Notizie tratte da: Claudia Fusani # Mille Mariù. Vita di Irene Brin # Castelvecchi Roma 2012 # pp. 278, 22 euro., 17 maggio 2012
Notizie tratte da: Claudia Fusani, Mille Mariù. Vita di Irene Brin, Castelvecchi Roma 2012, pp. 278, 22 euro
Notizie tratte da: Claudia Fusani, Mille Mariù. Vita di Irene Brin, Castelvecchi Roma 2012, pp. 278, 22 euro.
«Io non mi chiamo né Irene né Brin, anche se così figuro in contratti, elenchi telefonici, discorsi familiari. Sono nomi inventati da Longanesi. Io sono un’invenzione di Longanesi» (Irene Brin, 1957).
Maria Vittoria Rossi (vero nome di Irene Brin) nasce a Roma il 14 luglio 1911. Il padre, Vincenzo, è alto ufficiale dell’esercito del re, la madre, Maria Pia Luzzatto, ebrea nata a Vienna, elegante e colta (parla tre-quattro lingue), ha come passatempo la lettura e i viaggi, ed è ambiziosa.
La famiglia Rossi va ad abitare prima a Firenze, dove nasce l’altra figlia Franca, e poi in Liguria a Sasso di Bordighera. Qui, ancora pochi anni fa, le più anziane ricordavano «madame e la figlia, allora pienotta e tonda nonostante i busti con stecche di balena, sempre elegantissima con i cappellini e le bluse con i colli importanti anche solo per passeggiare nel borgo».
Maria Vittoria, soprannominata Mariù, smette di frequentare la quarta ginnasio nel 1926: della sua istruzione si occupa la madre. Così a vent’anni parla e scrive in cinque lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano). Legge un libro al giorno, ama i romanzi epistolari, sa a memoria tutta l’opera di Saint-Simon, adora Proust.
Un racconto di Enrico Terracini pubblicato su Solaria nel 1934, malevolo nei confronti della famiglia Rossi e soprattutto di Maria Vittoria, celata dietro un personaggio di nome Claudina: «Claudina ha solo vent’anni ma tutto si è già perduto senza speranza e il corpo che è sfinito dal lungo cilicio del dimagrire ed i seni sfioriti a non portare il reggipetto e la pallida tremante schiena. […] Con Claudina non si può combinare nulla. Quella, quando vengono gli amici, parla solo delle sue letture preferite, della sua cultura internazionale, di tutto quel che sa». Terracini era collega un po’ invidioso di Maria Vittoria al Lavoro di Genova, forse anche innamorato respinto.
Dopo aver letto uno dei suoi primi articoli sul Lavoro, Pirandello le scrive un bigliettino: «Brava Mariù, farai carriera».
Gli articoli di costume allora si chiamavano “cani schiacciati”: «Nessun redattore vero voleva occuparsi dei cani schiacciati, metaforicamente o no, tranne questa ragazzina miope, con le gambe lunghe, una curiosità inesauribile. […] Ben presto tutte le collegiali ligure (o lombarde) si dedicarono ai cani schiacciati. Le distaccai scoprendo il cuore della donna cannone o il motivo segreto per cui Girardengo anziano tornava alla bici» (Irene Brin, 1952 – L’Italia che esplode).
Alcuni pseudonimi usati da Maria Vittoria Rossi, oltre a Irene Brin: Marlene, Oriane, Mariù, Maria Del Corso, Geraldina Tron, Ortensia, Contessa Clara, Madame d’O, Cecil-Wyndham Alighieri ecc.
Molto miope, non vuol mettere gli occhiali. Quando finalmente si decide, ne indossa di stravaganti: colorati, con brillanti, strass e disegni. È anche tra le prime in Italia a usare le lenti a contatto.
«Ci sono in giro molte fotogafie di Irene Brin. Nessuna somiglia all’altra, ma tutte somigliano all’originale, com’era nel momento in cui fu ritratto. C’è un’Irene Brin bionda, diafana e trasparente come una guaina di cellofan, e ce n’è un’altra bruna, compatta e notturna come un’ala di corvo. Ce n’è una classicheggiante, rotonda e compiuta come una quaglia; e ce n’è un’altra gotica, sottile e ritorta come un serpente. La Irene bionda parla, si veste e perfino pensa in maniera molto diversa dalla Irene bruna; la Irene rotonda si muove, si pettina e perfino scrive in maniera molto diversa da quella sottile. Come diavolo faccia, questa donna, a ingrassare e dimagrire nello spazio di poche ore, solo lei lo sa, o forse non lo sa nemmeno lei» (Indro Montanelli, 1952).
Spesso insieme alla madre e alla sorella prende il treno da Genova alla volta di Roma per frequentare il bel mondo. Nel febbraio del 1935, nel salone delle feste dell’hotel Excelsior in via Veneto conosce il tenente Gaspero Del Corso. Così lui la ricorda: «Rimasi affascinato dalla splendida figura di Irene, nerissima di capelli, occhi verdi, un abito da sera di lamé bianco, una piccola coda e foderato di rosso. Elegantissima». Per tutta la sera parlano di Proust. Si sposano il 3 aprile 1937, giorno in cui esce il primo numero di Omnibus, di cui è collaboratrice.
Il matrimonio è soprattutto un’eccezionale amicizia, data l’omosessualità di Del Corso (terribile momento, per lui, quando l’amico tunisino Abdel gli annuncia che non lo raggiungerà a Roma). L’uomo diffida chiunque dal parlare del rapporto tra loro. Racconta Lietta Tornabuoni: «Quando scrissi la nota per un volume pubblicato da Sellerio, mi permisi di definirli una coppia eccentrica. E lui si arrabbiò tantissimo».
Nell’inverno del 1938 Maria Vittoria riceve un telegramma: «Articolo bellissimo, trovato nome. Longanesi». L’articolo «bellissimo» è “Sera al Florida”, il nome “Irene Brin”.
Grazie al successo su Omnibus, s’iniziò a dire «brinata» per indicare un articolo di costume e società scritto con arguzia, divertente, ironico, ricco di citazioni.
In un editoriale del Bertoldo del 1938 il calembour: «Irenebrinentrano, Irenebrindano, Irenescono».
Nel marzo del 1941, ormai chiuso Omnibus di Longanesi, Irene Brin segue il marito Gaspero Del Corso, ufficiale, a Belgrado. Resta in Jugoslavia per due anni e da lì scrive i suoi reportage. Tornano a Roma nel 1943: «Ritrovammo perfino la nostra casa di Roma, l’appartamento al piano attico di palazzo Torlonia, anche se quasi vuota».
Con l’armistizio, il marito di Irene Brin diventa un disertore ricercato dalle SS. Lei non ha più tante collaborazioni: «Il 10 settembre 1943 fece di tutti e due dei disoccupati senza soldi né scopi. Gaspero era stato ufficiale, come romanticamente si usava dire, del re ma il re se ne andava a Pescara e lui restava a combattere con i suoi soldati nei pressi di Forte Aurelio, poi spezzava le mitragliatrici, nacondeva la bandiera in una parete che murammo e trentasette soldati nella soffitta».
Nel 1943 accetta un lavoro di commessa, senza stipendio ma con percentuale sulle vendite, nella bottega di arte e antiquariato “La Margherita”, in via Bissolati, di proprietà di Federico Valle, direttore della rivista Documento. Racconta la Brin: «Questi amici volevano fare una specie di bazar dove avrebbero venduto i loro oggetti personali. Cercavano una commessa poliglotta e cortese e mi chiesero se ne conoscevo per caso qualcuna. Risposi che ne conoscevo una dalla nascita e mi offrii a patto che potessi vendere anche la mia roba».
Per il negozio si mette a creare gioielli «surrealisti» fatti cucendo insieme grossi nastri di seta e occhi di vetro da imbalsamatore.
Tra i frequentatori della “Margherita” Luchino Visconti che «capitava lì, con grossi occhiali neri che lo nascondevano pochissimo», Guttuso, Massimo Girotti, Antonio Roi. Poi un giorno passa di lì un giovanotto bellissimo con la camicia stracciata e una cartella piena di disegni: è Renzo Vespignani. Ricorda il marito di Irene Brin: «Per quei disegni gli diedi quel poco che avevo e in mezza giornata rivendetti tutto. Credo che tutti e due, con i denari, comprammo la stessa cosa: una camicia». Decidono così di investire nell’arte e organizzano le prime mostre del Dopoguerra.
Nel 1946 La Margherita chiude. Con qualche soldo lasciatole in eredità dal padre, Irene Brin e il marito investono tutto in una piccola galleria in via Sistina 146 che chiamano L’Obelisco. Organizzano mostre e vendite di Burri, Matta, Toulouse-Lautrec, Dalì, Magritte, Tanguy, Rauschenberg ecc.
«Ridotta al mio ultimo paio di sandali rotti, fui felicissima di prendere il posto che mi aspettava, quello subalterno. Per due tre anni rappresentai qualcosa di mezzo tra la dattilografa e il fattorino, rispondevo al telefono, dattilografavo indirizzi, sbrigavo la corrispondenza mentre mio marito realizzava il compito, secondo me unicamente virile, di scoprire talenti, coordinare iniziative, crearsi un fondo e subito dopo una clientela stabile».
Nel 1954, non si sa come, riescono a intercettare le opere della mostra “I Picasso in Russia”, di passaggio a Roma nel viaggio di rientro da San Pietroburgo a Parigi. Per 48 ore le tengono in esposizione all’Obelisco, dormendo in galleria per due notti.
«Irene Brin è stata una donna straordinaria, di grandissima creatività ma profondamente lacerata. Viveva cinque giorni buoni e sereni, ma dopo c’erano sempre uno o due giorni di terribile depressione con punte autodistruttive e tutto diventava plumbeo e pesante. Era come se troppa serenità non andasse bene ed una vita tranquilla le fosse estranea» (il nipote Vincent Torre).
Nel 1950 Luigi Barzini jr fonda la Settimana Incom Illustrata e chiama Irene Brin a collaborare: risponde alle lettere dei lettori firmandosi come Contessa Clara Radjanni Von Schewitch, nobildonna austroungarica settantenne, un paio di mariti e diversi figli, maestra del vivere. Dopo appena sei mesi la posta è così tanta che la Contessa dispone ogni settimana di due pagine. La rubrica prosegue fino all’ultimo numero della Settimana Incom Illustrata, nel 1968.
«Insegnava mirabilmente ogni cosa con immensa autorità, come si abbandona un fidanzato noioso, come si offre il tè, come si parte in viaggio di nozze, come si fa a far fare carriera al marito, come ci si comporta in situazioni scabrose». (Luigi Barzini jr)
T.S. da Roma chiede alla Contessa Clara cosa fare con l’amante straniero, da cui è riamata, che però è di trent’anni più giovane. Risposta: «Credo che qualcuno stia scherzando. O il suo straniero con lei. O lei con me».
Alla giovane, di nome Foscarina, che le chiede quale dedica scrivere sotto una sua fotografia: «F., cara, visto che ha il coraggio di chiamarsi Foscarina».
Gina B. di Milano, che le confessa di amare un «cancelliere ventitreenne, è napoletano ed esercita a Potenza. Io sedicenne emiliana abito a Milano dalla nonna torinese. I miei, liguri, non vogliono questo rapporto causa differenza di età. Come regolarmi?». Risposta: «Comprando una buona carta geografica e facendosi socia del Touring Club. Lo sposi, sia felice e faccia in modo che i vostri figli parlino tutti i dialetti di famiglia, diventeranno dei commessi viaggiatori popolarissimi».
La Contessa Clara al lettore che si lamenta perché «il 99% delle ragazze va a ballare per trovare marito, il 4% per sfoggiare abiti da sera, il 3% per passare la serata. Solo l’1% per ascoltare la musica»: «La statistica è una passione pericolosa e tristissima».
La mania di Irene Brin di indossare, in estate e in inverno, la ciabattina tipo Chanel, aperta davanti e dietro, con tacco di cinque-sei centimetri. Altra passione: i guanti di pizzo o di seta, da portare più o meno lunghi.
«Pensate a Mallarmé anche se siete impiegato alla posta, ufficio raccomandate, e ditevi che ogni giorno nuovo è bellissimo. (…) Pensate a Katherine Mansfield anche se occupate provvisoriamente un posto di supplente nella scuoletta rurale di un villaggio isolato ed apprezzate un fiore, un viso infantile, una lettura squisita. (…) Pensate a Gogol se dovete sopportare una villania burocratica». (Contessa Clara)
Irene Brin costantemente a dieta: il pranzo è costituito quasi sempre da un bicchiere di champagne accompagnato da un cucchiaio di risotto, magari al blu di metilene.
«Una volta, invitati a pranzo nell’appartamento dei Del Corso a palazzo Torlonia, servì del riso azzurro sagomato a forma di cigno» (Lietta Tornabuoni).
Nel 1950 Irene Brin racconta che conobbe Diane Vreeland un pomeriggio passeggiando in Park Avenue a New York: l’anziana signora l’avva fermata per chiederle il nome dello stilista del suo tailleur (Fabiani). Dopo qualche chiacchiera e qualche incontro la Vreeland le propone di diventare capo dell’ufficio italiano di Harper’s Bazaar.
Verso la fine del 1951 Irene Brin scopre di essere incinta: «Sarebbe stato il primo e non ero più giovane. Allegro, tenero tempismo che mi parve la ricompensa finale. Un avvenire di lini bianchi inamidati, di fogli non meno bianchi. Non avevo l’età in cui ci si lascia sorprendere dalla mamma o dal marito col golfino rosa in mano. E nemmeno l’età della prudenza eccessiva. Accettai un grosso lavoro fuori Roma per cui avrei guadagnato di che pagare la culla, il mio ozio e forse l’ultimissima nurse. Ebbi un aborto al terzo mese».
«Datemi un punto d’appoggio, diceva Archimede, e vi solleverò il mondo. Datemi un abitino nero e mi ci costruirò il guardaroba» (Irene Brin).
Nel maggio del 1969, ormai molto ammalata, vuole comunque organizzare un viaggio in automobile a Strasburgo per vedere la mostra di Diaghilev cui l’Obelisco aveva contribuito. Lietta Tornabuoni, riportando un ricordo del marito di lei: «Fu un viaggio terribile, a piccole tappe d’angoscia, con lei che si sentì sempre peggio ma visitò la mostra, irriducibile, eretta nei suoi bei vestiti eleganti, inappuntabile coi suoi guantini bianchi, eroica e morente. Al ritorno dovemmo sostare a Lione perché stava troppo male. Poi raggiungemmo la casa di Bordighera. Qui morì in otto giorni. Alla fine vaneggiava un poco, parlava di partire con un’amica americana. Le sue ultime parole furono per dire: “Voglio fare un viaggio”». È il 29 maggio 1969.
«Era una donna che mi piaceva moltissimo e ancora oggi la vedo fantastica quando prendeva il taxi, con i sandali col tallone scoperto e le prime dita del piede fuori, la pettinatura elaborata e cotonata per andare a Tor Pignattara per un servizio sulla prima periferia di Roma» (Lietta Tornabuoni)