GIANNI RIOTTA, La Stampa 17/5/2012, 17 maggio 2012
Contrordine, americani: lo Zio Sam è vivo più che mai - “N el 1990 la California spendeva per le sue università il doppio di quanto non spendesse per le galere
Contrordine, americani: lo Zio Sam è vivo più che mai - “N el 1990 la California spendeva per le sue università il doppio di quanto non spendesse per le galere. Oggi il sistema carcerario riceve il doppio degli atenei»: la fosca citazione dal saggio di Ed Luce Time to start thinking , colpisce il suo collega del Financial Times Martin Wolf tanto da fargli pronunciare un severo discorso al Carnegie Council di New York: «Siamo nell’età della superpotenza indebolita». Il mito degli Stati Uniti in declino non comincia con il poeta Ezra Pound, persuaso che Benito Mussolini fosse un leader migliore di F. D. Roosevelt, né finisce con John Kennedy che, nei comizi del 1960, protesta nell’accento della Boston bene: «Noi tramontiamo! Comunismo e Russia si rafforzano!». Negli Anni Settanta fa paura il sorpasso economico e tecnologico del Giappone, Ezra Vogel è certo in un saggio del 1979 che «Tokyo sarà Numero 1». Nove anni dopo lo storico Paul Kennedy diventa famoso spiegando che la «caduta dell’impero americano» arriva per il suo «troppo ambizioso orizzonte strategico». 11 settembre 2001 e débâcle Lehman Brothers 2008 sembrano confermare che se il secolo XX è stato «americano», come si vantava fiero l’editore Luce, il XXI non lo sarà più. Forse «cinese», come vogliono i leader di Pechino, magari «asiatico», come ritiene l’economista di Singapore Mahbubani, ma certo non «americano». La sfiducia, così forte negli analisti inglesi - forse un filo nostalgici del XIX secolo dominato dalla Londra della Regina Vittoria -, altrettanto diffusa nella leadership di Pechino, radicata tra gli intellettuali europei, è acuta in America. Salite su un treno dei pendolari in New Jersey, mangiate un panino in una cafeteria di Chicago, partecipate a un summit di esperti a Washington, nostalgia ovunque. In televisione, con i serial sulle hostess Pan Am e i pubblicitari Mad Men, online con la beatificazione di Steve Jobs, rimpianto collettivo dei pionieri geniali di Silicon Valley. Il presidente Obama e il suo sfidante Romney sanno che il 70 per cento degli elettori è insoddisfatto dello stato del Paese, che l’83 per cento crede, sbagliando, che gli Usa siano ancora in recessione. Il 66 per cento scommette che i ragazzi avranno una vita peggiore dei loro genitori (era già la profezia del Nobel per l’economia Krugman nel 1989) e un plumbeo cittadino su tre è certo che «comunque i nostri giorni migliori sono alle spalle». L’analista Daniel Gross con il saggio Better, stronger, faster (migliore, più forte e veloce) ribalta l’equazione mesta: non solo l’America è più in forma degli alleati occidentali, ma innovazione e democrazia la renderanno, anche nel futuro, più duttile e forte di Cina, India e Brasile, centraliste, burocratiche e già in frenata dopo il boom. Gli Usa crescono del 2 per cento (magari fosse vero da noi). Tiepida resta ancora la creazione dei posti di lavoro, osserva Gross, danneggiata non dalla crisi quanto dall’automazione: «Dal febbraio 2010 il settore privato, 83 per cento della nostra economia, ha creato 4,1 milioni di posti, 160.000 al mese, mentre lo Stato tagliava impiegati per l’austerità. Non basta, ma ci stiamo riprendendo». Sul lavoro si deciderà la volata Obama-Romney. I 160.000 nuovi stipendi saranno considerati sufficienti, o no, dagli elettori per rieleggere il giovane presidente democratico? Gli altri indicatori sono più positivi, se confrontati con l’europaralisi del debito e l’impasse politica cinese prima del cambio ai vertici del Partito comunista. La Borsa ha recuperato rispetto al 2009 tanti profitti da suscitare le ire dei ribelli di Occupy Wall Street, ora in piazza non più contro «la crisi», ma contro la «redistribuzione della ricchezza». I profitti lordi della «Corporate America» sono passati, scrive Gross, dai 1250 miliardi di dollari del 2008, ai 1940 miliardi del 2011 (1530 miliardi di euro). Lo stimolo che Washington ha dato all’economia, dagli ultimi giorni della presidenza Bush all’esordio di Obama, il salvataggio dell’auto, la ristrutturazione di tante fabbriche, l’aumento della produttività a ritmi «tedeschi» (5,4 per cento nell’ultimo trimestre 2009, 4,1 per cento nel 2010), l’innovazione, dal Boeing 787 Dreamliner, il retina display dell’iPad, confermano che se la strada è ancora lunga, sbaglia chi già conta al tappeto l’America. Facebook, Google, Amazon, con intorno una nuvola di start up minuscole, fan sì che il sottosegretario Alec Ross stimi al 40 per cento il Pil americano nato da aziende fondate meno di una generazione fa. Nella Guerra fredda falce, martello e volontari cubani del Che Guevara erano ammirati role model in Africa, oggi è Google la regina, mappando le aree remote, collegando le scuole rurali, rilanciando i giornali, mettendo online la burocrazia centrale spesso irraggiungibile per cattive strade e distanze. Per Gross, in conclusione, la crisi 2007-2008 non data l’inizio della caduta dell’impero americano ed è presto perché un Gibbon postmoderno si metta a scriverne la sorte, parallela alla Roma dei Cesari. La crisi ha rigenerato il paese, a prezzo di vive sofferenze e di squilibri gravi, pur con infrastrutture obsolete e scuola, sanità e giustizia da riformare. Better, stronger, faster già irrita i pessimisti, Norm Orenstein e Thomas Mann rilanciano in un loro saggio «la crisi è perfino peggiore di quanto non sembri», mentre Raghuram Rajan prescrive nuovo rigore da Foreign Affairs . I consiglieri di Obama e Romney però ricordano il consiglio del saggio Bill Safire, autore dei discorsi di Richard Nixon: «Nel Novecento la Casa Bianca è sempre andata al candidato con il messaggio più ottimista». Sarà così anche a novembre. C’è voglia di ripresa e perfino l’industria classica fiuta aria nuova: Gm annuncia il lancio della Cadillac XTS, auto lussuosa, grande, da guidare fieri come Mad Men 2012 di un’America che vuol sentirsi già oltre la crisi.