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 2012  maggio 17 Giovedì calendario

HABEMUS PRESIDENTEM

Perché sei diventato comunista?”. “Perché non ti senti isolato e fai parte di un movimento che va avanti in tutto il mondo”. Ne La Sconfitta, 40 anni e molti super 8 fa, Nanni era già Moretti. Vespe rosse, illusioni, abbagli, ripulsa per “i desideri delle masse”, aderente coincidenza con le opinioni della minoranza e cinema. Anche se il presidente della Giuria di Cannes per montare un cavalletto non è più costretto alle lunghe sedute nel cesso di casa affrontate nel preistorico Pâté de bourgeois, l’idea del rigore monastico non l’ha abbandonato. Una porta, una chiave, un conclave. E dietro, Moretti. A dir messa nel territorio preferito dal sacrilego. In cui la Francia muta, si traveste, taglia dialetti e non è più la galleria che rivela il profilo di Mentone ne La stanza del figlio, ma solo un viaggio, l’ennesimo, in un non luogo che gli somiglia poco, ma l’ha adottato e premiato. Ora, per contrappasso, lo reclude. Con una compagnia di giro teatrale, costretta allo stesso lavorìo psicologico della malinconica banda di Io sono un autarchico.
ANCHE questa volta i piani narrativi sono sovrapposti. Comanda Nanni, Preside e non semplice professore della Marilyn Monroe (in effige, casualità, sui manifesti del 65° Festival) e gli altri in fila (“sarò una specie di capoclasse” concede lui) dipanando una dialettica inclinata in cui si discuterà “democraticamente” per poi lasciare al “capo” l’ultima parola. Si è partiti ieri, con Moonrise Kingdom, l’educazione sentimentale di due dodicenni nel New England del ’65 filmata da Wes Anderson, e si andrà avanti per due settimane. Lui è entrato nel ruolo. Detta il decalogo del buon giurato. Sostiene che preveda regole severe. “Non si applaude a proiezione in corso” né “si corre alle feste”. Ma ci si incontra “ogni due giorni” per confrontarsi “su quattro titoli per volta”. Foglietti, appunti, valutazioni. Cannes è un festival serio. Ospita tette, maestri e buttafuori nervosi. Cialtroni e ministri che a volte collimano per inclinazione e identità. Come ovunque, sciamano capolavori, opere soporifere, scoperte e diagrammi punitivi, ma fino a quando non si è seduti in sala per ascoltare il verdetto finale, sapere chi ha vinto è quasi impossibile. Lo ignorano i registi, cercano invano lumi i produttori . Si gioca al buio, avvertiti dell’ipotesi di un’imprecisato riconoscimento solo 24 ore prima che il circo smonti. Se a Venezia si conosce anche il nome dell’usciere fin dalla sera che precede il Sabba, nel Festival reso grande dal bravo Jacòb la fine non è nota. A decretarla (in un’Arca abitata da Habbas, Kruger, Mc Gregor, Arnold, Payne, Devos, Peck e, stupore, Jean-Paul Gaultier) sarà Moretti. Agirà cartesianamente. Con la maniacalità che gli è propria, in linea con l’originale. Per “esser sicuro di non aver omesso nulla” rifletterà. Ai suoi colleghi d’avventura la consegna del silenzio. Si alzeranno presto, osserveranno film a ritmo fordista (non c’è però alcun obbligo di visione condivisa), scambieranno sguardi, rade impressioni e poi all’ultima curva (di solito in una villa a debita distanza dal caos della Croisette) si riuniranno attorno a un tavolo. L’aneddotica sul tema è vastissima e l’armonia labile. Si può essere d’accordo all’unanimità o litigare. Non è raro che la nazionalità dell’opera indirizzi il favore (a Venezia il passaporto italiano spalanca qualche immunità diplomatica) ed è certo che appassionandosi, si possa alzare il tono scambiando il buongiorno con il vaffanculo.
TRA I GIURATI spira un vento di comunanza che un’opinione difforme può spazzare via. Perché il cinema unisce. Ma se divide, spezza. Moretti l’ha sempre teorizzato e come in Sogni d’oro, dormirà agitato senza temere l’investitura: “Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti. Parlo mai di astrofisica, io? Di neuropsichiatria? Di botanica? Di algebra? Io non parlo di cose che non conosco”. Cannes gli ha sempre suggerito rivoluzioni, voli a planare sulle nequizie italiane (“È inutile che Berlusconi ringrazi gli elettori, può telefonare direttamente a Fausto Bertinotti” disse nel 2001) intemerate, sfoghi, piazze da occupare con voce rotta: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Stavolta rimarrà silente. È politica anche questa, magari in smoking. Se ti chiami Moretti, presiedere Cannes equivale alla designazione. Non c’è un soglio pontificio come in Habemus Papam, ma una pletora di critici pronti a pontificare. Altri giudici. Lesti a eccepire, sezionare, insinuare. E la vacuità (“La vita di un uomo si sporca per sempre se appare su un settimanale”) per Moretti (tracce di morale e di moralismo) merita l’anatema a prescindere. Se a dar retta all’agente immobiliare di Caro diario, in via Dandolo, a Roma, le case valevano il doppio perché “Garibaldi ci aveva fatto la resistenza”, nel luogo più costoso d’Europa, abitare in giuria espone a pressioni non alate. Grandi distribuzioni, complicati Cencelli geografici, denari Usa. Tutti pretendono, a iniziare dai francesi (che hanno 5 film in gara) e non sempre le cortesie per gli ospiti odorano di leggerezza. Pur di decidere in autonomia, comunque, Moretti si flagellerebbe. Lo fece quando guidò Vene-zia omaggiando l’allegro matrimonio indiano di Mira Nair e si ripeterà. Conosce l’unico italiano in gara, Matteo Garrone, da sempre (Sacher d’oro per Silhouette nel 1996) ma paradossalmente, la contiguità può trasformarsi in svantaggio. Dipenderà tutto dal valore di Reality. Un film si può indossare come una Espadrillas o uno stivaletto malese. Comodo o bestiale. Ma fa soffrire. Sempre. Lo schermo è la feritoia di una finestra. Luce. Buio. Moretti in Bianca l’aveva capito: “Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo”. Ora è in marcia e conosce il sentiero.