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 2012  maggio 17 Giovedì calendario

IL CAOS DEI RUMORI DI FONDO E I SILENZI DI ANGELA MERKEL

Sembra che negli ultimi giorni Angela Merkel abbia investito non poco del suo tempo nel distribuire telefonate in giro per l’Europa. Con i colleghi e compagni di strada politici, in Austria e nella stessa Germania, avrebbe insistito soprattutto su un punto: bisogna smettere di dire che la Grecia può uscire dall’euro. Smettere di parlarne, non aumentare il rumore di fondo, non confondere le idee agli elettori greci, ai contribuenti tedeschi, ai risparmiatori italiani.
Il silenzio è meglio. Se c’è un aspetto che colpisce in questa frattura storica, qualunque ne sarà l’esito, è proprio il silenzio della protagonista principale. Il frastuono delle voci inevitabilmente è alto, ma la persona che siede al centro del sistema in fondo tace. Sempre. Persino quando parla. Angela Merkel può offrire preferenze tattiche, segnali indiretti, soprattutto constatazioni. L’altro giorno per esempio, di fronte al dramma politico in corso a Atene, ha osservato: «Bisogna rispettare il fatto che in Grecia ci saranno nuove elezioni. Chiariremo che vogliamo che la Grecia resti nell’euro ed è su questo che i greci stanno votando».
Ma sono messaggi da artigiano della politica, rese dure ed equivoche dall’usura del potere. Le pressioni costanti che Merkel subisce in Germania — dal fronte europeista con cui forse governerà domani, dai liberali euroscettici con cui governa oggi, dai nostalgici del marco come Hans-Werner Sinn dell’Ifo e parte della Bundesbank — inducono la Cancelliera a frenarsi. Le sue carte restano coperte, la faccia da giocatrice di poker, del traguardo finale com’è nella sua testa nulla che trapeli. Merkel preferisce restare enigmatica, nella speranza che i fatti alla fine parlino per lei.
Se questo silenzio al cuore d’Europa accresce il caos più dello stesso rumore di fondo, non è sorprendente. Lo è ancora meno dal momento che non è la prima volta che qualcuno inizia a temere la fuoriuscita di una nazione dal club europeo. L’ultima volta che accadde la ricorda Jacques Delors nelle sue Mémoires. Quando il muro di Berlino era appena crollato, dice l’ex presidente della Commissione europea, «in Francia un certo numero di persone temeva che la Germania uscisse dalla Comunità». Delors corre a Bonn tre giorni dopo la caduta del Muro e sul marciapiede dell’albergo i giornalisti lo accolgono con una sola domanda: «Ha paura?». Il riferimento era ai timori che la nuova Germania «scegliesse un cammino diverso», ricorda Delors, staccandosi dal resto d’Europa. Delors rispose in tedesco: «Ich habe keine Angst! Non ho paura». Anche allora erano in molti, spiega il vecchio ministro delle Finanze di François Mitterrand, quelli che «tacevano per prudenza o diffidenza» non riuscendo a vedere il punto d’arrivo del caos. Delors invece lo indicava e così lo favoriva: una Germania a pieno diritto riunificata e dentro all’Europa.
Oggi invece non c’è nessuno per dire «Ich habe keine Angst». Al massimo Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario, spiega che l’uscita della Grecia dall’euro «dovrebbe avvenire in modo ordinato»: come fosse razionalmente possibile prevederne tutti gli effetti sul sistema bancario greco, sui risparmiatori negli altri Paesi in crisi che temono una fine uguale, sul sistema di pagamenti della Banca centrale europea che si spezzerebbe fra Bundesbank creditrice e Banca di Grecia debitrice, sulla capacità di Atene di pagare le pensioni e gli stipendi, sui rapporti con la Turchia e con la Russia, sui flussi di migranti lungo l’Ebro.
Anche ai tempi del crac Lehman i tecnocrati del Tesoro americano pensavano di aver previsto tutto. Non invitarono gli altri a non avere paura, fingevano solo di non averne. Niente a che vedere, nel 2008 come oggi, con le parole con le quali Frankin Delano Roosevelt giurò da presidente nella Grande Depressione: «Ci riprenderemo e prospereremo. Quindi lasciatemi dire, ci credo fermamente, che la sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa: il terrore senza nome, senza ragione, che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in progresso».
Chi immagina oggi in Europa qualcuno a pronunciare parole del genere ai milioni di spagnoli senza lavoro, agli addetti dei call center calabresi a 300 euro al mese, ai greci in coda davanti alle banche? Non Angela Merkel, non l’appassionato di versetti giapponesi Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, né il suo cauto e sornione dirimpettaio José Manuel Barroso alla Commissione. Del governo italiano il premio Nobel Amartya Sen osserva che non è democratico, ma imposto dal sistema euro, dimenticando (forse) che in Italia il premier è da sempre eletto dal Parlamento.
Eppure quella che Roosevelt chiamava la «leadership of frankness and vigor» è moneta ancora più in crisi in Europa di quanto non sia l’euro in Grecia. Se manca quella, l’Europa potrebbe almeno credere al coraggio discreto, a porte chiuse, del loro fondatore Jean Monnet. Nel 1950, andò a trovare il cancelliere Adenauer nel castello di Schaumburg, affacciato sulle rovine di Bonn distrutta dagli Alleati. Trovò un uomo chiuso, diffidente. «Non poteva credere che gli offrissimo l’eguaglianza», avrebbe poi raccontato Monnet. Quel pomeriggio i due parlarono a lungo. «Vidi poco a poco quel vecchio uomo distendersi e lasciar trapelare l’emozione», scrisse poi Monnet. Il resto della storia è quello che ha portato fino a noi. Fino ad Atene. Ma quale leader oggi è in grado di andare laggiù e poi scrivere delle memorie così?
Federico Fubini