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 2012  maggio 17 Giovedì calendario

I CONTI IN ROSSO CHE INCOMBONO SULLO ZIO SAM

Possono gli Stati Uniti fare qualcosa per la crisi dei conti pubblici europei e dell’euro? Non molto, se non qualche appoggio in seno al Fondo Monetario, per quello che vale, ma più buone parole che cash, perché gli Stati Uniti debbono urgentemente pensare alla crisi del proprio debito sovrano. Lo zio Sam è come la vecchia Europa al pronto soccorso quanto a conti pubblici, o sta per andarci presto, e speriamo guarisca in fretta, perché ne abbiamo tutti bisogno. Del resto le notizie, nei mesi scorsi, di Tesoro e Federal Reserve che invitavano quietamente banche e finanziarie americane ad alleggerire le posizioni in titoli sovrani europei dovrebbero fare intuire qualcosa. È difficile pompare l’acqua dalla stiva altrui quando anche il proprio scafo ne sta imbarcando.
Lo sfidante repubblicano Mitt Romney ha paragonato martedì il debito Usa a un prairie fire, incendi inarrestabili che bruciano le alte sterpaglie in aree grandi quanto mezza regione italiana. Ed è così.
Solo che i repubblicani sono i meno titolati a cavalcare l’allarme, perché il debito americano ha un padre che si chiama Ronald Reagan e un figlio primogenito e prediletto che ne ha continuato l’opera e si chiama George W. Bush, o Bush figlio. Reagan più che raddoppiò quello che gli era stato consegnato da Jimmy Carter, da 930 a 2.680 miliardi di dollari. Bush figlio fece quasi lo stesso con il testimone ricevuto da Clinton, da 5.660 a 10.700 miliardi, con un aumento medio di 500 miliardi l’anno. Con Obama finora l’aumento medio è nell’ordine dei 1.200 miliardi all’anno, 5mila cioè in un mandato, causa crisi finanziaria ed economica soprattutto. Siamo così oggi, dati 14 maggio del Bureau of the Public Debt del Tesoro, a 15.677 miliardi. Oltre il 100% del Pil, e questo solo con il debito federale ufficiale. Che non è tutto.
Lo squilibrio cronico ormai tra entrate e uscite dei conti federali è di oltre il 30 per cento. La solvibilità del sistema America non è in dubbio, il credito di cui gode Washington sui mercati è ancora molto ampio, come dimostra l’andamento di tutte le aste dei titoli del Tesoro e affini, che la Fed tuttavia ha indirettamente ma ampiamente sostenuto con il quantitative easing.
I nervosismi però non mancano, e sono dovuti a due fattori. Primo, un appuntamento. «Nei prossimi mesi, e forse nelle prossime settimane, i mercati interno e internazionale cercheranno segnali che indicano la capacità dei nostri politici di capire la gravità della situazione e di sapere e voler agire di conseguenza», dice Mohamed A. El-Erian di Pimco, il gigante californiano (dal 2000 gruppo Allianz) del reddito fisso. Se con il 1° gennaio 2013 scatta senza interventi di riequilibrio la fine dei tagli fiscali dell’era Bush, a favore soprattutto dei redditi medio-alti, rinnovati nel dicembre 2010, e la fine di altre importanti voci di sostegno fiscale ai redditi più bassi e alla disoccupazione, più altre voci, ci saranno di colpo 388 miliardi di meno per l’economia nell’anno fiscale 2013. È il cosiddetto fiscal cliff, o baratro fiscale. Questo sottrarrà più del 3% del Pil, e sarà recessione. Per evitarla, occorre limitare o compensare la cifra mancante. Nello stesso tempo, e in direzione opposta, occorre però rallentare i ritmi insostenibili dell’indebitamento. Per questo Romney parla di interventi straordinari, di campane a martello, come quando la prateria brucia. C’è un piano repubblicano, e Romney solo in parte lo ha fatto suo, che di fatto darebbe un colpo potente allo stato sociale, assistenza medica ad anziani e poveri soprattutto, e pensioni.
L’altro fattore che innervosisce i mercati è la reale entità del debito americano. Che non è di quasi 16mila, ma di oltre 20mila miliardi, più alto sul Pil quindi di quello italiano. I conti pubblici sono sempre stati sui generis negli Stati Uniti, retaggio dei tempi in cui il Paese non doveva preoccuparsene. Ma ai presto 16mila federali vanno aggiunti i non meno di 3mila di Stati ed enti locali, e una parte almeno dell’enorme debito delle mergafinanziarie immobiliari Fannie Mae e Freddie Mac, nazionalizzate di fatto. Che hanno sì in portafoglio titoli di un enorme patrimonio immobiliare, ma anche l’obbligo di garantire la rendita di mutui che sono o saranno insolventi o insolvibili, e il mercato della casa va sempre malissimo. Oltre a un debito obbligazionario di circa 1.700 miliardi. Alla fine, altri 2.500 miliardi, non meno. Siamo così a 21.500 circa.
Lo zio Sam non può pensare troppo all’Europa, al momento, se non con buone parole, e non è ancora chiaro se sono maggiori i guai che l’Europa può arrecare all’America, con la sua crisi, o quelli che l’America può arrecare all’Europa, con la paralisi apparente della sua classe politica.