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 2012  maggio 17 Giovedì calendario

C’è un disclaimer che apre l’ultimo pamphlet di Antonio Pascale, Pane e pace (Chiarelettere), brillante arringa circa la necessità di abbandonare ogni pruderie antiscientifica e ogni tentazione nostalgica (i buoni sapori di una volta, quando si crepava di fame) in materie come agricoltura, alimentazione, Ogm, politica della ricerca

C’è un disclaimer che apre l’ultimo pamphlet di Antonio Pascale, Pane e pace (Chiarelettere), brillante arringa circa la necessità di abbandonare ogni pruderie antiscientifica e ogni tentazione nostalgica (i buoni sapori di una volta, quando si crepava di fame) in materie come agricoltura, alimentazione, Ogm, politica della ricerca. Sono uno scrittore, dice Pascale, non uno scienziato; un cittadino come gli altri. Mi documento su fonti autorevoli, scientifiche, vagliate col criterio della peer review, e le traduco in un linguaggio accessibile tramite storie, aneddoti, paragoni e immagini ben scelte. Dunque, è la conclusione, poiché ho chiarito i miei limiti fidatevi: non sono favole, vi dirò la verità, anche se non la posso controllare di persona.
Conclusione problematica. Intanto perché Pascale non è solo scrittore ma anche agronomo di professione: un po’ ne mastica, e quindi la responsabilità che gli chiediamo è anche, in una certa misura, quella dello scienziato. Poi perché i suoi lettori sanno bene come sia solito interpolare, in racconti e romanzi, una serie di godibilissime riflessioni sugli stessi temi e dello stesso tenore — che rabbia i catastrofisti, che perdita di tempo il sospetto paranoico per la scienza —: fanno parte della caratterizzazione dei suoi personaggi, primo fra tutti l’alter-ego Vincenzo Postiglione, alla stessa stregua delle azioni che compiono e dei sentimenti che provano. Infine, ed è il punto decisivo, perché se non Pascale, almeno in parte capace di vagliare prove e controprove, di certo il suo lettore non è in grado di controllare se quello che l’autore scrive è giusto o no. Deve credergli. Perché argomenta ragionevolmente. Perché scrive bene. Perché è lucido, arguto, pacato e persuasivo. Dai tempi di Primo Levi, nessuno scrittore ha parlato di scienza con tanta proprietà e chiarezza. La sua retorica, al netto dell’understatement, è di un’efficacia micidiale: finito di leggerlo ti auguri che le baleniere speronino Greenpeace, e picchieresti Mario Capanna — che spaccia frottole tipo quella della famigerata fragola-pesce — come i bei celerini di una volta. Gli Ogm fanno benissimo! Non puoi giurare che sia vero, ma ti auguri tanto di sì; e che la scienza, liberata dalla pastoie oscurantistiche, ci regali finalmente il pane e la pace di cui al titolo. La scienza è una politica all’altezza, fondata su un’opinione pubblica consapevole e matura.
Ognuno vede come qui si agiti una questione capitale: la capacità di comprendere, sia pure per sommi capi, cosa succeda e cosa implichi ciò che accade nella scienza, dovrebbe essere diritto e dovere di ogni cittadino. Ne va del benessere e del futuro di tutti. però il problema del fatto che la scienza moderna è fin dalla sua genesi controintuitiva (non è il sole, è la terra che gira!), refrattaria alla possibilità di essere compresa da ciascuno, distruttrice dei dati dell’esperienza sensibile ordinaria. Pensiamo ad Einstein o alla fisica quantistica: spazio e tempo reali non sono mica quelli che pensate; e il tempo, poi, chissà se esiste per davvero. Può la letteratura intermediare onestamente? Cosa distingue un testo come quello di Pascale da uno che comincia col disclaimer: «Chiamatemi Ismaele», e che tra le altre cose contiene anche tantissime informazioni scientifiche sulle balene?
La disapprovazione di Greenpeace è la sola cosa che accomuna Moby Dick a Pane e Pace? Ciò non per insinuare che Pascale conti storie. Ma per mostrare quanto il suo ottimismo divulgativo faccia il paio con la fiducia, non fideistica ma altrettanto fervida, che identifica la scienza con ciò che pensano al momento gli scienziati. Ma gli scienziati, si sa, cambiano spesso idea, e per fortuna: è loro preciso dovere deontologico. Una volta l’amianto non faceva male. Certo non c’è altra via che la verifica scientifica, ma è lecito coltivare almeno un poco di ansia? A leggere Pascale par di no, l’avvenire è radioso (se Slowfood e i Verdi si tolgono di mezzo), e perfino le cattivissime multinazionali sono solo fortunati attori economici che operano in regime di monopolio per i troppi vincoli posti alla ricerca pubblica.
Primo Levi era più cauto. Tutti i suoi racconti di fantascienza prendono le mosse da un’anomalia, uno scarto, un errore scientifico che genera una mostruosità (vedi appunto un libro come Vizio di forma). Che cosa con la scienza gli umani siano stati capaci di fare a loro stessi è testimoniato dalle stragi del Novecento, di cui Levi aveva esperienza diretta. Pascale evoca una poesia di Majakovskij in cui si immagina che uno scienziato trovi il modo di resuscitare i morti, riparando le sofferenze non solo future, ma passate. Non era l’unico: nella neonata Urss si diffuse, anche se per poco, questa speranza utopica, tanto era l’entusiasmo che il socialismo aveva scatenato tra gli intellettuali. Non è andata così, e non è detto che sia un male. L’ansia in materia è forse il migliore dei disclaimer. Chiarito ciò, poiché di sola ansia non si vive, un testo incoraggiante come quello di Pascale può liberare tutto il suo potenziale di contrappeso.