Isabella Mazzitelli, Vanity Fair n. 20 23/5/2012, 23 maggio 2012
Il cuore di questa grande villa tra i pini dell’Eur batte in una stanza semplice e segreta, dove è raccolto l’archivio di Sergio Leone
Il cuore di questa grande villa tra i pini dell’Eur batte in una stanza semplice e segreta, dove è raccolto l’archivio di Sergio Leone. Da qui i figli hanno tirato fuori i materiali – i bollettini di montaggio, i preziosi «positivi» (perché alcuni negativi erano andati persi) – che sono serviti al restauro di uno dei più bei film della storia del cinema, C’era una volta in America. A 28 anni dall’uscita, il film del regista e produttore morto sessantenne nel 1989 rivede la luce il 18 maggio al Festival di Cannes, per poi tornare nelle nostre sale: un progetto che la famiglia Leone ha inseguito per anni e che si è concretizzato grazie a Gucci (main sponsor) e al suo direttore creativo Frida Giannini, alla Film Foundation di Martin Scorsese, alla Cineteca di Bologna che ha materialmente restaurato la pellicola. Raffaella Leone, 50 anni, due figli, è la primogenita di Sergio, e a 20 ha cominciato a lavorare con lui – «Devi essere la prima a entrare sul set e l’ultima a uscire» – come «aiuto dell’aiuto dell’aiuto costumista», manovalanza in sartoria, gavetta gratuita sotto l’occhio severo del padre («Non ti posso pagare, non sai fare niente, diceva: ma poi forse feci pena all’organizzatore, che mi mise a libro paga, e con quei soldi destinati a un motorino comprai invece un cane»). Ha un fratello di 43 anni, Andrea, con cui lavora alla società di produzione e distribuzione Andrea Leone Films – hanno coprodotto il nuovo film americano di Gabriele Muccino, a Cannes distribuiscono Paperboy con Nicole Kidman – e una sorella, Francesca, 48, che fa la pittrice: intensi primi piani e dettagli di visi, tali e quali le inquadrature strettissime del padre. «Tutto di lui in fondo è rimasto a noi figli», dice Raffaella, «ciascuno ne ha preso un pezzetto minuscolo». Molti altri hanno preso: «Give Me a Leone», diceva Quentin Tarantino quando in un’inquadratura voleva solo il taglio degli occhi. Questo di C’era una volta in America è un progetto sentimentale. «Sono cresciuta in una famiglia patriarcale, e mio padre ne era l’ingombrante sole: uomo meraviglioso, concentrato, accentratore, che mi ha portato sul set da piccola, tra la polvere degli spaghetti western in Spagna. A 8 anni passavo interminabili pomeriggi al montaggio: ogni suono avanti e indietro cento volte, a valutare se il cigolio di una ventola andava bene. All’uscita, in Italia, C’era una volta in America era stato tagliato di una ventina di minuti da papà, ed era venuto benissimo. Negli Stati Uniti, invece, era uscita una versione catastrofica: tagliato di oltre un’ora, rimontato, stravolto. Papà non l’aveva mai voluto vedere». Questa che versione è? «Quella originale, integrale: lui aveva sempre avuto l’idea di rimontarlo, ma ci voleva l’autorizzazione del produttore, Arnon Milchan. Dopo tanti anni e tanti tentativi abbiamo finalmente riacquistato i diritti per l’Italia. Papà ne sarebbe felicissimo. Per me questo film è un terzo fratello: ne ho sentito parlare a pranzo e a cena per dieci anni, era l’unica cosa che lui volesse veramente fare, tanto che per tutto quel tempo rifiutò di dirigere qualunque film, compreso Il Padrino». Com’era sul set? «Di questo film ricordo un’atmosfera meravigliosa. Ero la più piccola, facevamo scherzi. Una volta ammanettai mio padre alla sedia da regista. Si arrabbiò come una furia». A Cannes ci sarà la rimpatriata. «Hanno tutti detto subito di sì, a cominciare da Robert De Niro». È vero che De Niro a fine set regalò a tutta la troupe una piastrina come quella dei soldati americani? «Sì, con la scritta “Congratulations, you’ve survived Once Upon A Time In America”». Suo padre si offese? «Ma no! Le liti furibonde erano con Tonino Delli Colli, il direttore della fotografia e, assieme a Ennio Morricone, uno dei migliori amici di mio padre. Una volta quasi se ne andò perché papà, invece di girare una scena a Brooklyn – la luce era perfetta, Tonino la aspettava da un pezzo e sarebbe durata poco – era a mangiare baccalà nella trattoria dietro l’angolo. Ma poi facevano pace. Tonino si preoccupava per la salute di papà, c’era il progetto di un film sull’assedio di Stalingrado e lui diceva: “’Nvece d’annà a morì ’n Russia, nun potemo fa’ ’n bel giallo a Parigi?”. E ogni Natale, quando noi figli regalavamo a nostro padre un portafoglio di Gucci che lui considerava un portafortuna, Tonino reclamava quello vecchio: si considerava parte della catena della fortuna». Sua madre Carla che moglie è stata? «Un passerotto d’acciaio. Sono stati complementari: lui aveva assoluto bisogno dei suoi pareri. Per la musica, il suo orecchio era lei che ci aveva vissuto in mezzo, ballerina classica, perché papà era stonatissimo». Ho visto una foto di suo padre magrissimo. «Sarà stato molto giovane: io non ho ricordi di mio padre magro. Il cinema era la sua passione, la cucina la sua goduria. Gran mangiatore di pasta, sosteneva la scientificità di improbabili regimi a base di spaghetti. Diceva di non amare i dolci, ma una volta per Pasqua arrivò con un enorme uovo di cioccolato che, giorno dopo giorno, si afflosciava. Poi scoprimmo perché: lo demoliva lui da sotto, staccando pezzetti di nascosto». Con voi figli com’era? «Capace di grande generosità, ma anche di insospettabili cautele. Odiava lo sperpero in cucina, controllava la spesa. Quando litigavamo non se la prendeva se gli davo dello stronzo, si infuriava se alzavo gli occhi con sufficienza. E ci criticava quando giocavamo a Trivial Pursuit». Perché? «Perché lui non ci giocava. Poi una volta ha provato, ed è capitata a lui la domanda di cinema: “Chi è il regista di Per un pugno di dollari?”. Lui si è fermato un attimo, ha fatto una faccia tenerissima e ha detto: “So’ io”». Isabella Mazzitelli