quando avevo la mononucleosi. Sa che cosa, soprattutto? Le palle. Le palle arrivavano più veloci. Non riuscivo a giocare sia in difesa sia in attacco. Dovevo stare sulla linea di fondo. Oggi sto bene, mi sento forte, penso positivo. Può sembrarle banale, ma la vita può anche essere semplice». Come si gestisce il declino di un atleta straordinario come lei? «So che non lo trascinerò, non mi farò a brandelli. Spiegherò: ragazzi, questa sarà la mia ultima stagione. Quando si fermeranno le mie gambe, mi fermerò. Sarò felice nell´altra vita: la famiglia, gli amici, la mia casa, la fondazione per i poveri del Sudafrica. Cercherò di restare nel tennis. Mi piacerebbe fare il capitano di Coppa Davis per il mio Paese, allenare i ragazzi, decidere percorsi che in questo momento sono impraticabili». Lei è davvero felice, se si può usare questa parola intraducibile anche sul piano filosofico? «Sono contento, equilibrato, realista. Non dimentichi che sono svizzero, quindi poco propenso a viaggiare con la mente verso pianeti lontani. Se devo stilare una classifica della felicità, metto tre momenti, in ordine temporale: la prima vittoria a Wimbledon, il matrimonio con Mirka e la nascita delle mie figlie, gemelle, una sensazione meravigliosa e bizzarra». Voleva Wimbledon fin da bambino? «No, i miei genitori non mi avevano programmato come è capitato a Martina Hingis. Ci ho pensato solo nel ´98, dopo il successo nel torneo juniores. Se hai vinto questo, mi sono detto, perché non dovresti farcela presto anche con quello professionistico?». Essere divenuto padre l´ha cambiato? «No, possedevo già un mio orizzonte. Non ho bisogno di una famiglia per tenere gli occhi aperti, sapere come va il mondo e quanto io sia fortunato e ricco. La paternità non ti cambia, ti aggiunge qualcosa, anche fisicamente. Con Charlene e Myla faccio cose che non ho mai fatto o che avevo dimenticato: gettare un sasso nell´acqua, andare allo zoo, tenere in braccio una calda parte di te. E poi loro sono la vita, voglio dire che impersonano l´estremità opposta alla morte. In questa fase della mia esistenza sono circondato da molte persone che hanno figli piccoli, un´atmosfera che mi regala una sensazione di eternità». Aerei, alberghi, auto, spogliatoi e ancora aerei, alberghi, auto e spogliatoi. Non soffre la solitudine, il vuoto? «Solo in campo, molto spesso. Mi dico: Roger, c´è troppa calma qui dentro. Anche per questa ragione, fuori, voglio tanta gente attorno, cerco qualcuno che mi tenga compagnia anche per la colazione del mattino o un caffè». Il tempo è scaduto, ammonisce il responsabile dell´Atp che si occupa dei giocatori a Roma. Ci ricorda che avevamo mezz´ora. Federer gli fa un cenno, andiamo avanti. Le cito ancora Agassi, dopo aver perso l´ultima volta con lei: "È semplicissimo, la maggior parte delle persone ha dei punti deboli. Federer non ne ha. Compatisco chi lo dovrà affrontare". E poi Gianni Clerici: "Il poeta è Federer". Che cosa è più importante: la vittoria o la perfezione del gesto? «Le vittorie ti dicono sempre la verità. Certificano se sei bravo o no. Sono orgoglioso di essere stato il migliore al mondo in qualche cosa, in un mestiere. La gente mi ammira, tutti ascoltano quello che ho da dire, osservano e giudicano ciò che faccio. Con gli anni ho capito che se hai preso tanto qualcosa devi restituire. Il gesto tecnico? Oh, sicuro: mi piace vedermi giocare, sentirmi giocare, mi sento felice come quando da bambino ho tirato i primi colpi belli con una racchetta e la racchetta mi pareva il prolungamento del mio corpo. Mi riconosco nella definizione di giocatore classico e moderno. Nel tennis ci sono tre colpi fondamentali: battuta, dritto, rovescio. Se li hai tutti puoi stare in campo anche se quel giorno due non ti funzionano, ma se ti molla anche il terzo è il disastro». Che cosa ha imparato dalle sconfitte? «A reagire. E a accettare di non poter essere sempre il migliore». Vecchio dilemma: è lei il più grande tennista di tutti i tempi? «Io mi sono perso decenni di storia. Ma so quali sono stati i campioni e quali le leggende: Laver, Rosewall, Newcombe, Borg, Connors, McEnroe, Becker, Lendl, Agassi, Sampras...Un tempo il montepremi di un torneo era di cento franchi o un voucher per il pranzo, oggi il circuito si è trasformato in un enorme business. Dobbiamo ringraziare chi è venuto prima di noi, sono stati loro a consentirci di realizzare un sogno incredibile. Su chi sia il più grande non c´è risposta».