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 2012  maggio 17 Giovedì calendario

191 anni in due. «Il nostro segreto? Sposati da 72» Sembrano usciti da una foto di altri tempi, di quelle color seppia che ci guardano dall’ovale di una cornice

191 anni in due. «Il nostro segreto? Sposati da 72» Sembrano usciti da una foto di altri tempi, di quelle color seppia che ci guardano dall’ovale di una cornice. Ritto in piedi vicino alla porta d’ingresso lui, giacca e cravatta, la stretta di mano vi­gorosa. Elegante e già seduta in tinello lei, capelli appena fatti e tre fili di perle. Sul tavolo il vassoio contiene ancora i confetti della festa: «Quelli d’ar­gento rappresentano i primi 25 anni di matrimonio, quelli d’oro i 50, i bianchi sono per i 60, le nozze di diamante, le ultime previste dai pasticcieri... Quelli rossi si usano per la laurea – spiega lui – e io dopo 72 anni di matrimonio sono laurea­to in Scienze della sopportazio­ne». Lei potrebbe dire altrettan­to, invece sorride. Lui è Emilio Terzariol, classe 1915, 97 anni e due guerre mon­diali sulle spalle, lei è sua moglie Amabile, tre anni più giovane e per questo « la Guera Granda l’ha scansà», racconta il marito. «Io e­ro bambino ma ricordo i palloni vedetta ancorati a terra che portavano in cielo i soldati a controllare il fronte tedesco oltre il fiume...». Siamo in Veneto, a trecento metri dal greto del Piave, e la ’Guera Gran­da’ qui si respira ancora: a due passi c’è il mitico Montello, con il grande ossario che accoglie insie­me le spoglie dei soldati italiani e austro-ungarici u­na volta nemici, e a Nervesa della Battaglia la tom­ba di Francesco Baracca. È stata proprio la prima guerra mondiale a sfollare mamma Elisabetta quando era incinta, e così nel 1918 Amabile è nata a Milano. Di nuovo Milano è en­trata nella sua vita con la seconda guerra e lì, per a­more, l’ha seguita il suo Emilio, con il quale si è spo­sata nell’aprile del 1940. «Il parroco era don Anto­nio Regondi – scandisce Emilio –. Amabile aveva guanti e cappello bordeaux e tailleur grigio». «Emi­lio invece aveva il vestito della domenica...». Nel do­poguerra il rientro a Spresiano e la nascita di Tina, che oggi se li coccola come fossero loro i suoi figli: «Tieni la tua bambola», sorride alla madre, che su­bito la stringe come un tempo non aveva potuto fa­re con Tina («dovevo lavorare sodo»), mentre al pa­dre porge la gavetta, che porta ancora incise date e invocazioni scritte in prigionia: «Chi non aveva un recipiente non mangiava e io, grazie a Dio, trovai questa per terra. Mi ha seguito per tutta la Germa­nia ». Sul fondo è inciso il nome del vecchio pro­prietario, Alfredo, e di una donna, Anna, «certamente il suo amore». Forse è stata la vita di sacrifici a temprare questa classe di ferro, fatto sta che marito e moglie, 191 an­ni in due, ricordano tutto del passato, vivono con pienezza il presente, attendono il futuro con spe­ranza. «Un mese dopo il matrimonio sono stato ri­chiamato militare – continua Emilio –. Il 4 novem­bre mi hanno congedato, grazie al fatto che erava­mo quattro fratelli tutti al fronte, come nella fami­glia del soldato Ryan, ma nel 1942 il richiamo è sta­to senza esoneri perché c’era penuria di uomini, co­sì sono finito a Divaccia, allora I­talia, oggi Slovenia». Sembra un film la lunga vita di Emilio, tra combattimenti, l’8 settembre che coglie di sorpresa il battaglione, la deportazione sui carri bestiame (’Ma ritorneremo’, ha inciso sul­la gavetta quel giorno), la scritta ’Krieggefangener’ (prigioniero di guerra) sulla schiena, l’arrivo a Ludwinsort nella polveriera­campo di lavoro, le baracche, la fame... Ma poi i russi che avan­zano verso ovest, l’esercito tede­sco in fuga, «e allora anche noi siamo scappati allo sbaraglio, fi­no a Danzica tutto a piedi, poi lì ci hanno presi i russi...». Era il 25 marzo del ’45, come è graffito sul­la gavetta sotto la parola ’Libera­to’, perché «dei russi non mi sen­tivo prigioniero, ormai il lieto fi­ne era all’orizzonte, e dopo varie peripezie il 6 ottobre del ’45 sono arrivato qui a Spresiano in treno. Amabile intanto era a Milano». Per lei però l’orizzonte restava buio, da tre anni non sapeva nemmeno più se il marito era vi­vo. «A guerra finita, in Stazione Centrale arrivavano i treni dei fe­riti e tutti i giorni andavo a vede­re se c’era anche Emilio... Vedi scendere uomini sen­za gambe, senza mani, senza occhi, ma comunque speri che sia tra loro». «Io intanto arrivavo davvero in treno, e non avevo il biglietto», si dispiace per un attimo il marito con la schietta onestà di certi anziani, «ma era tutto allo sfascio e certo non c’erano i con­trollori ». «Non c’erano nemmeno i telefoni – conti­nua la moglie –: qualcuno ti suonava alla porta e... o c’era il morto o c’era il vivo. Così una sera me lo so­no visto all’uscio di casa...». Da lì sono ripartiti gli an­ni da vivere in coppia, uno dopo l’altro, fino a que­sta festa dei 72, e se si chiede quale sia il loro elisir di lunga vita insieme non hanno dubbi: «Il perdonar­si, l’affrontare uniti le difficoltà e l’affidarsi al Signo­re ». Chi ha visto due guerre e conosciuto la povertà («anche con le tessere non c’era nulla da mangiare») non accetta scuse: «Oggi i giovani non si sposano finché non hanno tanti soldi, ma io chiesi 3.000 lire di prestito matrimoniale al duce (me ne diede 2.000) e li restituimmo 150 lire al mese, così abbiamo com­prato i mobili. La casa ce la siamo costruita, ogni o­ra libera che avevo ero qua a lavorare. E per testimoni di nozze abbiamo fermato due passanti per strada». Insomma, per sposarsi, dicono, non occorre altro che volersi un po’ di bene. Poi «dove vive uno di si­curo si vive anche in due».